Inchiesta

Con il subappalto selvaggio delle grandi opere tornano mafie ed extracosti

di Gianfrancesco Turano   28 maggio 2021

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I miliardi del Pnrr vanno spesi entro il 2026. Le imprese vogliono fare in fretta e spostare i controlli sulle infiltrazioni criminali a valle dei progetti. Mentre il governo Draghi vara l'ennesima semplificazione normativa, qualcuno nella maggioranza cerca di proteggere ambiente e paesaggio

L’Italia Next generation va in subappalto. La Past Generation dovrà rimodernare il suo vocabolario, dove il termine subappalto confina con procedure opache e costi impazziti nella migliore delle ipotesi e, nella peggiore, corruzione, crimine organizzato e morti sul lavoro. Sembra ieri che il governo Conte appena uscito dalla prima ondata pandemica annunciava investimenti in grandi opere pubbliche per 197 miliardi di euro con il decreto Italia Veloce. Era solo dieci mesi fa, in effetti. Il governo Draghi oggi rilancia con un programma quasi altrettanto faraonico (a partire da 83 miliardi) per sfruttare il Recovery fund, il fondo complementare, lo scostamento di bilancio e quant’altro serva da qui al 2026, quando gli aiuti Ue scadranno.


Ministri, dirigenti e commissari devono semplificare. La parola d’ordine ha creato qualche sussulto fra i baby-boomer del Pd che hanno chiesto di stralciare la partita delle subconcessioni e delle gare aggiudicate al massimo ribasso. Insieme al segretario Enrico Letta, Dario Franceschini (Beni culturali) e Roberto Cingolani (Ambiente) hanno manifestato resistenze a lasciare campo libero all’armata del ferro e del cemento. Un’armata mal messa, va detto. L’ultimo decennio ha visto uno stillicidio di fallimenti, concordati preventivi, acquisizioni a prezzo simbolico nel settore delle imprese edili che hanno perso nomi come Condotte e interi pezzi di sistema, come quello delle cooperative rosse e bianche. Intorno al gigante nazionale WeBuild di Pietro Salini, che in ogni caso vale poco più di 5 miliardi di ricavi l’anno da anni contro i 48 miliardi della francese Vinci e i 39 della spagnola Acs, c’è un pugno di medie imprese (Pizzarotti, Ghella, Cimolai, Rizzani De Eccher, Cmb), le società in house dei concessionari autostradali (Aspi, Gavio, Toto). Il resto, appunto, è subappalto. Né c’è da illudersi che il mercato autarchico veda l’arrivo in forze degli stranieri che si sono sempre tenuti lontani dal ginepraio normativo dell’edilizia italiana.
Poiché non di sole ruspe e operai vive un cantiere, altre lacune di sistema affiorano fra le società di ingegneria e il personale tecnico sia nel settore privato sia nella pubblica amministrazione. Difficile che basti una nuova deregulation per incrementare i lavori pubblici e infrastrutture realizzati ogni anno ai livelli richiesti dal Pnrr.

BERE O ANNEGARE
Ormai è una tradizione. Ogni governo lancia una semplificazione normativa con effetto di complicazioni ulteriori. Sarà la volta buona? Ora o mai più, è la risposta delle imprese. «Il 2026 è molto vicino», dice Gabriele Buia, presidente dell’Ance, l’associazione costruttori. «Ultimare i progetti esecutivi sarà impossibile e anche per il definitivo sarà difficile. Si procederà con i progetti preliminari e si tornerà al tanto vituperato appalto integrato. Dopo undici anni di crisi provocata dall’impatto della pubblica amministrazione sul nostro settore, da una sedimentazione normativa indecifrabile, questa è una chiamata alle armi per tutto il paese. I controlli vanno fatti a valle e non a monte dei progetti. Con tutto il rispetto per l’autonomia dei ministeri dell’Ambiente e dei Beni culturali, bisogna correre. Siamo in mezzo al guado. Possiamo solo uscirne o affogare».
Buia guida un’impresa arrivata alla quarta generazione. Da parmense, osserva da vicino uno dei non rari casi di appalto integrato fallimentare. È il collegamento plurimodale Tirreno-Brennero (Tibre), affidato a novembre del 2013 ad Autocisa (Gavio) e a Pizzarotti, di Parma anche lui. In circa otto anni è stato realizzato un moncone di dieci chilometri per 513 milioni di spesa contro 300 previsti. Ma ogni epoca infrastrutturale ha i suoi slogan e il traguardo del 2026 è vicino. (Qui la replica dell’impresa Pizzarotti).


