Una cellula indipendente benedetta dai piani alti in Calabria e colonia del clan Alvaro. Di cui riproduce riti arcaici e stile nelle minacce: «Gli butto tanto di quell’acido in faccia alla moglie, che quando la guarda deve dire “per colpa mia”. A lui lo metto sulla sedia a rotelle»

Qualcosa sta cambiando (e non in meglio) se le mafie tradizionali approdano a Roma non solo per inquinarne l’economia con i loro immensi capitali sporchi, accumulati altrove, ma anche per restare e radicarsi. La cronaca ci ha abituato a considerare la città una gigantesca lavatrice messa a disposizione di clan e faccendieri, attraverso un’infinità di attività commerciali, difficili da controllare se intestate a prestanome incensurati.

 

Ma questa è un’altra storia, che racconta di come due ’ndranghetisti abbiano scelto la capitale non solo per far transitare i propri affari, ma per far nascere la prima “locale” romana di ’ndrangheta, ovvero una cellula indipendente, ma benedetta dalla casa madre, per riprodurre riti, linguaggio, affiliazioni, conferimento di doti e violenza intimidatoria, con cui assoggettare e condizionare il territorio. Per l’organizzazione criminale un salto di qualità, che prevede il trasferimento di un’identità e di una cultura mafiosa che ha le sue radici in Calabria, ma che prolifera a Roma . «Una carovana pronta a fare una guerra», può dire della squadra dei suoi affiliati il boss Vincenzo Alvaro, a capo insieme ad Antonio Carzo della prima locale romana, una vera e propria propaggine del sodalizio criminale reggino di Cosoleto e Sinopoli.

 

Entrambi arrestati, insieme ad altre 75 persone tra Roma e la Calabria, in un’operazione della Dia, coordinata a Roma dai procuratori aggiunti Michele Prestipino e Ilaria Calò, che ha portato al sequestro di 24 società operanti nella capitale soprattutto nel settore ittico, della ristorazione e della panificazione.

 

A febbraio scorso i carabinieri del Nucleo investigativo del Comando provinciale di Roma hanno arrestato in un maxiblitz 65 persone, accusate di far parte di una “locale” di ’ndrangheta guidata da Giacomo Madaffari e Bruno Gallace tra Anzio e Nettuno, dedita al narcotraffico internazionale. Insediamenti calabresi se n’erano visti finora, ma sempre fuori dalle due grandi città: Paolo Iannò, potente boss di Gallico, poi diventato collaboratore di giustizia, racconta che prima del 2015 non era stata creata né a Roma né a Milano alcuna “locale” di ’ndrangheta, per una sorta di patto mafioso con Cosa nostra e camorra, per evitare l’insorgere di guerre di mafia che avrebbero inevitabilmente attirato forze dell’ordine e provocato arresti.

 

La situazione era evidentemente cambiata, se due affiliati di altissimo rango come Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro ricevono «l’onore», come lo definisce Carzo stesso, di ricostituire una filiale a Roma della cosca reggina da cui provengono. Si tratta di una circostanza di grande rilevanza se si tiene conto che la ’ndrangheta ha una struttura unitaria e che la costituzione di una locale è una decisione presa al vertice, cioè dalla “provincia”, detta anche “crimine” o “crimine di Polsi”: l’organo collegiale di governo della ’ndrangheta, composto da soggetti che ricoprono “doti” (gradi) di altissimo livello appartenenti ai tre mandamenti in cui è stata suddivisa la Calabria (jonico, di Reggio centro e Tirrenico).

 

La “provincia” si riunisce solo per deliberare su questioni di estrema importanza, come approvare l’omicidio di un affiliato o di un componente di un’altra organizzazione mafiosa, fare nuove investiture o costituire una nuova locale. Ogni “locale” nel mondo deve essere approvata dalla “provincia”, altrimenti prende il nome di “bastarda”.

 

Vincenzo Alvaro era arrivato a Roma insieme al suo gruppo - dopo essere stato assolto dal reato di associazione mafiosa - nei primi anni 2000, come aiuto cuoco in un bar di cui avrebbe fatto acquisire a suoi fiduciari il controllo prima di essere assunto. Ma è solo nel 2015, grazie al prestigio criminale di Antonio Carzo (arrivato a Roma l’anno prima dopo continui arresti e scarcerazioni) che da «là sotto», come lui stesso si riferisce alla madre patria calabrese, viene riconosciuta per la prima volta la locale romana guidata dalla diarchia Alvaro-Carzo. Una benedizione ricevuta durante una riunione del “crimine” in Calabria: «Quando siamo stati là gli ho detto: io vi ringrazio dell’onore che mi avete dato», rivela Carzo intercettato.

