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Nelle carceri italiane sono rinchiuse almeno sessanta persone con disturbi mentali: ma la legge lo vieta

Dovrebbero essere ospitate nelle Rems e curate, ma i posti sono pochi e così almeno sessanta pazienti (ma probabilmente molti di più) finiscono nei penitenziari ordinari. Malgrado le denunce della Corte costituzionale. Ecco perché il sistema non funziona

Per due anni Giacomo Seydou Sy, 28 anni, italiano, con problemi psichiatrici, è stato trattenuto illecitamente nel carcere romano di Rebibbia. Un fatto grave, tanto che a gennaio è piovuta sull’Italia la condanna della Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Giacomo Seydou Sy è affetto da disturbo bipolare e della personalità e nel 2019 è stato accusato di molestie all’ex fidanzata, resistenza a pubblico ufficiale, percosse e lesioni. Così il giudice per le indagini preliminari di Roma lo ha indirizzato a una Rems, cioè una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, le strutture che dal 2014 hanno sostituito gli Ospedali psichiatrici giudiziari, chiusi perché erano «inconcepibili in qualsiasi paese appena civile», come disse nel 2011 l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Nel caso di Giacomo Sy il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non aveva trovato posto nelle Rems, tutte strapiene. Il giovane era stato quindi trattenuto in carcere. Per due anni. Il caso di Giacomo Sy non è il solo, come testimoniano le fotografie scattate da Valerio Bispuri e come conferma la Corte Costituzionale, ci sono almeno sessanta persone in questa situazione, ma potrebbero essere molte di più, come rivela all’Espresso una fonte interna a uno dei maggiori penitenziari romani.

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Secondo la Corte di Strasburgo era dovere del governo italiano trovare a Giacomo Sy un posto nelle Rems «o un’altra soluzione adeguata», come scrive la Corte dei diritti dell’Uomo nella sentenza. Proprio l’Italia, che ha picconato le mura dei manicomi nel 1978, oggi riporta i pazienti con disturbi psichici in condizioni disumane, violando le proprie leggi.

A stretto giro, il 27 gennaio di quest’anno, anche la Corte Costituzionale ha emesso un giudizio con cui accende un faro sul cortocircuito istituzionale che si scarica sulle persone con disturbo mentale. Sono colpevoli di aver commesso un crimine e avrebbero diritto alla cura, invece finiscono in un limbo fra carcere e reparti di psichiatria, da cui rischiano di non uscire più, specialmente se sono di origine straniera e non possono permettersi un buon avvocato. Ma andiamo con ordine.

 

Fino al 2014 le persone con un problema psichico e colpevoli di reato, anche prima di una sentenza, erano rinchiuse negli Opg, Ospedali psichiatrici giudiziari, delle case di reclusione che, dalla metà degli anni Settanta, sostituirono i manicomi criminali. Gli Opg, dopo che una scioccante indagine parlamentare - presieduta da Ignazio Marino - accertò le condizioni di estremo degrado degli istituti, vennero chiusi.

 

Una legge del 2014 dice che queste persone devono essere curate e riabilitate sfruttando la rete territoriale di servizi di salute mentale, nati nel 1978 grazie alla Legge Basaglia. Solo nei casi in cui la persona autrice del crimine rischia di essere pericolosa per la comunità, il magistrato può disporre il ricovero in una Rems. Le Residenze, nate nel 2015, sono luoghi chiusi il cui obiettivo è curare la fase acuta della malattia e riabilitare il paziente attraverso un percorso di terapia e assistenza psicosociale. Tuttavia i posti nelle Rems scarseggiano, non perché siano troppo pochi, piuttosto perché chi ci entra difficilmente ne esce: l’assenza di strutture assistenziali locali, di centri diurni o abitazioni ad hoc, ne rende impossibile la dimissione. «In alcuni casi mancano le strutture residenziali pronte ad accogliere i pazienti affetti da disturbo mentale, in altri, non c’è la volontà dei comuni di farsi carico di queste persone, anche economicamente, per pagare parte della retta della Rsa che li ospiterebbe. Sono persone che, dopo aver trascorso un periodo qui da noi nella Rems e aver migliorato la propria condizione, non possono uscirne perché non c’è un luogo pronto ad accoglierle», dice Corrado Villella, psichiatra della Rems romana.

