Agropontino
«Siamo corpi nelle mani dei padroni»: la vita d’inferno delle braccianti indiane
Chiuse in un capannone sette giorni su sette, per meno di quattro euro l’ora. Vessate dai caporali, senza diritti né orario, fanno arricchire le agromafie. Ecco chi sono le nuove schiave piegate sui campi per raccogliere le primizie destinate alle nostre tavole
Le “paria” del Pontinistan sono cadute così in basso da non essere considerate in alcuna categoria sociale. Senza diritti, senza orari, senza tutele, sono trattate come anime morte, corpi a disposizione dei padroni pronti ad ogni abuso. Sono arrivate soprattutto dall’India, vivono ad un centinaio di chilometri dalla Capitale, a ridosso delle ville della borghesia illuminata, ma sono fantasmi: donne invisibili, piegate nei campi per raccogliere le primizie che arrivano sulle nostre tavole, vittime di una logica padronale e criminale.
Alle prime luci dell’alba un furgoncino bianco si ferma sul ciglio della strada che costeggia le dune amate da Moravia e Pasolini. Il caporale – un cinquantenne indiano che convoca i lavoratori via WhatsApp - fa salire prima gli uomini, poi entrano le donne e se i posti finiscono le lasciano in piedi. Può bastare una frenata improvvisa o una sbandata in queste strade costellate di buche per cadere e farsi male, ma è un danno calcolato: come i paria delle caste indù, loro contano meno dei servi. Inizia così la giornata di centinaia di braccianti sfruttate a tempo indeterminato.
Chiuse in un capannone a pulire, lavare e incassettare zucchine e ravanelli per 14 ore, tutti i giorni del mese, con una paga all’ora che non arriva ai quattro euro. I regolamenti prevedono sei ore e mezzo di lavoro con una retribuzione di nove euro, ma loro sono fuori da ogni legge. Quelle che ottengono un contratto, lo hanno solo come stagionali: una formula che nega sussidi di disoccupazione e di maternità. «Ci scrivono che siamo impiegate per quattro-cinque giornate al mese ma in realtà lavoriamo sempre, anche sabato e domenica. Se non accettiamo ci cacciano. E se rimani incinta, ti licenziano subito, anche perché non riesci a sollevare cassette di 30-40 chili».
C’è chi è costretta ad abortire. Akhila - un nome scelto in ricordo dell’amica che è tornata in India per l’onta subita – ha un corpo esile piegato dal dolore, le mani accartocciate dalla fatica e la paura di essere riconosciuta e perdere il posto. È arrivata dal Punjab impegnandosi a restituire 15mila euro per pagare il viaggio, ma in Italia le hanno tolto tutto, persino la libertà di parlare la sua lingua: «Il padrone ci multa. Ci toglie dieci euro ogni volta che dici qualcosa in punjabi». Lavora con altre cinquanta donne, rinchiuse in una gerarchia dello sfruttamento: «Le italiane le pagano un po’ meglio; nel gradino successivo ci sono quelle dell’Est; quindi noi indiane che abbiamo bisogno del contratto per rinnovare il permesso di soggiorno e dobbiamo accettare tutto».
La loro vita è nelle mani del “padrone”, come si fa chiamare il proprietario italiano dell’azienda agricola. «Lui è cattivo, ma ce ne sono di peggio. Come faccio a spiegarti…», Akhila fatica a trovare le parole per descrivere l’angoscia: «Se vede una ragazza bella la vuole. E se non va con lui la manda via». Violenza, prevaricazione e un ricatto che si estende alla comunità: «Se non ci stai, allora fa dire alla tua famiglia che sei una poco di buono e alla fine la gente inizia a pensarlo. La mia amica è dovuta tornare in India perché tutti avevano creduto al caporale. Invece è stata punita perché aveva rifiutato di passare la notte con il padrone». Il padrone è un imprenditore che gira su una fuoriserie, possiede decine di camion e centinaia di ettari dove si coltivano ortaggi certificati biologici.
