L’attuale assessora al Pirellone è data in pole per il posto oggi occupato da Roberto Speranza. E così potrebbe “lombardizzare” la sanità italiana, distruggendo il Ssn

Letizia Moratti ministra della Salute se vince la Destra. E la sanità privata esulta

Nel palazzo di vetro e acciaio della Regione Lombardia c’è chi s’appresta a fare gli scatoloni, con entusiasmo. Sono passati due anni da quando il pompiere della sanità lombarda planò sul Pirellone per salvare la faccia alla giunta leghista di Attilio Fontana, dopo gli scivoloni dell’assessore al Welfare, Giulio Gallera. Letizia Moratti, 73 anni a novembre, già presidente Rai nel primo governo Berlusconi, ministra dell’Istruzione ed ex sindaca di Milano oggi è vicepresidente e assessora alla Sanità lombarda, anche se ufficiosamente è la commissaria di tutta la baracca.

 

In questi ultimi mesi al Pirellone si è occupata delle modifiche alla legge regionale in materia di sanità e della creazione delle case e degli ospedali di comunità previste dal Pnrr. A giugno, in previsione delle elezioni regionali del 2023, la Moratti si era detta pronta a candidarsi, Salvini le ha però risposto a stretto giro: «Squadra che vince non si cambia», ovvero «noi, si punta su Fontana». Tant’è che Calenda aveva pure pensato di portarsela in Azione. Moratti contro Fontana, uno scontro elettorale interessante, che tuttavia non andrà in scena, perché la destra ha una migliore soluzione per lei: il ministero della Salute.

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Mentre il presidente della Simeu, la società di emergenza e urgenza, Fabio Deiaco, si sgola nel dire che «finora in questa campagna elettorale non si è parlato della difesa del Servizio Sanitario Nazionale», nonostante i Pronto Soccorso siano all’osso e manchino medici e infermieri per far funzionare le case della comunità e gli ospedali finanziati con il Pnrr, ma anche quelli per la normale gestione del Ssn, la destra al futuro della sanità ci ha pensato, eccome. Il nome di Letizia Moratti come possibile ministro ha già raccolto il pieno consenso della triade Meloni-Salvini-Berlusconi che punta a “lombardizzare” il Servizio Sanitario Nazionale, nonostante il Covid ne abbia drammaticamente reso evidente l’inadeguatezza, in quanto orientata a privilegiare ospedali privati a fronte di una marginalizzazione della medicina territoriale. Del resto è proprio quello che sta avvenendo in Abruzzo, dal 2019 governato da Marco Marsilio di FdI, che ha affrontato la pandemia e l’allungamento delle liste d’attesa ricorrendo ad accordi con i privati.

 

Per capire l’approccio morattiano alla Salute è necessario partire dalla nuova Legge 22 del 2021, creata appunto dall’assessora, che si basa sull’equivalenza fra servizio pubblico e privato. In pratica è la conclusione del percorso iniziato nel 1996 da Formigoni con il principio di medicina convenzionata, poi perseguito da Maroni con la sua riforma che ha progressivamente tolto risorse alla sanità pubblica, convogliandole verso la sanità privata accreditata. «Anche il ministero dell’Economia, nelle sue osservazioni alla Legge Moratti, ha espresso perplessità rispetto alla formulazione di equivalenza tra pubblico e privato perché, di fatto, scardina i principi della Legge del dicembre del 1978, quella che ha dato vita al Servizio Sanitario Nazionale, fondato su universalismo e solidarietà», spiega il medico e responsabile dell’Osservatorio Salute di Medicina Democratica Vittorio Agnoletto, in generale molto critico nei confronti del modello lombardo: «Teoricamente il Servizio Sanitario Nazionale dovrebbe essere in grado di soddisfare i Lea, ovvero i livelli essenziali di assistenza e, dove il Ssn non ci riesce, allora dovrebbe puntare ad accreditare le strutture private. In Lombardia lo schema è un altro: qui ogni privato ottiene l’accreditamento, a patto di possedere basilari requisiti tecnici, e gareggia contro le strutture pubbliche che, dovendo rispondere a regole, protocolli e contratti più stringenti, risultano spesso perdenti sul mercato sanitario lombardo», chiosa Agnoletto.

 

Lo strascico più pesante della pandemia è l’allungamento delle liste d’attesa che l’assessora al Welfare Letizia Moratti ha affrontato con piglio thatcheriano, ovvero con una delibera che prevede premialità e penalizzazioni per chi eroga ricoveri chirurgici oncologici, prime visite ambulatoriali e diagnostica per immagini. Le strutture che non riusciranno a riportare le liste d’attesa entro la soglia di normalità subiranno una riduzione dal cinque al 50 per cento del valore della prestazione e del ricovero. E i maggiori risparmi saranno ripartiti fra gli ambulatori, le cliniche e gli ospedali più puntuali ed efficienti.

