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29 settembre, 2025Lo storico israeliano parla di regime agli sgoccioli. E nel suo ultimo libro confuta l’idea di “due popoli, due Stati”. Allo stato attuale solo “una diversa forma di occupazione”
«In inglese è Israel on the brick. Un titolo efficace. Quando parlo della fine di Israele non parlo della sua fine come Stato, ma come regime. Qualsiasi regime può essere sostituito. È successo in Sudafrica, con quello dell’apartheid; è accaduto in Iran nel 1979 con lo scià. Ecco: io credo che il regime del sionismo in Israele sia giunto al termine».
È un’occasione davvero rara incontrare Ilan Pappé (Haifa, 1954), docente di Storia del Medio Oriente all’università di Exeter, Gran Bretagna, condirettore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina, apprezzato scrittore israeliano, autore di una dozzina di libri tradotti in tutto il mondo. Fa parte della Nuova storiografia israeliana: un filone di studi che punta a ricostruire, sulla base di documenti ufficiali e ufficiosi, tutti gli eventi che hanno portato dall’inizio del secolo scorso all’attuale tragedia di Gaza. Non è amato nel suo Paese. Si è fatto molti nemici tra le autorità ufficiali. È una voce dissonante. In questo momento di forti divisioni, di crimini di guerra gravissimi compiuti da Israele con l’accusa di genocidio, è l’unico in grado di raccontare una verità diversa dalla narrazione ufficiale. Si potrà dissentire o condividere quanto sostiene. Resta un prezioso testimone di quanto accade nel suo Paese da dove è appena rientrato. Lo incontriamo di passaggio a Mantova in occasione del Festival della Letteratura dove ci anticipa il suo nuovo libro “La fine di Israele” in uscita per Fazi il prossimo 7 ottobre, il giorno in cui ricorre il pogrom di Hamas nel 2023.
Lei racconta della presenza in Israele di uno scontro tra l’anima laica e quella religiosa. Tra quelli che chiama lo Stato di Giudea e lo Stato di Israele.
«Negli ultimi 20 anni si è imposta in Israele una visione molto marcata tra due anime ebraiche che hanno poco in comune. L’unica cosa che le unisce è un nemico: i palestinesi. Ma al di là di questo aspetto hanno una visione diversa, direi opposta, della società. La parte che per anni ha dominato è quella che possiamo chiamare la sinistra, i sionisti liberali. I quali restano comunque razzisti nei confronti dei palestinesi ma puntano a un Paese moderno che si ispiri all’Occidente. C’è poi un’altra ideologia che pensa che ci sia spazio in quella terra solo per gli ebrei».
Oggi prevale quest’ultima?
«Era marginale alla fine del secolo scorso. Poi è cresciuta, ha trovato consenso e si è identificata con quello che io chiamo lo Stato ricco della Giudea. Ha vinto le elezioni nel 2022. Sta avendo il dominio sull’esercito, la polizia, i media e sta cercando di estenderlo anche al sistema giudiziario israeliano».
Ha notato, nel suo soggiorno in Israele, che questo divario si sta consolidando?
«Sì, la mia percezione è che sta diventando più profondo. La gente all’inizio pensava che non sarebbe mai avvenuto; anzi, al contrario riteneva che si sarebbe assorbito per unificarsi. Purtroppo, è accaduto il peggio».
Cosa?
«Lo Stato di Giudea considera lo Stato di Israele un vero e proprio nemico. Vedi e senti l’odio verso gli ebrei secolari. Ha la stessa intensità che nutrono nei confronti dei palestinesi. Gli ebrei laici hanno fatto il lavoro sporco, pesante, per creare lo Stato di Israele sin dal 1892. Lo chiamano il lavoro dell’asino del Messia, riferendosi ai libri biblici. Il loro ruolo nella storia, dicono, si è esaurito. Se vogliono continuare ad averne uno devono convertirsi allo Stato di Giudea».
Nel suo precedente libro, La pulizia etnica della Palestina, lei compie una ricostruzione storica che non viene mai raccontata. Eppure, si basa su documenti ufficiali e ufficiosi, anche dei vertici militari e sionisti.
«Già nel 1948 i palestinesi conoscevano i documenti che raccontavano quanto era accaduto. La stessa Olp nel 1965 aveva il suo centro di studi e di ricerca storica a Beirut con 40 impiegati tra accademici e studiosi dove venivano conservate le prove. Il mondo le ignorava. Servivano quindi figure come la mia, degli storici ebrei e israeliani, che potessero renderle pubbliche e unirle in un racconto diverso da quello ufficiale».
Si negava e si continua a negare una verità alternativa.