In base ai dati della Corte Costituzionale, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza in Italia sono 36, per un totale di 652 posti letto, insufficienti a coprire le richieste da parte dei tribunali italiani. Per il dipartimento di amministrazione penitenziaria la lista d’attesa ammonta a 750 persone, per lo più colpevoli di aver maltrattato un famigliare, compiuto una violenza, un omicidio, un’estorsione. Dati che non combaciano con quelli della Conferenza delle Regioni, secondo cui ad aspettare un posto sono 568 pazienti. Il fatto che non vi sia neppure certezza sui numeri la dice lunga sul caos istituzionale che si è venuto a creare.

 

Il tempo medio di attesa è di dieci mesi, con punte di 458 giorni in Sicilia, dove si concentra un terzo dei pazienti in attesa. «È il magistrato a definire una sede temporanea per queste persone», risponde Massimo Cozza, psichiatra e direttore del dipartimento Salute Mentale dell’Asl Roma 2, che continua: «Nei casi meno gravi il paziente sta ai domiciliari, in altri viene inviato agli Spdc», cioè i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura, ossia i reparti di psichiatria degli ospedali. Creando non pochi problemi: «In questi dipartimenti accede chi è stato colpito da una crisi acuta e, il più delle volte, punta a tornare ad una vita normale», dice il medico, stimando in 12 giorni il tempo medio di degenza nel reparto di psichiatria dell’ospedale. «Mentre le persone inviate dalla magistratura restano in ospedale per oltre un anno, spesso accompagnate da agenti di polizia penitenziaria. È da anni che cerchiamo di combattere l’equazione fra pazienti psichici e criminali, uno stigma che risale ai tempi dei manicomi, ancora troppo forte fra la popolazione. E quando un giovane ricoverato in psichiatria vede la polizia in reparto è difficile convincerla che dal suo male si può guarire».

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Un’altra parte dei pazienti, i più pericolosi, viene inviata dalla magistratura all’interno delle carceri in via più o meno temporanea. In base ai dati della corte costituzionale «risultano collocate in una struttura penitenziaria in attesa di internamento in Rems 61 persone», dice la sentenza della corte costituzionale del 27 gennaio. In realtà i carcerati con problemi mentali sono di più, come riferisce all’Espresso una fonte che chiede l’anonimato. Molteplici sono i motivi della loro detenzione. «Quando sono stati chiusi gli Ospedali psichiatrici giudiziari, non tutte le persone che vi si trovavano rinchiuse sono state trasferite nelle Rems. Fra i pazienti, infatti, c’erano anche persone imputabili nonostante il disagio mentale. In altri termini, il tribunale li ha giudicati colpevoli e ha imposto loro di scontare una pena perché il delitto commesso non aveva nulla a che fare con la loro patologia. Queste persone sono state trasferite in sezioni specialistiche psichiatriche del carcere, da cui si entra e si esce a seconda dell’autorizzazione di un giudice e in base alle diagnosi degli psichiatri penitenziari», rivela la fonte dell’Espresso. Che aggiunge: «Poi ci sono moltissime persone che vivono nei circuiti ordinari carcerari, nonostante soffrano di un disturbo psichiatrico. Non accedono nell’articolazione sanitaria del carcere per i tempi lunghi della Magistratura e per le lungaggini nell’accertamento della malattia. Ma anche perché le aree di cura specialistica sono al completo».

Succede che nelle carceri di tutta Italia, ma soprattutto a Roma, ci siano persone con infermità mentale sia nei circuiti ordinari, sia nelle aree specialistiche: «Di fatto, chi può permettersi un buon avvocato e ha maggiori risorse culturali ed economiche, con facilità può ottenere un riconoscimento dell’infermità mentale e accedere a una Rems, mentre un detenuto povero (e spesso straniero), con un avvocato d’ufficio, senza perito di parte, è facile che resti nel carcere ordinario».

