Il reportage
Un esercito di interinali, immigrati e senza diritti: ecco gli sfruttati della green economy
Il Trentino è in cima alla classifica del riciclo. Ma chi lo rende possibile sono lavoratori sottopagati e senza garanzie. Un simbolo del lavoro in Italia. “Le mansioni sono retribuite diversamente in base la colore della pelle”. (Foto di Alessandro Penso)
Massaman è stato mandato via di colpo, dopo tredici anni di contratti di un mese, rinnovati volta per volta. Era maggio e Massaman è diventato un simbolo per chi lavorava con lui, la rassegnazione che faceva sopportare l’insopportabile è diventata altro. Da alcune settimane, così, un gruppo di operai della raccolta differenziata in Trentino dà battaglia. Si sono rivolti al sindacato, hanno fatto tre giornate di sciopero. Sono africani, in regola con i documenti e guadagnano poco più di 6 euro netti (8,77 lordi) all’ora per separare e imballare il materiale per il riciclo. Da anni il loro orizzonte è mensile come la durata del contratto. Non hanno tredicesima, non maturano scatti di anzianità. Chiedono una stabilizzazione, ma ha più senso parlare di dignità.
«Quando esco per il turno non sono mai contento, nel cuore. Il fatto che non sono istruito, non vuol dire che non capisco. Siamo schiavi moderni», dice Adama, maliano, figura chiave della lotta e delegato Usb. Eppure è anche merito suo e degli altri operai, se la Provincia di Trento può vantarsi di essere ai vertici delle classifiche nazionali della differenziata. Daniel Agostini, funzionario Usb che segue la vicenda, è sbalordito: «Mi sembra di vivere nell’Ottocento, quando i diritti non esistevano. Varcati i cancelli dell’azienda, si entra nel passato». L’azienda è la Ricicla Trentino 2 Srl, che nella Provincia si occupa della separazione di plastica, metallo e vetro. Tra le pieghe della sostenibilità ambientale, del Green Deal, dello slancio ecologista verso il futuro, esistono ombre che ospitano i vecchi problemi del lavoro, neri come il carbone.
Nel tedesco monatlich, mensile, Alessandro Manzoni individuava l’origine della parola «monatto». Un lavoro legale e detestabile. «D’altronde la legge non sempre è giustizia», dice Agostini. Questi lavoratori hanno un contratto a tempo indeterminato con un’agenzia interinale, Gi Group, e contratti mensili di missione con l’azienda. Se Ricicla Trentino lascia a casa il lavoratore, l’agenzia gli paga una sorta di disoccupazione. «Sì, per massimo otto mesi, a un massimo di 800 euro lordi», dice Agostini: «L’agenzia dovrebbe ricollocarli altrove, ma non lo fa mai, non offre alternative». Così RT ricorre sistematicamente a un bacino di manodopera a basso costo.
Zona industriale di Lavis, all’ombra della Paganella, pochi chilometri a nord di Trento. In fabbrica, selezionare i materiali è un lavoro ripetitivo che pretende estrema attenzione. Turni di sette ore al giorno. Dai centri di raccolta sparsi per la provincia arrivano i rifiuti, che in seguito verranno spediti altrove per lo smaltimento. Dopo un lungo nastro di prima differenziazione, un macchinario incanala su nastri più piccoli, dove la precisione aumenta: il vetro blu va separato dal vetro verde, il nylon dal polipropilene.
Agostini spiega che «il nastro viene accelerato, i materiali corrono anche a ottanta chilometri orari», per chi viene considerato esperto. È il caso di Adama, addetto ad alluminio e poliaccoppiati, con le cuffie per difendersi dal rumore delle lattine. Ha trentatré anni, dal Mali è arrivato in Algeria attraverso il deserto, poi in Libia. Era il 2010, ha lavorato come elettricista. Pochi mesi dopo è scoppiata la guerra, passare le frontiere è diventato proibitivo, restare impossibile, l’unica via di fuga era l’Italia. Sul barcone erano in trecento, tre i giorni che sono serviti a raggiungere Lampedusa. E lui riassume così il viaggio: «Se hai fortuna, vivi, se no muori». Non è mai andato a scuola perché la famiglia non poteva permetterselo, quindi in Italia ha imparato a leggere e scrivere, su uno dei pochi mobili di casa c’è un manuale di italiano.
Fawali separa le bottiglie su un altro nastro. «Sono cresciuto tra Mali e Guinea, poi sono andato dove potevo vivere meglio: in Libia». Ha una postura che gli anni in fabbrica e i mesi da stagionale in Puglia e a Rosarno non hanno piegato. Ancora ricorda che sul barcone arrivato a Lampedusa erano 183 persone. In Trentino ha lavorato in una fabbrica di trattori, prima di essere mandato via per la crisi nel 2008. RT è stata un’opportunità: «Ho preso questo lavoro contento, perché nel settore non c’è crisi». A tredici anni di distanza, con la famiglia lontana e a condizioni di lavoro indegne, lo spirito è ben altro.