Tra le linee ferrate, che fanno la parte del leone con 60,8 miliardi di euro complessivi, strade (10,9 miliardi), porti, dighe e la catastrofica metro C di Roma (5,9 miliardi), nei prossimi tre anni saranno aperti non meno di 107 cantieri. Di questi, i 57 più importanti saranno affidati a 29 commissari tanto straordinari quanto l’emergenza occupazionale e infrastrutturale che soffoca l’Italia.

Rendering di un viadotto della linea alta velocità Napoli-Bari

In cima a questa piramide c’è il ministro Enrico Giovannini, già editorialista de L’Espresso dopo una vita trascorsa all’Istat. Non è un tecnico di lavori pubblici. Non lo erano nemmeno i suoi predecessori Paola De Micheli, Danilo Toninelli, Graziano Delrio, Maurizio Lupi, Corrado Passera, Altero Matteoli e Antonio Di Pietro. Lo era Pietro Lunardi, braccio destro di Silvio Berlusconi, all’epoca della legge Obiettivo, e non è andata benissimo. Come segno di innovazione Giovannini ha cambiato nome al ministero da Mit (ministero Infrastrutture e Trasporti) a Mims (ministero Infrastrutture e Mobilità sostenibili). Anche lì i lavori sono in corso. La mail e il sito sono ancora sotto il vecchio dominion del Mit. Comunque lo si chiami, il ministero di Porta Pia è per tradizione dominato dall’alta burocrazia statale e pressato da altri membri del governo. Oltre ai colleghi riluttanti come Franceschini, esprime voce in capitolo Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo leghista con un occhio di riguardo al suo bacino elettorale del Nord.
Eppure uno dei capisaldi del Pnrr dovrebbe essere il suo occhio di riguardo verso il Sud. Ma a guardare l’elenco della spesa, la singola voce più importante (8,57 miliardi di euro) è impegnata per “linee Av nel Nord che collegano all’Europa”, come i due segmenti Av da Brescia a Trieste affidati entrambi al commissario Vincenzo Macello, o la Fortezza Verona (commissario Paola Firmi).

Napoli, manutenzione dei treni ad alta velocità


Per il Sud sono previsti 4,64 miliardi di euro fra Napoli-Bari, già in corso d’opera con il commissario Roberto Pagone, la Salerno-Reggio e la Taranto-Potenza-Battipaglia (Vera Fiorani per entrambe) e la Messina-Catania-Palermo che per la parte orientale è già stata assegnata a WeBuild all’inizio del 2021 con Filippo Palazzo commissario straordinario. A questo capitolo vanno aggiunti altri 2,4 miliardi di euro come «potenziamento e resilienza delle ferrovie del Sud» più i resti di altre voci che mettono insieme colli di bottiglia storici con tratti di rete locale abbandonata da quando si è deciso che in Italia contava soltanto l’alta velocità. L’elenco farebbe la gioia di un viaggiatore alla Bruce Chatwin con la Rosarno-San Ferdinando in Calabria, la Benevento-Cancello in Campania, la Bari-Bitritto in Puglia.
Non citato nel Pnrr perché avrebbe suscitato l’ilarità dell’Europa è il ponte sullo Stretto di Messina, convitato di pietra e acciaio resuscitato dal ministro in carica. Il ponte è il completamento immaginifico dei sette lotti dell’Av/Ac Salerno-Reggio.


