Un fantasma si aggira sul (probabile) governo Meloni: quello di Matteo Salvini. Molto prima dei selfie con gli abbracci sorridenti a sfondo mare dello Stretto, di stantii patti fondati su un qualche tipo di cibo (stavolta le braciolette messinesi) che come al solito durano sei minuti, molto prima delle discussioni sui blocchi navali per fermare i migranti (idea sua) o sul ripristino dell’immunità parlamentare per fermare i magistrati (idea di Carlo Nordio), una domanda di fondo attanaglia la leader di Fratelli d’Italia: Matteo dove lo metto?
Le ipotesi fluttuano, la faccenda è tutt’altro che una banale questione di poltrone: riguarda gli equilibri della prossima maggioranza di governo e, a braccetto con la perenne lite fra i due leader giovani del centrodestra, percorre sottotraccia la campagna elettorale fin dall’inizio.
Si sa infatti che Salvini non sta nella pelle all’idea di tornare al Viminale: il fatto è che lei, Giorgia Meloni, non ce lo vuole. Era il primo agosto quando il leader leghista tornò ad accarezzare pubblicamente il proposito di tornare, era il 4 agosto quando rilanciò la sua candidatura, in mezzo a una visita-spot a Lampedusa. Ma sarebbe stata, in pratica, l’ultima volta. Già la prima sera Meloni aveva infatti iniziato a diffondere per tam tam la propria contrarietà a un ritorno dell’ex ministro al posto di prima, anche facendo emergere, nelle chiacchiere dei fedelissimi, il dubbio giudiziario su di lui, vale a dire: non è che la sentenza su Open Arms ci arriva tra i piedi troppo presto? (info per gli appassionati: il processo che vede imputato Salvini è ai testimoni dell’accusa, volendo fare una stima a spanne ci dovrebbero volere almeno otto/dieci mesi per la sentenza).
Molti motivi di fondo, per Meloni: troppa continuità col governo gialloverde guidato da Giuseppe Conte, troppo alto il rischio di strappetti continui, tra blitz a Lampedusa e proclami su un terreno che anche Fratelli d’Italia considera suo. Insomma ogni giorno il dibattito nel governo somiglierebbe a questi che viviamo. Non molto rassicurante.
Certo il Viminale, l’altra volta, a Salvini era piaciuto assai: di lì, infatti, si può fare molta propaganda e lavorare poco, come aveva potuto sperimentare lui stesso passando fuori dai suoi uffici sessanta dei primi novanta giorni da ministro, nell’ormai lontano 2018: mentre a comandare c’era il suo capo di gabinetto, Matteo Piantedosi, oggi prefetto di Roma, l’altro Matteo, il ministro, era in giro per l’Italia, da Pinzolo a Furci Siculo, tra sagre, pranzi, moto d’acqua, selfie, vassoi di fritti. Vorrebbe tornare a quell’equilibrio, ma nel corso dell’agosto appena concluso ha «capito che non potrà», sussurrano ora i meloniani facendo notare come il capo della Lega abbia smesso del tutto di evocare l’incarico ministeriale (per quanto, dai manifesti 6 per 3 al continuo citare i decreti sicurezza, tutto in lui lo trasudi) e abbia invece imboccato la strada dell’iperbole: «Se gli italiani vogliono andrò a Palazzo Chigi e da lì ogni tanto telefonerò anche a chi sta al Viminale», dice ora quando glielo chiedono («vado ad allenare il Milan», ha sospirato una volta come rassegnato).
Ebbene, ma se il Viminale no, Matteo dove si potrà sistemare? Nel cerchio magico di Fratelli d’Italia ci si riflette, mentre solenne la leader dichiara dalla piazza di non parlare di liste di ministri neanche con sé. Di solito, a stare ai precedenti, il leader di un alleato minore lo si alloca agli Esteri, come accaduto con Luigi Di Maio, o anche in passato con Gianfranco Fini, ministro degli Esteri del governo Berlusconi. Ma qui viene il secondo, grosso nodo della questione: il fronte internazionale, la credibilità e la reputazione fuori dai confini.
In Europa anche i vertici del Ppe hanno infatti incominciato a distinguere tra Meloni e Salvini, come notava l’altro giorno Repubblica: il leader leghista, a partire dai rapporti con la Russia, viene considerato fuori dal circuito democratico e atlantico dell’Unione. Giorgia Meloni è al contrario ritenuta per così dire convertita all’europeismo: e del resto l’atteggiamento tenuto da Fdi sin dall’aggressione a Kiev, con l’adesione alle scelte del governo Draghi, l’invio delle armi, il sì deciso all’adesione alla Nato di Finlandia e Svezia (laddove Salvini ha abbaiato finché ha potuto) fino al no allo scostamento di bilancio di 30 miliardi chiesto dalla Lega (e appoggiato da Tajani) per fare fronte alla crisi energetica, hanno portato Meloni molto più su anche nella considerazione oltreoceano, come si è visto in modo cristallino nei giudizi positivi su di lei espressi già nella serata per l’Indipendence day all’ambasciata americana a Roma, il 30 giugno.