«Quando sei minacciata così, ti senti completamente isolata ed è possibile che cedi al ricatto. Poi però non ti lasciano più in pace. Se accetti, hai finito di vivere», ammette Sunita. Lei madre single combatte ogni giorno «contro i leoni che pensano che tu sia una pecora». Una spirale di dolore e lo stigma che determina ulteriore emarginazione. «Sono prigioniere di un circuito sociale e produttivo fondato sulla discriminazione e la violenza di genere. Percepiscono un salario inferiore del 20-30 per cento rispetto ai connazionali. Pochissime fanno causa: denunciare viene visto come un atto di ribellione e per le donne è ancora più complicato», sottolinea Pina Sodano, ricercatrice del centro studi Tempi Moderni.
Sono passati cinque anni da quel 18 aprile del 2016, quando in piazza della Libertà a Latina c’è stato il primo grande sciopero dei braccianti. Nel cuore della città littoria erano più di quattromila, chiedevano diritti e rispetto. Tra loro anche Ahkila. Il padrone l’ha punita per quel gesto, togliendole una settimana di paga: «La manifestazione è servita a farci avere un euro in più all’ora. Ma lui si è vendicato, ordinandomi anche di spargere i veleni senza alcuna protezione». Ore chinate a spargere pesticidi senza guanti e mascherine. È stata malissimo, le mani bruciate, gli occhi che lacrimavano ma non è andata al pronto soccorso. Tutti sopportano in silenzio. La scorsa estate un lavoratore è precipitato mentre riparava una serra, l’hanno abbandonato in un campo di patate a chilometri di distanza.
Resistere alla fatica, andare avanti con la schiena spezzata e le piaghe ai piedi non è facile. Alcuni ingoiano semi d’oppio, altri usano anfetamine. E molti crollano: negli ultimi tre anni in queste campagne c’è stata una decina di suicidi. «Siamo solo schiave, siamo in carcere», ragiona Irina. È moldava. Il corpo e l’anima segnati dall’assenza di umanità. Fino a poche settimane fa raccoglieva zucchine: «Era già faticoso, ma nell’ultimo periodo hanno ridotto le squadre e in venti dovevamo dare lo stesso risultato che prima facevamo in settanta. La paga però era sempre la stessa. Sono crollata. Ho avuto un esaurimento nervoso. La gente non sa». Irina lo ripete spesso: «La gente non sa cosa c’è dietro alla frutta e alla verdura che mangia. Non sa che se sei una donna se ne approfittano perché ti considerano più debole. Sono ingegneri dello sfruttamento». Vietato portare il cellulare «così non ci sono le prove di quello che subisci» e buste paga formalmente corrette «perché si fanno scudo con avvocati e commercialisti che dicono di restare buona e in silenzio se vuoi lavorare». Questi sono professionisti dello schiavismo, preparano carte in regola per proteggere chi viola qualunque legge e nega ogni diritto. Paghe da fame e una catena di silenzio a cui Irina ha detto basta: «Avevo continue crisi per colpa dei loro ordini: pur di guadagnare di più ti distruggono. Ho chiesto aiuto a un sindacato e ho paura delle ritorsioni perché sono capaci di tutto, ma non ce la faccio più».
Anche Akhila ha denunciato: «Ho raccolto prugne per sei mesi di fila e mi ha dato solo trecento euro. Caricavo camion diretti in tutta Italia e lui diceva di non avere soldi». L’indagine è in corso, ma sono poche le donne che riescono ad abbattere questo muro. «È difficile per noi italiane; se sei migrante e parli solo la tua lingua lo è ancor di più», riconosce Paola. Per quindici anni ha vissuto quell’inferno accanto a donne indiane o moldave, solo da tre mesi è riuscita a cambiare impiego: «Mi chiedo come abbia potuto sopportare così tanti soprusi». Paola elenca la divisione in caste dell’agro pontino: «Prima gli italiani, poi gli stranieri. O meglio al primo posto i braccianti italiani, poi le italiane come me. Quindi i migranti maschi, tranne nel caso in cui si tratti di caporali perché vengono pagati prima di noi. Infine le straniere. Insomma se sei donna e migrante, sei super sfruttata».
