Nel romanzo fantapolitico di George Orwell, “1984”, le notizie sgradite vengono vaporizzate: cancellate, rimosse dalla storia, come se non fossero mai esistite. «Chi controlla il passato controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il passato», è lo slogan del regime. Nell’Italia smemorata di oggi il revisionismo di stampo orwelliano si arricchisce di un nuovo contributo: un libro di Mario Segni sul Piano Solo, che liquida quel progetto golpista del 1964 come una montatura giornalistica, accusando l’Espresso di aver inventato «la madre di tutte le fake news». Parole gravi, ma scollegate dalla realtà dei fatti, documentata da migliaia di atti parlamentari, dettagliati studi storici, fondamentali testimonianze mai smentite e definitive sentenze giudiziarie, tutte favorevoli all’Espresso.
L’autore dell’opera non è in una posizione di assoluta imparzialità: è figlio di Antonio Segni, il politico democristiano che era Presidente della Repubblica all’epoca del Piano Solo, dimessosi dalla carica nel dicembre 1964 per malattia, poi accusato da mezzo Parlamento, compresi importanti ministri del suo stesso partito, di aver quantomeno tollerato le «deviazioni autoritarie» del Sifar, il servizio segreto militare allora dominato dal generale Giovanni De Lorenzo. L’ex presidente Segni, morto nel 1972, non ha mai querelato l’Espresso, che svelò il Piano Solo con una serie di articoli pubblicati a partire dal maggio 1967. Oggi però suo figlio proclama che il processo intentato da De Lorenzo a Roma contro il fondatore e direttore dell’Espresso, Eugenio Scalfari, e il giornalista Lino Jannuzzi, si sarebbe «concluso con la condanna a pene vicine a quelle massime per la diffamazione». Nelle interviste che pubblicizzano il libro, Mario Segni dimentica di precisare che quello era solo il verdetto di primo grado. E la sentenza finale? Vaporizzata. Eppure è pubblicata integralmente nel documentatissimo libro di Mimmo Franzinelli sul Piano Solo: Scalfari e Jannuzzi sono stati prosciolti dalla Corte d’Appello. Che non ha dovuto nemmeno riaprire il caso.
Lo stesso De Lorenzo ha infatti ritirato le sue accuse, dopo aver visto assolvere già in primo grado, in un processo parallelo, altri due giornalisti dell’Espresso, Gianni Corbi e Carlo Gregoretti. Nell’atto di «remissione» di entrambe le querele, datato 18 ottobre 1972, il generale riconosce di non avere «nulla a pretendere» dall’Espresso, che non ha sborsato alcun risarcimento. Scalfari e Jannuzzi hanno respinto pure l’invito di De Lorenzo a firmare anche solo «una lettera cordiale».
L’assoluzione dell’Espresso è una verità giudiziaria, che si può criticare, ma non ignorare. Nessun revisionista è mai arrivato, ad esempio, a riscrivere la storia del processo a Enzo Tortora, parlando solo della condanna in primo grado e non dell’assoluzione in appello. A spiegare la ritirata strategica di De Lorenzo, oltre alla debolezza delle motivazioni della condanna poi annullata, è la forza probatoria di una requisitoria, poi recepita in molte importanti sentenze successive, firmata da un grande magistrato, Vittorio Occorsio, ucciso nel 1976 da un terrorista di destra. Chiamato a rappresentare l’accusa in primo grado, il pm ha chiesto invece l’assoluzione, confermando «la verità dei fatti» rivelati da Scalfari e Jannuzzi. La sua requisitoria è trascritta fin dal 1968 nel libro di Roberto Martinelli sul Sifar. Occorsio premette che lui stesso, all’inizio, pensava che «il colpo di Stato fosse una favola», ma si è ricreduto interrogando in aula «sei parlamentari, dodici generali, otto colonnelli», per concludere che «le cronache dell’Espresso sono vere, i fatti materiali sono stati provati».