Questa costellazione, il percorso cioè di accreditamento di Meloni e invece quello del leader leghista che ancora pochi giorni fa invocava da Porta a porta la fine delle sanzioni alla Russia, finisce per rendere poco praticabile immaginare Salvini in un ruolo nel quale sia previsto un rapporto diretto con l’Unione, con le cancellerie, con la Nato. Lo stesso discorso della Farnesina vale quindi per la Difesa: un ministero prestigioso ma - anche volendo accantonare il toto-governo che vedrebbe in quella casella il ritorno di Ignazio La Russa - come si fa a metterci un uomo che viene da molti considerato tanto vicino a Vladimir Putin?
Ci sarebbe in teoria una terza possibilità. Anche qui, il precedente Di Maio aiuta: da capo del Movimento, nel 2018, fu messo a guidare sia Lavoro che Sviluppo economico. Ma ecco, qui torna la variante Viminale: così come, a differenza della tradizione e di quasi tutti i suoi predecessori (basti pensare a una figura come Giuseppe Pisanu), da ministro dell’Interno non si è murato vivo nei suoi uffici dalle otto di mattina fino a notte fonda, tanto meno Salvini sarebbe adesso il tipo capace di sgobbare da mane a sera su tavoli, trattative, proteste, relazioni, equilibri, compromessi, scocciature. Una attività la cui fatica si può sobbarcare un Giancarlo Giorgetti o, al limite, un Andrea Orlando - per quanto il grado di divertimento talvolta si sia letto in faccia persino a un imperturbabile come lui. Questione di attitudine, carattere, di preferenze: tutte cose che vedono Salvini assai distante dai ministeri di via Veneto. Allocarlo lì rasenterebbe la provocazione, per lui e per le controparti. Nemmeno si può immaginare per Salvini un vicepremierato senza deleghe, come fu sempre per Fini con Berlusconi: Giorgia Meloni non è il Cavaliere e, a tutto concedere, Salvini non è l’ex capo di An.
E così, esaurito il giro dei ruoli di maggior peso, il problema (enorme) resta sul tavolo come un macigno e Salvini resta sui temi che frequenta più volentieri. E così, nel derby sulla linea da tenere sugli sbarchi dei migranti che ha visto opporsi blocco navale (soluzione auspicata da lei) e decreti sicurezza (soluzione auspicata da lui) l’elemento più importante è nel fatto in sé: due dei tre leader del centrodestra hanno già aperto un dissidio, su un tema centrale come la sicurezza, a meno di un mese dal voto.
L’avevano già fatto tre settimane fa (il 6 agosto), stesso spartito, giusto semmai con toni meno aspri. Stavolta, vista la malaparata, Salvini e Meloni sono corsi ad abbracciarsi per finta, al Circolo del tennis di Messina, per far vedere che, assolutamente, non c’è nessuna lite (è durata qualche ora, il tempo necessario a Giulia Bongiorno, l’avvocata-senatrice che dà la linea alla Lega sulla Giustizia, per discostarsi da una buona metà delle posizioni espresse in materia da Carlo Nordio, in predicato per il ministero di via Arenula).
L'avevano già fatto un anno fa, il selfie abbracciato della pace, ai tempi della tragicomica corsa di Enrico Michetti verso il Campidoglio. In quel caso si trovavano a Spinaceto per la chiusura della campagna elettorale, era sempre la fine dell’estate, non erano d’accordo quasi su nulla, come oggi accade per immigrazione e giustizia. Ma gli equilibri erano assai diversi. Nei sondaggi il Pd era ancora il primo partito, Fratelli d’Italia e Lega erano al testa a testa, sostanzialmente alla pari sul 19/20 per cento ciascuno. E quando davanti a un murales scrostato della periferia romana Salvini aveva provato a prendere in braccio stile sposa Meloni, replicando il gesto che era stato di Guido Crosetto, pensava di fare il gentile con una che non si sarebbe mai risollevata dal disastro della corsa al comune di Roma, nelle quali Fdi si giocava molto. E invece, per meccanismi tuttora non spiegati, nonostante l’errore Michetti (che fu scelto dal partito di Meloni, e segnatamente da Francesco Lollobrigida via Paolo Trancassini), Fratelli d’Italia effettuò il sorpasso di lì a poco. Adesso, insomma, se fa un selfie con Salvini è lei che fa l’accondiscendente con lui. Forse la spinge la domanda alla quale tutt’ora non ha trovato una risposta: Matteo dove lo metto?