 

Vincenzo Alvaro è la mente commerciale del gruppo, diventato punto di riferimento a Roma per affiliati o appartenenti ad altre cosche che volessero investire i loro capitali. Antonio Carzo invece è un leader carismatico, spinto da spiccate manie di grandezza, in grado di aggregare i tanti ’ndranghetisti presenti a Roma che fino al 2015 non avevano avuto una “locale” di riferimento.

 

I due capi si mimetizzano nella traballante economia romana con un’enorme iniezione di liquidità: acquisiscono bar, forni, ristoranti, cercano di espandere il proprio business nella catena di supermercati Elite, attraverso la distribuzione di pane e pasta fresca. Scelgono locali periferici, prevalentemente, lontano dalla bella vita per non dare nell’occhio.

 

Sono lontani, del resto, i tempi del Café de Paris, in via Veneto. Se poi qualche prestanome, come Lorenzo Silvi, è così poco accorto da pensare di fare il furbo, Carzo gli fa arrivare un messaggio feroce e inequivocabile: «A me se non mi dà i miei soldi gli faccio male a lui e sua moglie…», dice intercettato, parlando di Silvi, colpevole di non restituire la somma di 25 mila euro: «Gli butto tanto di quell’acido in faccia alla moglie, che quando la guarda deve dire “per colpa mia”… a lui lo metto sulla sedia a rotelle… Io se ci sono i bambini ti prendo i bambini… i bambini a che servono? Per fargli male, solo a questo».

 

E ancora Carzo al telefono con Antonino Delfino, un’altra testa di legno, da cui pretende la restituzione di 500 mila euro: «Se ti piglio ti scanno come un capretto… domani vieni e portami i soldi che ti giuro sull’anima di mia madre che vengo e ti ammazzo». La ’ndrangheta si è trasferita a Roma con la stessa violenta capacità di intimidazione mafiosa di cui si avvale in Calabria. I due boss Alvaro e Carzo sanno bene però che per fare affari «bisogna stare quieti, quieti», come dice lo stesso Carzo, dopo aver maledetto «Pignatone, Cortese e Prestipino», la squadra di magistrati e investigatori che dalla Calabria si era ritrovato al suo arrivo a Roma.

 

Per fare business è necessario muoversi nell’ombra e trovare un equilibrio con le altre consorterie criminali, senza pretendere - come avverrebbe in Calabria - né il controllo militare del territorio né posizioni egemoniche: «Non è che io devo comandare qua a Roma… questi della Magliana sono tutti amici nostri, tutti questi dei Castelli… questi dentro Roma, tutto l’Eur che sta con noi…li conosciamo tutti a Torvaianica… al Circeo… sono amico di tutti e mi rispetto con tutti». Anzi, alla mala locale, a Terenzio Fasciani dell’omonimo clan per esempio, i calabresi si appoggiavano per il recupero crediti, potendo contare sulla loro riserva di violenza e manovalanza criminale.

 

Non sorprende, quindi, che i due calabresi stringessero accordi commerciali a cena con Angelo Mazza, nipote dei fratelli Moccia, capi indiscussi del potentissimo clan di camorra di Afragola, attivo in un’infinità di attività economiche tra Roma e Napoli nord e di cui questo giornale ha trattato in un’inchiesta pubblicata lo scorso aprile. Il potere della “locale” romana di ’ndrangheta è dunque riconosciuto e rispettato dagli altri poteri criminali presenti sul territorio, con i quali si preferisce spartire gli affari piuttosto che farsi la guerra.

 

A Roma come in Calabria, il rispetto dei riti e delle tradizioni non è solo una questione formale, ma identitaria. Antonio Carzo se ne occupa scrupolosamente, organizzando le cosiddette “imbasciate” e “mangiate”: le prime sono incontri riservati tra pochissime persone, le “mangiate”, invece, sono riunioni più larghe a cui si può partecipare solo se invitati e in tal caso non ci si può rifiutare se non con una valida giustificazione. In questi incontri si decidono le strategie criminali, le doti da assegnare e gli omicidi da compiere.

 

Si parla di armi da procurarsi («Sono andato a parlare da quello per un poco di ferri»,) della gerarchia delle “doti” (“camorrista”, “sgarrista”, “mastro di giornata”), dei matrimoni da fare per favorire l’organizzazione. Sembra la Calabria e invece è Roma, città aperta a tutte le mafie, che l’attraversano, la inquinano, la spolpano e alla fine, senza che ce ne rendiamo conto, la conquistano.