Abortire è impossibile. E anche i reparti di ginecologia sono carenti. Nella regione l’emergenza sanità non colpisce tutti allo stesso modo

In provincia di Cosenza, l’appello alla coscienza nella Sanità può diventare un diritto feudale di vita e di morte sulla salute della donna e sui suoi diritti, come quello all’aborto. Sebbene per legge l’interruzione volontaria di gravidanza sia garantita in Italia dal 1978, in alcune aree della Calabria, l’unica regione insieme al Molise dove la sanità è commissariata da oltre dieci anni, l’aborto è un diritto campito in una lettera scarlatta. A Cosenza, per esempio, la provincia dove sempre meno ospedali e un pulviscolo di cliniche private gestiscono la salute di oltre 70mila abitanti, sul corpo della donna si consuma uno scontro politico ancora più esacerbato nel clima pre-elettorale.

 

Se l’appello a invertire la rotta dell’emigrazione di cui beneficia la Sanità del nord urlato da Giorgia Meloni in piazza Kennedy ha infiammato gli animi in una notte di fine agosto, poco lontano altre donne urlavano la rivendicazione dei loro diritti: si tratta delle femministe di Fem.In. Cosentine in lotta, incatenatesi ai cancelli dell’ospedale Annunziata qualche giorno dopo la dipartita dell’ultimo medico non obiettore del nosocomio: «Dopo le nostre pressioni, l’azienda ospedaliera è corsa ai ripari facendo un bando apposito per l’assunzione di un consulente esterno per garantire l’aborto», spiega Jessica Cosenza in una piazza abbacinata dal sole d’agosto, ma silente: la drammatica resa del silenzio a cui sono condannate tante donne cosentine. Oggi la provincia ha affidato l’incarico professionale a una dottoressa, che con due accessi a settimana dovrebbe permettere alle donne di abortire: «Ma si tratta pur sempre di una consulenza esterna, che dura mesi e ha un costo diverso rispetto all’assunzione di un interno. Per di più, la clausola dell’obiezione di coscienza in un futuro concorso pubblico non è consentita per legge, quindi non sappiamo se i medici che verranno assunti saranno obiettori o meno» puntualizza Cosenza. Una soluzione tampone, che mostra la fragilità di un diritto.

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In una provincia dove la Sanità è sempre più simile a un ospedale da campo, chi può va ad abortire altrove. A Vibo Valentia, per esempio, la realtà è molto diversa, come spiega Lia Ermio, direttrice dell’Unità operativa complessa di Ginecologia ed Ostetricia vibonese: «Abbiamo circa il 60 per cento di medici non obiettori: una percentuale più alta rispetto ad altre realtà». Ermio collabora anche con Vita di donna, l’associazione che offre sostegno medico alle donne che ne hanno bisogno, e sa per esperienza quanto l’obiezione di coscienza pesi sulle donne e sul personale non obiettore: «Se c’è un solo medico non obiettore, il carico di lavoro ricade su lui solo, senza gratificazioni di natura economica. A volte si è costretti a fare l’obiezione di coscienza per non finire sovraccaricati di lavoro. Si può, quindi, condannare chi non regge più il ritmo?».

 

È il paradosso della legge che rafforza un diritto e ne indebolisce un altro, della libertà di coscienza che si trasforma in costrizione e anche in stigma sociale per chi opera l’aborto: «Per anni io ero chiamata Erode, come altri miei colleghi. Intanto chi fa una scelta diversa dalla nostra pensa che l’obiezione sia a tutto tondo, quando non è così». L’articolo 9 della 194, infatti, dà la possibilità al personale medico-sanitario di sollevare obiezione di coscienza nel «compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza», ma non nella «assistenza antecedente e conseguente all’intervento». Così lo iato tra la legge e la realtà può essere lungo decine di chilometri per una ragazza che, spesso, è lasciata sola.

Le attiviste di Fem.In cercano di colmare il loro senso di abbandono e la richiesta di privacy: «Le maggiorenni che ne hanno la possibilità, non ne parlano in famiglia. Davanti a tanti disagi c’è chi ammette che sarebbe più facile abortire all’estero che qui». Non è raro che il marchio di “interrotte” sia impresso su di loro: «La cosa più assurda che ci è capitata accompagnando una ragazza al Pronto soccorso ginecologico di Castrovillari è stato vedere le guardie decidere quali casi hanno o meno la precedenza. A Lamezia, invece, il personale voleva che la donna vedesse il monitor dell’ecografo, che per molte può essere traumatico. Per questo, chi può sceglie di andare altrove, come a Lagonegro, in Basilicata» spiega Cosenza.