Solo la paura del Covid-19 e della variante indiana ha spinto a occuparsi di loro. Davanti al “Residence Bella Farnia Mare”, tempio delle vacanze finito in malora e trasformato in ricovero per disperati, si cercano i vettori umani del virus mutato.
Suman si affaccia dal cancello lungo via India, a ridosso di un alveare di cemento grigio e sgarrupato dove si sopravvive uno sopra l’altro. Suman è arrivata a Roma da piccola, poi con il matrimonio ha raggiunto la famiglia del marito e queste campagne. E ha deciso di rimboccarsi le maniche aprendo un’attività agricola: «La cosa peggiore che mi potessi inventare». I sacrifici, un prestito per affittare il terreno, comprare un trattore, assumere cinque operai: «Producevo zucchine, erano belle ma purtroppo mi davano 10 centesimi al chilo. Una tragedia. Volevo dimostrare che le donne indiane possono fare qualcosa e invece ho fallito».
Uno studio dell’economista Bina Agarwal, docente a Manchester e membro dell’Accademia dei Lincei, sostiene che nei Paesi in via di sviluppo le imprese agricole con almeno un terzo di presenze femminili producono di più di quelle gestite da soli uomini. Suman però pensa alla sua esperienza italiana e si domanda come potessero guadagnare gli altri, «quelli che andavano allo stesso mercato con le stesse zucchine». La risposta? «Se sei in regola non ce la fai. Devi mangiare sugli altri». È l’ingiustizia che arriva sui nostri piatti. «Esiste un’alternativa ma bisogna attuare le politiche giuste», nota Margherita Romanelli, coordinatrice policy & advocacy di WeWorld, organizzazione italiana che lavora da 50 anni per difendere i diritti di donne e bambini. Oggi è una delle 16 realtà coinvolte nella campagna #OurFoodOurFuture finanziata dall’Unione Europea nell’ambito del programma Development Education and Awareness Raising: «Abbiamo condotto una ricerca nell’Agro Pontino, che sarà presentata in anteprima al nostro WeWorld festival, per raccogliere la testimonianza di chi subisce quotidianamente lo sfruttamento e mettere in luce le battaglie da combattere sul territorio». Romanelli cita due scelte necessarie: «Condizionare l’accesso ai sussidi europei al rispetto dei diritti di chi lavora, in modo da spingere tutte le aziende lungo l’intera filiera produttiva a imporre il cambiamento. La grande distribuzione sarà così obbligata a controllare che i subfornitori siano in regola. Questo ridurrebbe anche la concorrenza sleale delle imprese scorrette. Infine bisogna applicare subito la risoluzione dell’Organizzazione Internazionale per il Lavoro che il nostro parlamento ha ratificato per stroncare ogni forma di molestia e violenza sui luoghi di lavoro». Anche per Marco Omizzolo, il sociologo che da anni combatte per la difesa dei diritti nella provincia di Latina, ci vogliono riforme di sistema: «Dall’approvazione della legge che vieta le doppie aste al massimo ribasso, responsabile di una strozzatura che porta alla corsa al prezzo più basso e dunque allo sfruttamento, fino al superamento della disciplina sui permessi per i lavoratori migranti che determina una chiusura pressoché totale dei canali d’accesso: l’agricoltura italiana ha bisogno di braccianti stranieri, ma non c’è modo di legalizzarli e lo Stato così incentiva l’economia sommersa e la produzione illegale».
Chi ha capito cosa significhi fare sistema, sono le mafie. A pochi metri da qui per anni hanno condizionato il mercato ortofrutticolo di Fondi, centro nevralgico da cui si smistano i prodotti dei campi in Italia e in Europa, stabilendo i prezzi dei raccolti, gestendo i trasporti e l’esportazione. Eurispes stima che il giro d’affari delle agromafie valga quasi 25 miliardi di euro. I boss sanno come renderlo profittevole: negare i diritti e sfruttare le persone è sempre stata la loro specialità. Sono diventati il modello, imitato da padroni e padroncini. Tutti spietati verso i più deboli, verso quelle donne a cui tolgono ogni forza e ogni dignità.