Dolkun Isa, presidente del World Uyghur Congress, descrive a L’Espresso le prigioni segrete dove è morta sua madre ed è detenuta tutta la sua famiglia. E denuncia: «L’Alto commissario nasconde le accuse contro Pechino. Il lavoro dei giornalisti è importante»

L'ultima protesta l’ha guidata il 13 maggio scorso a Ginevra, davanti agli uffici dell'Onu, pochi giorni prima del viaggio in Cina dell'Alto commissario per i diritti umani Michelle Bachelet, ex presidente del Cile. Dolkun Isa, dal 2017 presidente del World Uyghur Congress (Wuc), era in prima fila ad arringare una folla di 500-600 uiguri, con i loro striscioni disperati: «Cina, stop al terrore», «Stop al genocidio». A protestare contro l’inerzia delle Nazioni Unite c’erano anche alcuni sopravvissuti, con le manette ai polsi, dei «campi di rieducazione», o di concentramento, creati dal regime comunista cinese nello Xinjiang. Erano tutti delusi, spazientiti, indignati.

 

L'attivista Isa ne spiega così le ragioni a L’Espresso: «L’Unchr, l'organismo dell’Onu diretto dalla signora Bachelet, ci deve ancora consegnare il rapporto finale sulla situazione dei diritti umani nello Xinjiang». È pronto fin dall'agosto 2021. Alla sua stesura, dal 2020 in avanti, hanno contribuito diverse organizzazioni non governative, insieme al Tribunale speciale istituito a Londra, su sollecitazione dello stesso Isa, per indagare su atrocità, persecuzioni e abusi, tanto gravi e sistematici da far ipotizzare l’accusa di genocidio, commessi dalle forze di sicurezza cinesi nei confronti di centinaia di migliaia di uomini e donne della minoranza etica e religiosa degli uiguri. Un trattamento disumano ora documentato dagli Xinjiang Police Files: migliaia di documenti interni della polizia cinese e di fotografie di oltre 2800 detenuti uiguri, rese pubbliche per la prima volta da un’inchiesta giornalistica che ha unito 14 testate internazionali, tra cui L’Espresso. 

 

Il rapporto dell’Onu sullo Xinjiang doveva essere consegnato nell'autunno 2021, poi la data è slittata al gennaio 2022, ma in realtà non se ne sa più niente, sembra sparito. La ragione è intuibile. Michelle Bachelet probabilmente non voleva urtare la sensibilità del presidente Xi Jinping alla vigilia di una visita storica dell’Unhcr in Cina, dal 23 al 28 maggio, preparata dalla fine di aprile con la trasferta del suo staff e programmata da più di tre anni.

ESCLUSIVO / XINJIANG POLICE FILES
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Una simile prudenza è giudicata sospetta dai rappresentanti degli uiguri. Da quando ha preso possesso della carica, nel 2018, la signora Bachelet non ha ancora preso posizione sulle violazioni dei diritti umani in Cina, pur essendosi pronunciata su altri temi, come ad esempio le violenze della polizia francese durante le manifestazioni dei gilet gialli o i reati di stampo razziale collegati all'uccisione dell'afroamericano George Floyd a Minneapolis, negli Stati Uniti. Alle critiche per il suo silenzio pubblico, Michelle Bachelet ha reagito dichiarando al giornale di Ginevra Le Temps: «Quando pensiamo che la nostra voce possa cambiare le cose, lo diciamo forte e chiaro. L'abbiamo fatto con i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite… L'Alto commissario ha affrontato le questioni dei diritti umani in Cina, sullo Xinjiang e su Hong Kong, sia in pubblico che in privato. L'abbiamo fatto direttamente con le autorità, con la società civile, con la diplomazia… Durante la mia visita in Cina, a fine maggio, sarò lieta di sollevare tali questioni in modo aperto con le autorità».

 

Dolkun Isa esprime un punto di vista ben diverso sugli uiguri e sulle loro condizioni: «Ci sono tre milioni di persone detenute in questi campi di concentramento del ventunesimo secolo. Non ci sono processi o difese legali per loro, solo misure di polizia. Soffrono, perché un giorno ti svegli e non hai più il diritto di guardarti intorno, di parlare, di stare con la gente, devi solo dimostrare lealtà alle autorità cinesi. Vieni privato della tua identità nazionale, religiosa, non puoi esprimerti nella tua lingua, ma solo in cinese. E, se non collabori, vieni sottoposto a torture fisiche, come accade a tutti, studenti, insegnanti, teenager, capi religiosi. Sei controllato con videocamere, giorno e notte. Vivi in celle che possono contenere anche 20 persone, dove non ci sono letti sufficienti, a volte soltanto un cuscino per dormire sul pavimento. Ti ritengono un terrorista. Questo succede perché Xi Jinping vuole sradicare l'etnia uigura con l’indottrinamento. È la politica dell'assimilazione».