«Questa negazione, questa narrazione a senso unico, nascondeva una verità raccontata sui documenti che ho consultato. Documenti del governo israeliano, dei suoi servizi segreti e delle diverse branchie create negli anni. Derivava da una diffusa arabofobia. Solo gli storici israeliani venivano considerati affidabili. Accadeva come nei processi: se la vittima di un crimine denuncia quanto ha subito c’è subito la tendenza a dubitare, mentre se lo afferma l’autore del crimine ecco che tutti gli credono».
Lo stesso è accaduto con la Nakba, la “catastrofe” del 1948. Ottocentomila palestinesi costretti a lasciare la terra dove vivevano. Si parla di esodo volontario, non di espulsione forzata.
«La negazione è stata costruita agendo su due fattori. Da un lato il risultato della propaganda di Israele, dall’altro quello che possiamo chiamare l’orientalismo. O il razzismo. Cioè l’incapacità da parte dell’Occidente di considerare i palestinesi degli esseri umani a tutti gli effetti».
Lei ricorda il diritto al ritorno e il riconoscimento di un indennizzo alle vittime della Nakba. Due rivendicazioni che considera centrali nelle richieste palestinesi, sempre disattese. È ancora possibile inserirle in un futuro processo di pace?
«Si, bisogna partire da queste. Purtroppo, non mi riferisco a un futuro immediato, ma lontano. È necessario che si creino delle condizioni per far capire ai poteri internazionali e anche a quelli regionali che l’unico modo di arrivare a una pace in Palestina è quello di cambiare regime in Israele. Bisogna renderlo uno Stato democratico, realmente democratico, capace di correggere le ingiustizie subite dal popolo palestinese e consentire il ritorno dei rifugiati».
Ci sono le condizioni?
«No, i tempi non sono ancora maturi. Ma questa è l’unica maniera per arrivare a una pace».
Nei suoi libri, documenti ufficiali di Israele alla mano, racconta quanto avvenuto nel 1948, nel 1967 e ancora nel 1990. La distruzione di decine di villaggi arabi, la costruzione sulle loro rovine di colonie ebree o di splendidi spazi verdi. Sono stati cambiati persino i nomi. Oggi ne hanno altri ebraici, con riferimenti biblici. Una realtà tenuta nascosta. Come è possibile?
«Ha ragione: è incredibile che un’operazione di così vasta portata sia sconosciuta alla maggior parte di noi. Almeno 500 villaggi arabi distrutti, fatti saltare in aria con la dinamite come oggi viene fatto a Gaza e in Cisgiordania. I loro abitanti fatti fuori, passati per le armi o costretti a fare fagotto e sparire. Accadeva nel 1948. Non se ne parla mai».
Una verità scomoda?
«Certo. Per Israele ma non solo. Il governo ha fatto di tutto per cancellare ogni traccia precedente. L’obiettivo era dimostrare che non erano mai esistiti e che quindi le proteste e le rivendicazioni di chi ci viveva erano infondate, false. La gente non credeva alla versione dei palestinesi. Il mio editore inglese voleva che cambiassi il titolo del mio libro. Ho dovuto insistere perché quello che è accaduto è un classico esempio di pulizia etnica. Le dirò di più: il mondo intero ha consentito a Israele di fare quello che ha fatto e sta facendo ancora oggi. Fa parte di un progetto che si protrae da moltissimo tempo e che si prefigge di conquistare la Palestina storica con al suo interno meno palestinesi possibile».
Lei lo indica come il Piano Delet. L’ultimo dei tanti elaborati già prima della fondazione dello Stato ebraico. Ora appare evidente. Israele non ha più remore a metterlo in pratica?
«Qui ritorniamo alla differenza sostanziale tra Stato di Israele e Stato di Giudea. Il primo, in passato, cercava almeno di coprire i propri errori, voleva mantenere la facciata di un Paese democratico a vocazione occidentale. Allo Stato di Giudea invece non interessa la sua immagine internazionale. L’unica cosa che lo preoccupa è mantenere saldi i rapporti con i propri alleati, nell’Occidente e in Europa centrale. Non parlo di azioni diverse ma di linguaggio diverso».
Di qui il suo scetticismo sulla proposta “Due Stati per due popoli”. Eppure, molti insistono.
«Insistono le élite internazionali che non amano i cambiamenti drastici e vanno avanti per inerzia. Bisogna anche dire che l’Anp (Autorità nazionale palestinese) non gode di grande fiducia da parte dei suoi abitanti. Ci sono due motivi per cui definisco la proposta un cadavere in decomposizione».
Quali?