 

Sono stati materialmente chiusi gli Ospedali psichiatrici giudiziari, ma questo non significa che la questione sia stata risolta. L’assenza di normative chiare al proposito ha convinto il ministero della Salute a riaprire lo scorso dicembre l’Organismo di coordinamento del processo di superamento degli Opg che, tuttavia, non è ancora operativo. Tant’è che non era stato neppure coinvolto nella decisione del governo di aprire, in sordina, una nuova Rems a Calice, in Liguria. È stata la rete StopOpg.org ad accorgersi che nel decreto Energia approvato per affrontare la difficile partita dell’aumento del prezzo del gas provocato dalla guerra in Ucraina, è stato inserito l’articolo 32 per finanziare con 2,6 milioni di euro la creazione di una nuova Rems in Liguria dove non c’è un problema di liste d’attesa, visto che le difficoltà maggiori si riscontrano in Calabria, Campania, Lazio, Puglia e Sicilia. «L’apertura di una nuova Rems non affronta il problema», dice Stefano Cecconi, segretario della Cgil e membro di StopOpg.org, che continua: «La creazione di una nuova struttura non fa altro che riproporre la modalità delle carceri psichiatriche, tanto più che molti nostalgici del manicomio reclamano un aumento dei posti nelle Rems. Queste dovrebbero essere l’ultima opzione, mentre sembrano essere l’unica soluzione. Si è ricreato il modello degli Opg».

 

Prima di aprire nuove Rems, la Corte Costituzionale invita la politica a prendere misure urgenti e concrete per affrontare il tema del disagio mentale nel suo complesso, che sta assumendo dimensioni giganti fra la popolazione italiana, specialmente dopo i mesi di lockdown che hanno lasciato danni importanti sulla psiche di persone già fragili. Il tribunale fa notare che alla salute mentale andrebbe destinato il cinque per cento del fondo sanitario nazionale, mentre i soldi stanziati sono molti meno. Nell’ultimo rapporto Salute Mentale del ministero della Salute c’è scritto che nel 2020 al disagio psichico sono andati 3,2 miliardi, cioè il 2,75 per cento del fondo sanitario, l’anno precedente erano il 2,9 per cento, nel 2018 il 3,5 per cento. «All’appello mancano 11mila operatori», dice Massimo Cozza dell’Asl Roma2, e continua: «Che la soluzione al problema non sia la realizzazione di nuove Rems è confermato dall’esperienza friulana, eccellenza mondiale nel campo della gestione della malattia mentale. In Friuli le Rems sono appartamenti, dove vivono più persone con problematiche psichiatriche, inserite nel tessuto sociale cittadino e sostenute da una progettazione da parte delle equipe dei centri di salute mentale delle Asl. L’inclusione sociale e l’inserimento lavorativo giocano un ruolo importante nel miglioramento delle condizioni di vita di questi pazienti», spiega Cozza.

 

L’altra indicazione della Corte Costituzionale è rivolta al ministero della Giustizia e all’urgenza di abolire gli articoli del Codice Rocco, di epoca fascista, sulla non imputabilità dei “folli rei”. «Questo significa portare fino in fondo il principio cardine della Legge Basaglia, secondo cui il malato mentale è un cittadino a tutti gli effetti, con gli stessi diritti e doveri», spiega lo psichiatra Cozza, che continua: «Quindi, se una persona con disagio psichico commette un reato, viene giudicata, processata e condannata, e parallelamente deve ricevere tutte le cure necessarie, sia all’interno del carcere, ma soprattutto fuori, dove è necessario potenziare e rimettere sui giusti binari quel sistema di cure territoriali che era alla base della Legge 180 e che oggi scricchiola».

 

La legge Basaglia è una norma eccezionale, nata nel 1978, che ha consentito all’Italia - unica al mondo - di chiudere i manicomi e di affrontare la malattia psichiatrica non con la contenzione e l’uso di farmaci, ma con l’inclusione del paziente nella società, con la terapia psicosociale, con l’inserimento lavorativo e ridando dignità di vita a chi soffre. Ora quella norma è a rischio, per l’assenza di personale e la scarsità di risorse. E molti rischiano di non guarire più.

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