Con quella requisitoria il processo ai giornalisti si ritorce contro il generale. Occorsio parte dagli articoli dell’Espresso sulle «schedature illecite» di politici e attivisti di sinistra: «Cosa faceva il Sifar nel 1964? Spiava!», tuona il magistrato: «Che il Sifar avesse deviato dai suoi compiti, lo dimostra il fatto che il ministero della Difesa ha comunicato di aver distrutto 34 mila fascicoli che nulla avevano a che fare con la sicurezza dello Stato... Prima di De Lorenzo, mai il Sifar aveva spiato la vita privata di uomini politici». Alla base del Piano Solo, così chiamato perché coinvolgeva solo ufficiali dei carabinieri, c’era proprio quel dossieraggio: il piano prevedeva di «arrestare illegalmente» persone già schedate e spiate da anni.
Occorsio sottolinea che le «liste dei politici da concentrare nelle caserme» furono discusse da De Lorenzo con almeno sei generali e colonnelli dei carabinieri, tra cui Carlo Alberto Dalla Chiesa, che al processo l’hanno testimoniato «con molta lealtà». Per fermare lo scandalo, il governo presieduto da Aldo Moro impose il segreto di Stato sulle relazioni d’inchiesta firmate da altri due generali, Manes e Beolchini, che per 24 anni sono rimaste coperte da «omissis». Il segreto è stato tolto solo nel 1991.
Secondo Mario Segni, gli omissis non nascondevano alcuna prova di «pressioni militari sul governo» e l’intero Piano Solo sarebbe «un cumulo di falsità». La sua opinione contrasta però con montagne di documenti non trascurabili. Come le sentenze di condanna per le stragi neofasciste: caduti i segreti di Stato, tutti i giudici, da Brescia a Bologna, concordano nel definire il Piano Solo, testualmente, «un progetto eversivo, golpista», che segnò «l’inizio della strategia della tensione».
In questi anni l’accusa non si è indebolita, ma arricchita di nuove testimonianze autorevoli. Il generale Nicolò Bozzo, ad esempio, ha dichiarato sotto giuramento di aver ricevuto personalmente una lista di vittime «da deportare dall’aeroporto di Linate in Sardegna», per rinchiudere in una base segreta di Gladio. I nuovi atti confermano che erano previsti 731 arresti «illegali», con «occupazione militare della Rai-Tv e delle prefetture».
L'avvocato Giandomenico Pisapia con Eugenio Scalfari durante il processo seguito alle denunce de L'Espresso
Nel processo all’Espresso, Jannuzzi riconobbe di non aver trovato prove certe del coinvolgimento del presidente Segni. Il pm Occorsio osserva però che a parlarne al giornalista furono tre parlamentari molto attendibili, tra cui Ferruccio Parri, che hanno giurato in aula di aver ricevuto quelle notizie dallo stesso De Lorenzo. Il ruolo del presidente non è mai stato chiarito: varie fonti ipotizzano che lui stesso fosse vittima delle manovre del generale. Mario Segni però non si accontenta di proclamare l’estraneità del padre: bolla come falso tutto il Piano Solo. Di certo racconta la versione di papà. Che però non coincide nemmeno con la testimonianza di altri leader storici della Dc, come Paolo Emilio Taviani, il tutore politico di Gladio, che fu ministro dell’Interno anche nel fatidico 1964. Sentito nelle indagini sul terrorismo nero, Taviani definisce il Piano Solo «una crisi drammatica», da inserire nei «precedenti lontani delle stragi». E descrive così la posizione del presidente: «I miei contrasti con Antonio Segni iniziarono il 22 febbraio 1964, al suo ritorno da un viaggio in Francia. Era rimasto fortemente impressionato dall’organizzazione anti-stalinista dei francesi. Mi chiese più volte cosa avessimo previsto in caso di insurrezione armata dei comunisti. Gli risposi che dopo la sconfitta dei secchiani né io, né i capi della polizia e dei carabinieri avevamo preoccupazioni del genere... Lo stesso Segni mi confidava però che altri alimentavano le sue preoccupazioni per la nostra apertura a sinistra».
Dopo aver rinunciato al piano golpista, tenuto segreto, De Lorenzo fu promosso capo di Stato maggiore e silurato solo nel 1967, quando esplose lo scandalo dei dossier del Sifar. Tutti i fascicoli, dichiarati illegali, furono poi distrutti «con il fuoco» per ordine di Giulio Andreotti.
Aggiornamento del 18 maggio 2021
La precisazione
Il Piano Solo secondo Segni e De Lorenzo e la nostra risposta