Il ponte ha tre dimensioni. Quella progettistica è l’ammissione di un fallimento che solo lo Stato italiano non ha voluto vedere per decenni. Dal monocampata irrealizzabile a forma di stendipanni si è passati a un’ipotesi a tre campate anche se in questo modo lo Stretto si restringerebbe di parecchio con isole artificiali di sostegno ed effetti tutti da valutare sia sul traffico merci sia sull’erosione che già da anni inghiottisce terra tra Messina e Reggio. La seconda valenza della Commissione di fattibilità voluta da Giovannini sta nella ripresa del tormentone del risarcimento alla principale impresa del consorzio, che si chiamava Impregilo e ora è WeBuild. La terza è quella di specchietto delle allodole. Lo era già ai tempi di Lunardi e di Giulio Tremonti all’Economia quando serviva a dire al Sud: vi pensiamo, votateci. E mentre si agitava lo spettro del malvagio ambientalista che si oppone a tutto, si investiva in pedemontane nei feudi della Lega.

MAFIE IMPRENDITRICI
L’alta velocità al Sud o il rinnovamento della statale 106 Reggio-Taranto presuppongono la vigilanza sulle infiltrazioni del crimine organizzato che proprio i subappalti hanno trasformato in società per azioni. Questo bisogno è condiviso da tutti, a parole. Ma, a parole, nessuno è favorevole alle mafie, nemmeno le mafie. La battaglia politica di questi giorni all’interno del governo riguarda proprio il codice degli appalti lanciato nel 2016 con il crisma dell’inderogabilità e sottoposto a una trentina di deroghe legislative. Resta il fatto che i soldi vanno spesi e che il Pnrr è una delle ultime occasioni per il Mezzogiorno, al di là dei calcoli costi-benefici che sono sempre in squilibrio nella storia delle grandi opere.


L’investimento in alta velocità deforma la geografia e comprime i chilometri per sostituirli con il tempo necessario a percorrerli. La Torino-Salerno ha confermato la bontà di questa strategia, se ovviamente si escludono gli extra-costi mostruosi generati dal sistema del general contractor e il tema delle merci che continuano a viaggiare su gomma. Con la nuova Napoli-Bari si scenderà da tre ore e mezza a due, per la linea che unirà le tre città siciliane principali si passerà da tre ore a due. Per la Salerno-Reggio, lunga e tremendamente difficile dal punto di vista orografico con almeno 150 chilometri di gallerie, si risparmieranno ottanta minuti. Sono risultati per nulla trascurabili o, quanto meno, più apprezzabili dei dieci minuti in meno prospettati dalla nuova Roma-Perugia o dei quindici in meno della futura Roma-Ancona.
Ai margini della cura del ferro sono emersi nuovi equilibri di potere. Il gruppo Ferrovie dello Stato è sempre più un superministero con potenzialità di spesa e bagaglio professionale senza uguali nel sistema imprenditoriale, pubblico o privato. La controllata Italferr, che dovrebbe coadiuvare Rfi nel lavoro progettuale, assume a getto continuo e non sono pochi i professionisti italiani che rientrano dall’estero per arruolarsi nelle truppe di piazza della Croce Rossa. Sotto il profilo realizzativo, WeBuild è il perno del sistema edilizio privato con una componente pubblica molto sostanziosa dietro quel 18,7 per cento del capitale in mano a Cdp equity che dovrebbe scendere di un paio di punti a fine anno quando sarà completata l’incorporazione di Astaldi.


L’asse Fs-Cdp-WeBuild è portante anche per la regia finanziaria. I contributi dell’Europa alle opere in corso come il Terzo Valico Milano-Genova si sovrappongono ai soldi già accantonati dai governi precedenti. Se si confrontano le cifre, c’è poca differenza fra i 60,8 miliardi del Pnrr e i 58 miliardi di euro del piano firmato dall’ex ministra De Micheli l’anno scorso. I soldi Ue saranno usati entro il 2026 e il finanziamento nazionale sarà spostato al di là del 2026 quando, subappalti o no, bisognerà tenere aperti i cantieri che non ce l’avranno fatta a mantenere i tempi previsti. Una partita di giro. Nella Next Generation ci si dovrà arrangiare anche così.

AGGIORNAMENTO 3 GIUGNO: La replica dell’impresa Pizzarotti al nostro articolo