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Il leader del Wuc, classe 1967, lo ha provato sulla sua pelle, come molti suoi parenti. Leader della contestazione studentesca all'università dello Xinjiang, è stato espulso e si è poi laureato in Turchia e in Germania. Perseguitato dal governo di Pechino, ha dovuto lasciare per sempre la Cina nel 1994 e ha trovato asilo politico proprio in Germania, dove nel 2006 ha acquisito la cittadinanza tedesca. Per lungo tempo è rimasto isolato dalla sua terra d'origine: «Per più di cinque anni non ho più potuto avere contatti con i membri della mia famiglia, li avevo persi». Poi, poco per volta, ha scoperto la triste verità: «Mia madre è morta, nel 2018, dopo essere stata internata in un campo di concentramento. Il mio fratello maggiore è stato condannato a 17 anni di carcere. Di quello minore non ho più saputo niente dal 2016, ma nel giugno del 2021 ho appreso da Radio Free Asia, l’emittente basata negli Stati Uniti, che era stato condannato all'ergastolo. Anche mio padre è morto, ma non so né dove né quando».

 

«Centro di rieducazione e formazione» è l’eufemismo usato dalle autorità cinesi per indicare strutture che in realtà, come dimostrano gli Xinjiang Police Files, sono prigioni di massima sicurezza, tenute segrete. C'è una data spartiacque, che distingue un prima e un dopo. Con l'avvento al potere di Xi Jinping, presidente della Cina dal 2013, la situazione è andata precipitando per gli uiguri, secondo Dolkun Isa: «Lui ha gettato la maschera. Ora è in atto un vero e proprio genocidio». L'escalation ha un regista, un fedelissimo del presidente: Chen Quanguo, nominato nel 2016 segretario del partito comunista nello Xinjiang, rimasto in carica fino al 2021. È lui l'architetto dei cosiddetti «centri di rieducazione». Il Dipartimento del Tesoro americano, nel documento che lo riguarda, scrive che si deve a lui l’attivazione di «migliaia di nuove stazioni di polizia» e «l'installazione di videocamere e strumenti di sorveglianza ovunque». Per queste ragioni il 9 luglio 2020 Chen è entrato nel mirino dell’Ofac, l'agenzia americana che applica le sanzioni, che lo accusa di essere stato lo stratega della grande repressione degli uiguri. Con lui è stato sanzionato l’intero Ufficio di pubblica sicurezza dello Xinjiang, che ha gestito concretamente «la costruzione di campi di detenzione di massa, chiamati centri di rieducazione».

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Già in quei documenti del 2020 l’agenzia americana descriveva l’utilizzo di una speciale piattaforma di intelligenza artificiale per realizzare un immenso «archivio di dati biometrici riguardanti milioni di uiguri nello Xinjiang», spiegando che «le persone così individuate sono state recluse in campi di detenzione e qui trattenute indefinitamente senza accuse, né processo». Molti sono morti dopo essere stati torturati. Più di anno dopo, il 16 dicembre 2021, l’Ofac ha applicato le sanzioni a otto società cinesi specializzate nella produzione di strumenti di alta tecnologia usati per il controllo di massa degli uiguri: riconoscimento facciale, grazie anche a dettagli sulla pigmentazione della pelle; monitoraggio di gruppi etnici; droni. Una di queste aziende ha schedato più di due milioni e mezzo di individui solo nello Xinjiang. Un'altra ha sviluppato un software per la trascrizione e la traduzione della lingua uigura, per permettere alla polizia di esaminare qualsiasi parola sospetta. Come? Nel 2018 gli abitanti di Xinjiang hanno dovuto scaricare nei loro computer una versione di questo programma in grado di rilevare «attività illecite». Si tratta di aziende avanzate, una di queste ha un valore di mercato di quattro miliardi di dollari. Con simili apparecchiature, si legge nel documento dell’Ofac, «nella regione dello Xinjiang si è creato uno Stato di polizia». Le accuse dell’agenzia americana ora risultano confermate dai documenti interni della stessa polizia cinese, anche con riferimento ai programmi di spionaggio informatico della popolazione.

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Chen Quanguo è riuscito ad attuare una politica così repressiva, definita «il modello Xinjiang», dopo aver fatto esperienza in un’altra regione cinese, in Tibet, dove era stato segretario del partito comunista nei precedenti cinque anni, dal 2011 al 2016. E dove i provvedimenti di militarizzazione e repressione hanno avuto un grande successo, spianandogli così la strada per la promozione nello Xinjiang. Un successo non del tutto completo, per la verità, perché Chen non è riuscito nel suo intento di favorire i matrimoni misti tra cinesi e tibetani, troppo legati alle loro tradizioni.