Quasi tutti hanno i figli in Africa con la moglie. Hosei ne ha uno, in Ghana, nato quando iniziò a lavorare qui, sedici anni fa. Lo vede solo durante le ferie, dall’ultima volta sono passati due anni, dice che si conoscono poco. Kanda da tredici anni lavora per RT e di figli in Mali ne ha cinque. Vorrebbe averli sempre con sé ma non li vede dall’ottobre prima della pandemia. Impossibile portarli in Italia, sarebbe un passo più lungo della gamba, queste condizioni tengono tutto nell’incertezza. «Anche volendo, non potrebbero: per il ricongiungimento va dimostrato di avere un lavoro stabile, una casa abbastanza grande e le capacità economiche per mantenere i familiari», commenta Agostini.
Già è un problema trovare casa per sé: affitti inaccessibili, proprietari che non vogliono inquilini neri o che chiedono garanzie più consistenti di un contratto mensile. Si finisce per dividere appartamenti piccoli e bui a Trento Nord, l’area urbana stigmatizzata dove gli affitti sono meno cari.
Avrebbero un mese di ferie all’anno, ma non sempre vengono accordate dall’azienda. Alla richiesta di Adama, l’anno scorso, è stato risposto che troppi lavoratori erano via. «La dicitura “congruo preavviso” è talmente arbitraria che viene girata come si vuole», dice Agostini. Ora che Adama ha maturato un altro mese di ferie, ne ha chiesti due di seguito. «Possono anche darglieli, ma il rischio è che al ritorno non gli ridiano subito il lavoro o che non venga ricollocato affatto», prosegue Agostini. L’incertezza accompagna le loro vite. Così le relazioni familiari passano per il telefono e per i soldi inviati ogni mese, con la tagliola delle commissioni tra il cambio di valuta e il trasferimento di denaro, «nove euro su 100», spiega Fawali.
A insistere nell’ombra si scopre che le stesse mansioni vengono pagate in modo diverso, a seconda che a svolgerle sia un dipendente o un interinale. Cioè: a seconda del colore della pelle. RT dichiara, da visura camerale, sette dipendenti, «tutti italiani» spiega Agostini. «Ma a lavorare sono una quarantina, con gli interinali: che sono tutti africani, tutti lavoratori svantaggiati». Una categoria, questa, appetibile per chi dà lavoro: prevede sgravi fiscali e permette di aggirare il tetto che limita il ricorso agli interinali. «Svantaggiato è chi è straniero, chi non ha un titolo di studio concorrenziale sul mercato, chi non conosce bene l’italiano».
Hosei è addetto al muletto e alla ruspa, in questi sedici anni ha visto via via gli italiani arrivati dopo, addetti a ruspa e muletto, venire strutturati mentre lui restava coi contratti mensili. Come per gli altri africani, il contratto firmato con Gi Group non era in doppia lingua perché non è obbligatorio che lo sia. «Un vuoto normativo, così hanno accettato condizioni indegne, Gi Group li ha fregati. Per esempio il contratto non riconosce che la missione sia a tempo indeterminato, benché il lavoro per l’azienda sia continuativo e per anni», lamenta Agostini.
Secondo Usb c’è ancora altro: «Una carenza di sicurezza». Gli odori sono violenti, già solo all’esterno della fabbrica. Soprattutto, i lavoratori sono a contatto con polveri pericolose, per esempio quelle del vetro. Non è raro che sentano dolore tra le scapole e abbiano problemi respiratori. Prima del Covid-19 l’azienda li dotava di mascherine adeguate. «Ora che sul mercato è esplosa l’offerta, la mascherina è diventata l’FFP2. Economica e insufficiente. L’azienda ne fornisce circa otto al mese», spiega Agostini. In più, gli operai dovrebbero avere qualcosa che protegga l’avambraccio dai pezzi di vetro e plastica che maneggiano sul nastro che corre. Invece RT fornisce solo i guanti, e loro si arrangiano indossando sugli avambracci calzini lunghi a cui tagliano le punte.
L’attenzione alla sostenibilità può essere una retorica vuota, anche nel virtuosissimo Trentino. I lavoratori migranti non hanno intenzione di cedere all’ipocrisia e al ricatto: l’Italia è il posto dove vivono da anni e vogliono restarci. A condizioni finalmente dignitose, come quelle dei bianchi che nella stessa azienda svolgono le stesse mansioni. «Durante un presidio ai cancelli della fabbrica, un amministratore di RT si è avvicinato dicendo che se ai lavoratori non andava bene così, potevano andarsene», racconta Agostini. L’assemblea sindacale del sabato, sul terrazzo in cima alla sede Usb di Trento, si chiude con l’esortazione in italiano a non mollare finché non si vincerà. È sabato e il prossimo turno inizia lunedì, coi materiali sul nastro a cinquanta, settanta, ottanta chilometri orari. È sabato ma i materiali sul nastro li accompagnano comunque, nella vita fuori dai cancelli, come spiega Adama: «Le cose continuano a girarti nella testa».