«Primo: è impraticabile, i coloni ebrei sono tantissimi in questo momento e rappresentano la forza politica preponderante. Impossibile togliere territori a tutti questi ebrei in modo che ci sia abbastanza spazio per i palestinesi. Secondo: si praticherebbe un’ulteriore ingiustizia; ai palestinesi si darebbe solo il 20 per cento di quelle che erano le loro terre originali. Senza una reale sovranità e alla mercé di Israele. Non può essere considerata una soluzione a due Stati. È una diversa forma di occupazione. La soluzione deve essere più articolata, deve tener presente questi aspetti. Non stupisce che in 77 anni di storia non sia mai stata realizzata».
Si imputa spesso ai palestinesi di non aver voluto accettare una soluzione di pace.
«I palestinesi hanno sempre cercato una soluzione. Fin dal 1948 dicevano all’Occidente, regista della spartizione: credete in due principi che considerate fondamentali, la democrazia e l’autodeterminazione dei popoli. Ebbene, ribadivano, noi in Palestina rappresentiamo l’autodeterminazione. La risposta è stata lapidaria: questo vale per qualsiasi Paese al mondo ma non per voi».
Quindi nessun accordo.
«Dopo il 1967, come racconta Avi Shlaim nel suo Il muro di ferro, la Palestina voleva una soluzione a patto che ci fosse uno spazio autentico come la Striscia di Gaza che non è mai stato prospettato».
Arafat alla fine ha firmato.
«Arafat ha subito enormi pressioni per firmare gli accordi di Oslo nel 1993. Si è accorto solo dopo che l’intesa aveva peggiorato notevolmente la vita de palestinesi. Quando si arriva al 2000, al summit con Clinton ed Ehud Barak, l’idea era che accettasse quanto scritto nel documento che era stato approntato. Non aveva scelta: non poteva sottoscrivere un accordo che manteneva in piedi quasi 500 posti di controllo che rendevano la vita dei palestinesi ancora più dura. Se lo avesse fatto, sarebbe stato sfiduciato dalla stessa gente che lo sosteneva».
Oggi, dopo due anni di guerra a Gaza, alcuni termini come pulizia etnica o genocidio sono sdoganati. Eppure, ancora si accusa di antisemitismo chiunque contesti i principi del sionismo.
«Oggi è impossibile giustificare il genocidio in atto a Gaza e Cisgiordania. Ma siccome Israele non può offrire una giustificazione morale ai crimini che sta commettendo ha usato l’unica arma che aveva a disposizione: accusare di antisemitismo chiunque contesti l’azione in corso. La cosa funziona perché nessuno ci tiene a questa accusa. La memoria della Shoah è ancora viva».
Ma la Shoah, da sola, basta a giustificare quello che accade a Gaza?
«Debbo dire che questa sorta di intimidazione non fa presa sui giovani. Sanno perfettamente di non essere antisemiti, sanno che quello che sta accadendo al popolo palestinese è inumano, non hanno paura di esporsi. Qualsiasi persona intelligente capisce in modo inequivocabile di non essere antisemita. Ecco perché la maggior parte dei sionisti non è ebrea ed ecco perché molti antisionisti sono come me, cioè ebrei».
Nel suo “La fine di Israele” lei descrive un futuro carico di ottimismo. Pensa a una nuova Palestina nel 2048 che rinasce sulle ceneri dell’attuale integrando anche gli ebrei e lo stesso Israele. Tutto questo grazie alle nuove generazioni palestinesi a cui dà enorme fiducia. Fantasie?
«Mi rendo conto che in un periodo di disperazione così evidente le persone tendano ad essere pessimiste. La speranza non è sufficiente, l’immaginazione è essenziale. Ogni rivoluzione positiva della storia ha avuto successo se ricorre a questa. Certo, la sto usando anche io nel mio nuovo libro. Ma quando descrivo, immagino cosa faranno gli abitanti di quella terra in futuro penso a quanto dicono e fanno le nuove generazioni. Io le ascolto, parlo con i giovani».
Sono in condizione di capovolgere la realtà di oggi?
«Sono convinto che abbiano il capitale umano, l’impegno, l’istruzione per creare delle circostanze favorevoli a cambiare lo stato attuale delle cose. Oggi i giovani non vogliono essere coinvolti nella politica, non amano i partiti, i sindacati: tutti elementi che sono strutture indispensabili. La Primavera araba è fallita perché mancavano. Ma sono ottimista. Resto convinto che con le strutture giuste la realtà globale possa cambiare e vedo che con queste nuove generazioni si potrà costruire una nuova realtà, positiva non solo per gli ebrei ma per gli arabi».
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