 

I primi ostacoli sono nei consultori, scatole vuote con personale sottodimensionato, denuncia Fem.In: «A volte manca l’ostetrica, o l’assistente sociale, o lo psicologo. Per esempio, in un consultorio abbiamo scoperto che la dottoressa assegnataria di servizio non si presentava al lavoro, per cui le liste erano lunghissime. Altrove mancavano ginecologo e strumentazioni». Il disservizio diventa paradosso nel consultorio dell’Università della Calabria, dove circa la metà degli studenti è donna in età sessualmente attiva: «Nel consultorio dell’Unical non c’è un ecografo» spiega Caterina Falanga, poi Jessica Cosenza aggiunge: «Ti fanno le visite manualmente, come negli anni Ottanta, e se c’è necessità di un’ecografia sono costretti a mandarti in un altro consultorio o in ospedale. Tempo fa abbiamo accompagnato una studentessa rimpallata dal consultorio al pronto soccorso. Ma come si fa?».

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Persino l’aborto farmacologico che, grazie alle linee guida diramate dal Ministero della Salute due anni fa, alleggerirebbe l’accesso alle Ivg, in Calabria è stato recepito in parte, comunque a distanza di anni luce da regioni più virtuose come la Toscana dove, a partire dallo stesso 2020, sono state emanate indicazioni per l’utilizzo dei farmaci Mifepristone e Prostaglandine in ambulatorio extra-ospedaliero oppure collegato con una struttura ospedaliera. Nel cosentino, se non mancano le strutture, esse non sono sempre attrezzate. E così, nella babele delle lunghe liste d’attesa, la presenza di un personale obiettore appesantisce il carico di lavoro sulle spalle dei non obiettori, come denuncia la dott.ssa Ermio: «L’obiezione è una coperta che viene tirata a proprio piacimento. Chi non vuole fare questo lavoro, non dovrebbe fare il ginecologo».

 

Ma la partita politica in atto non riguarda solo la libertà di scelta. Nella regione dove il piano di rientro del debito sanitario resta un rebus irrisolvibile per Roma, l’emigrazione per ragioni sanitarie è una costante drammatica. Nel 2019, infatti, dalla provincia di Cosenza emigrava il 40 per cento dei calabresi, cioè più di 21mila ricoveri per un valore di prestazioni di oltre 86 milioni di euro. Una fetta consistente dei ricoveri (il 30 per cento) riguardava operazioni di chirurgia generale, ginecologia ed ostetricia ed ortopedia, spesso in relazione a terapie oncologiche. Sono cifre che ha ben presenti Carlo Guccione, attuale responsabile per la sanità nel Mezzogiorno del Partito democratico: «Cambiano i commissari, ma i numeri restano gli stessi: la provincia di Cosenza dovrebbe avere almeno 705 posti letto: ne ha meno di 500» ammette con amarezza. La situazione ristagna drammaticamente nelle cure oncologiche: «Oggi spendiamo 40 milioni di euro per le terapie fuori regione quando, con due miliardi di euro che la Calabria ha stanziati per l’ammodernamento della sanità, non riusciamo ad acquistare i tre acceleratori nucleari che snellirebbero le liste di attesa con cure più appropriate». Ancora una volta, questa paralisi del servizio sanitario territoriale si gioca sulle donne, come spiega l’attivista di Fem.In, Vittoria Morrone: «Fino a poco tempo fa, il settore privato colmava il vuoto pubblico su interventi emergenziali di oncologia femminile, come le mastectomie. Ma si trattava di speculazioni su singoli interventi, perché venivano esclusi tutti i servizi collaterali di cui necessita una paziente nel percorso della sua malattia».

 

Per questo motivo, con il dca del 5 luglio 2020, il commissario ad acta di allora, Carlo Cotticelli, ha istituito le breast unit, strutture ad hoc per il trattamento del tumore alla mammella. Una decisione lodevole sulla carta per arginare il monopolio delle cliniche private, ma che nella pratica ha lasciato un vuoto organizzativo pagato dalle stesse pazienti: «Ci vuole tempo perché sia attivato un percorso di breast unit e spesso il numero degli interventi chirurgici per avviarlo non è un requisito sufficiente. Ma in base a cosa vengono stabiliti tali requisiti? Quando c’è una sanità che fa acqua da tutte le parti, le buone intenzioni contano poco» dice Morrone. Così alcune pazienti sono costrette ad operarsi in un ospedale e fare la terapia altrove, sottoponendosi a uno stressante rimpiattino in una provincia costellata di comunità nell’entroterra e quindi, orograficamente, poco accessibile. Il paradosso è che, se si fa della donna alfa ed omega di uno scontro politico o di coscienza, si perde di vista il tempo e lo spazio in cui una donna ha il diritto di vivere o, ingiustamente, di morire.