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«Concretamente le strutture pubbliche, che hanno maggiore rigidità sia nella gestione del personale (già sotto organico) sia nella pubblicazione dei bandi per l’acquisto di macchinari, difficilmente potranno competere con la sanità privata più agile nello spostare personale da un settore all’altro. Si rischia di penalizzare le aziende ospedaliere pubbliche e trasferire ulteriori risorse al privato che in Lombardia già riceve il 40 per cento delle risorse», dice Agnoletto. Del resto in Lombardia anche i fondi pubblici per la riduzione delle liste d’attesa sono stati spartiti in parti uguali fra pubblico e privato, nonostante le criticità maggiori siano nel primo, perché il personale medico è fuggito dai reparti dopo il burnout provocato dal super lavoro portato dal Covid e chi è rimasto respinge categoricamente la possibilità di estendere il turno di lavoro fino a tardi e nei prefestivi per scorrere le liste d’attesa senza un’adeguata compensazione economica.

 

La criticità maggiore, in Lombardia ma non solo, si riscontra nella porta d’accesso al Servizio Sanitario Nazionale, ovvero nella carenza di medici di Pronto Soccorso e di medici di base. In regione mancano all’appello mille medici di famiglia: tradotto significa che un lombardo su dieci non ha un medico di base o deve accontentarsi di un dottore che accetta di andare oltre la soglia dei 1.500 pazienti, quindi diventando introvabile per un consulto o una visita. Si è fatta quindi avanti la sanità privata. Pioniere è il Centro Medico Santagostino, che per 45 euro offre il servizio di Guardia Medica privata, dove si può accedere senza prenotazione, tutti i giorni, sabato compreso. A Varese il Gruppo Beccaria è andato in scia, offrendo un servizio analogo per chi non riuscisse a raggiungere il proprio dottore. Nel lecchese la Clinica San Martino è andata oltre con un abbonamento annuale a “soli” 69 euro per visite di controllo. Un affare, non fosse che in Italia i cittadini avrebbero diritto al medico di base e al servizio di guardia medica gratuitamente.

 

L’appello dei medici alla politica per rimettere al centro il Ssn potrebbe risultare lettera morta se il futuro governo dovesse approvare l’autonomia differenziata nelle forme richieste da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, consegnando definitivamente l’organizzazione e la gestione del Ssn alle singole regioni, che potrebbero anche decidere di spingere l’acceleratore sulla privatizzazione, ad esempio istituendo fondi di copertura integrativa regionale, come ha proposto Moratti in Lombardia, e ampliando la presenza del privato nella medicina di base.

 

Quest’ultima è una soluzione auspicata, fra gli altri, da Luca Foresti, amministratore delegato della Santagostino, rete di 31 ambulatori nati per conciliare tariffe accessibili e qualità di prestazione, che rivolgendosi al ministero della Sanità e alla luce della scarsità di personale sanitario (che diventerà ancora più evidente quando le Case e gli Ospedali di Comunità finanziate con il Pnrr dovranno trovare il personale per funzionare), ha avvertito: «Per un reale cambio di passo il dottore di famiglia dovrebbe essere arruolato in un team, anche dal punto di vista contrattuale». Tuttavia il sindacato difende a spada tratta il regime libero-professionale dei medici di base, nonostante la possibilità di lavorare in team offra migliori e maggiori prestazioni per i cittadini.

 

Partendo dalle reali carenze di personale e dall’elevato bisogno di cura della popolazione, Foresti propone di sperimentare, almeno per un anno, l’affidamento di una percentuale di abitanti alle cure di una struttura privata accreditata e di valutare i risultati in base al gradimento degli utenti e agli esiti di salute. Una prova che si potrebbe fare se la Regione Lombardia avesse le mani libere sul fronte della medicina di base, che invece resta vincolata alla centralità del Ssn. Per ora. Ma quando Letizia Moratti sarà ministro della Sanità qualcosa potrebbe cambiare, ad esempio convenzionando anche le strutture private alla medicina di base. Su questo punto Vittorio Agnoletto è categorico: «Se le chiavi della porta d’entrata al Servizio Sanitario vengono offerte al privato, allora il servizio pubblico ha chiuso. Perché se sotto al camice del medico di famiglia c’è il dipendente da una struttura privata, allora quest’ultimo sarà sollecitato a invitare i pazienti a eseguire accertamenti ed esami negli ambulatori (privati) in cui lavora. Del resto è quello che sta già succedendo oggi con i servizi di guardia medica privata, dove i pazienti che non riescono ad accedere al medico di base, si affidano alle cure a pagamento delle cliniche».

 

Dunque, se la destra dovesse andare al governo è chiaro che darà maggiore impulso all’autonomia differenziata. E se dovesse vincere la sinistra o il centro? Il Terzo Polo e Potere al Popolo sono categorici: vogliono favorire la centralizzazione della sanità. Mentre il Pd ha le idee confuse: nel programma sostiene l’autonomia differenziata, ma poi candida il microbiologo Andrea Crisanti che ha definito il federalismo sanitario «una iattura».

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