 

Dolkun Isa conosce bene Chen Quanguo e ricorda con commozione il sacrificio di 160 monaci tibetani che si sono immolati, bruciandosi vivi, in segno di protesta contro i sistemi autoritari cinesi. Come conosce bene anche un altro dei protagonisti delle discriminazioni nello Xinjiang, Zhao Kexhi, ministro della pubblica sicurezza dal 2017: «Un politico devoto a Xi Jinping», lo definisce. Un politico citato in uno dei documenti segreti ora trapelati all'esterno, che riassume un suo discorso del 15 giugno 2018, sottoposto anche a Xi Jinping, durante una visita nello Xinjiang. Il suo comizio davanti agli ufficiali di polizia svela le tappe della strategia elaborata da Chen Guanquo durante la sua gestione. Con gli obiettivi da raggiungere, tra il 2017 e il 2022, per stroncare «l’estremismo e il separatismo». Dopo un anno: «stabilità». Dopo due anni: «consolidamento dei risultati». Dopo tre: «normalizzazione». Dopo cinque anni: «stabilità totale».

 

Per conseguire questi obiettivi il piano quinquennale ha previsto un grande potenziamento delle forze di sicurezza e della vigilanza alle frontiere. Sono state così reclutati decine di migliaia di poliziotti, distribuiti in 7.629 stazioni, per  «aumentare il senso di sicurezza della gente». Ai confini sono state piantate massicce recinzioni in filo spinato per ben 5.700 chilometri. E 60 mila residenti in quelle zone di confine sono stati chiamati a sorvegliare per evitare ingressi o uscite illegali, all'insegna del principio: «Nessuno può uscire, nessuno può entrare». Infine, le prigioni. Già entro la fine del 2018, nel secondo anno del piano, era prevista la costruzione di 27 nuovi centri, per accogliere 57 mila detenuti in più, con una spesa di 2,25 miliardi di yuan, circa 290 milioni di euro. Un piano giustificato dalla «guerra al terrorismo». 

 

L'Espresso ha già pubblicato una serie di articoli, a partire al 24 maggio, sugli Xinjiang Police Files, cioè sulle migliaia di foto e documenti hackerati da un anonimo e messi a disposizione di 14 testate internazionali, da Der Spiegel a Bbc News, grazie al lavoro di ricerca del professore tedesco-americano Adrian Zenz. In un suo saggio di 56 pagine lo stesso Zenz ha cercato di decodificare il disegno complessivo di Xi Jinping e la «campagna di rieducazione dello Xinjiang».

 

Secondo lo studioso, che è docente di antropologia, «l’inquadramento di interi gruppi etnici come minacce estreme per la sicurezza» rappresenta un caso di «paranoia politica».

 

Incurante di queste accuse, proprio il 24 maggio il ministro degli Esteri cinese Wang Li ha offerto a Michelle Bachelet, al suo arrivo a Canton, un libro del presidente Xi Jinping sui diritti umani. E ha fatto precedere l’Alto Commissario dell’Onu da una dichiarazione polemica del suo portavoce, Wang Wenbin: «Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e altri Paesi occidentali hanno continuato a mettere in scena delle farse politiche riguardanti la visita di Bachelet». Concetti già esposti la sera prima nella replica delle autorità cinesi all’inchiesta giornalistica internazionale, pubblicata anche da l’Espresso: «La regione dello Xinjiang ora gode di stabilità sociale e armonia, così come di sviluppo economico e prosperità. La popolazione locale sta vivendo una vita sicura, felice e piena di soddisfazioni. Questi fatti sono la più potente risposta a ogni sorta di menzogne e disinformazioni sullo Xinjiang. Con gli sforzi concertati di tutti i gruppi etnici noi crediamo che questa regione potrà avere un futuro ancora più luminoso».

 

Sul fronte opposto, il presidente del World Uyghur Congress, Dolkun Isa, commenta con queste parole il lavoro dei giornalisti: «Per la comunità uigura, queste inchieste sono importanti conferme di una realtà che conosciamo e sperimentiamo da tempo. In particolare, mostrano il funzionamento interno del sistema di repressione cinese e le intenzioni che sono alla sua base. Sono un doloroso promemoria, per noi e per tutti. Per le nostre famiglie e per molti uiguri della diaspora, le immagini e i dati che avete scoperto negli archivi della polizia dello Xinjiang potranno dire finalmente che cosa è successo ai nostri cari. Ciò che la Cina sta facendo al popolo uiguro non ha nulla a che vedere con la lotta al terrorismo. Di fronte a queste nuove e importanti prove, gli uiguri sperano che la comunità internazionale ponga fine al suo approccio business-as-usual con la Cina e agisca finalmente per far cessare questi crimini atroci».