I 4 miliardi previsti serviranno solo a coprire le voragini generate negli anni precedenti. I sistemi regionali sono in sofferenza. Come risolvere il problema? La Lombardia punta sulla privatizzazione e il governatore Attilio Fontana fa di tutto per stoppare il referendum sulla salute pubblica

«Lavoro, redditi bassi, natalità, sanità», il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, lo ripete come un mantra. La cassa piange, non ci sono soldi per tener fede alle promesse – tipo flat tax, pensioni anticipate, eliminazione delle accise – e a stento si recupererà quella trentina di miliardi di euro per confermare il taglio al cuneo fiscale, l’assegno unico e l’indicizzazione delle pensioni. Quindi, soddisfatti «lavoro, redditi bassi e natalità», più il contributo alle pensioni, resta da capire cosa resti per la sanità. Fonti di palazzo dicono che qui saranno appostati 2 miliardi, da aggiungere ai 2,3 già preventivati per il 2024, così da portare il Fondo sanitario a quota 132,7 miliardi. Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, chiede uno sforzo in più, almeno per pagare i salari dei medici, ma la coperta dei conti pubblici è davvero troppo corta. Insomma, alla sanità andranno poco più di 4 miliardi, bruscolini se si considera che solo per stare al passo con l’inflazione ne servono 8,5 in più.

 

Nelle Regioni è iniziata la stagione dei bilanci preconsuntivi e stanno emergendo le voragini provocate dal sotto-finanziamento alla sanità. Meno 300 milioni in Emilia-Romagna, altrettanti in Veneto, 450 milioni in Piemonte e 200 milioni nel Lazio, per esempio. Sono buchi tecnici, ovvero disavanzi potenziali che, all’atto della chiusura dei bilanci, saranno colmati togliendo risorse ad altri settori, come la cultura, la formazione continua, la scuola, il lavoro e così via. La sanità assorbe circa l’80% dei bilanci regionali e i disavanzi che si creano sono un tema di cui in Conferenza Stato Regioni si discute da tre anni, cioè da quando il Covid ha fatto saltare la gestione ordinaria delle Regioni, in primis di quelle più virtuose. Al punto che nel 2021 i costi extra – ricoveri, assunzioni di personale, vaccini, tamponi – sostenuti dalle Regioni per l’emergenza equivalevano a 8,3 miliardi, di cui solo 4,45 rimborsati dallo Stato. A questi si sono aggiunti l’inflazione e i rincari energetici del 2022: ulteriori accolli per le Regioni per un totale di 1,4 miliardi. Gli ultimi dati pubblicati dalla Corte dei Conti dicono che nel 2022 l’Emilia-Romagna segna perdite di esercizio pari a 99 milioni, il Friuli Venezia Giulia segna meno 89,5 milioni, il Lazio evidenzia un rosso da 216,6 milioni, la Toscana registra un buco da 76 milioni e via dicendo. I preconsuntivi 2023 certificano due cose: che anche quest’anno le Regioni dovranno spostare del denaro destinato ad altro per pagare i medici e far fronte alla gestione ordinaria; e che sono totalmente saltate le prestazioni non essenziali, ovvero le Regioni hanno smesso di sostenere i costi di tutto ciò che non è livello essenziale di assistenza. Nonostante questo, il disavanzo è aumentato.

 

Il totale dell’ammanco negli ultimi quattro anni è esattamente di quattro miliardi: «Come sistema delle Regioni diciamo da diversi mesi che a livello nazionale mancano quattro miliardi per assicurare la copertura delle spese per i servizi sanitari regionali», dice Raffaele Donini, assessore alle Politiche della Salute dell’Emilia-Romagna. Guarda caso, la quota parte di quei quattro miliardi destinati all’Emilia-Romagna vale il 7,5 per cento, esattamente i 300 milioni di potenziale disavanzo indicati da Donini nel preconsuntivo 2023. Detto altrimenti, i quattro miliardi che saranno generosamente destinati dal governo alla sanità non serviranno a migliorare il Servizio sanitario nazionale, ma soltanto a consentire alle Regioni di gestire pienamente i livelli essenziali di assistenza e, parallelamente, a chiudere in pareggio, senza dover sacrificare altri servizi o essere commissariate.

 

Un discorso diverso vale per la Lombardia, dove nonostante gli extracosti Covid il bilancio chiude in pareggio, ma a fronte di un servizio pubblico che ha clamorosamente alzato bandiera bianca per lasciare spazio al privato. La banca dati delle amministrazioni pubbliche dice che nel 2022 la Lombardia ha destinato alla sanità pubblica 1.555 euro pro capite, mentre alla sanità privata, sommando agli stanziamenti pubblici i soldi che i cittadini spendono di tasca propria per curarsi (circa 900 euro a testa), vanno 1.494 euro. Siamo prossimi al sorpasso, implicitamente affermando che le cliniche private e il ricorso all’intramoenia possono gestire le liste d’attesa, gli interventi, le visite specialistiche meglio di quanto sappia fare l’Ssn. Proprio in Lombardia, lo scorso 27 giugno, oltre sessanta associazioni capitanate da Medicina Democratica, Cgil, Osservatorio Salute, Arci e Acli hanno presentato un referendum abrogativo per limitare i danni all’Ssn derivanti dall’introduzione della legge regionale 22/2021, cioè la riforma Moratti. Il primo quesito chiede di cancellare la parola «equivalenza» fra le strutture pubbliche e private. Il secondo tende a limitare gli accordi di accreditamento fra Asl e cliniche private alle sole funzioni non disponibili (o fortemente critiche) nel pubblico. Terzo punto: limitare l’esternalizzazione dei servizi offerti dalle Case di Comunità, costruite con fondi Pnrr, per evitare che queste ultime vengano privatizzate. Chissà se i lombardi, che pagano larga parte delle prestazioni di tasca loro, potranno mai esprimersi in tal senso, dal momento che prima il presidente della Regione, Attilio Fontana, poi l’Ufficio di Presidenza e infine il Consiglio regionale stanno giocando sulla non ammissibilità dei quesiti per far saltare il referendum. Al punto che «la vicenda sarà sottoposta al Tar», avverte Vittorio Agnoletto di Osservatorio Salute.

 

Più complesso, invece, invertire la rotta sull’intramoenia, una pratica diffusissima in Lombardia e non solo. Si tratta della possibilità per il cittadino di ottenere una visita specialistica da parte di un medico dell’Ssn, all’interno di un ospedale pubblico, ma pagando il cento per cento della prestazione: «Sono i call center a suggerire ai pazienti questa formula per aggirare le liste d’attesa fuori controllo», spiega Agnoletto che continua, «con tale regime guadagna il medico, guadagna tutto il personale (perché sono stati firmati contratti sindacali sulla redistribuzione degli incassi da intramoenia), guadagna l’azienda che trattiene il 40% della fattura pagata dal paziente per la visita. Chi ci perde è il cittadino, solo lui. Siccome i direttori generali sono nominati in base alla fedeltà politica e alle competenze di gestione del bilancio, è evidente che l’intramoenia diventa uno strumento fondamentale per assestare i conti e, paradossalmente, il direttore non ha alcun interesse ad abbattere le liste d’attesa, le quali, al contrario, sono la leva (sarebbe meglio dire la clava) per far lievitare il ricorso all’intramoenia». Ecco perché Regioni e Asl non forniscono dati rispetto alle liste d’attesa e fanno pochissimo per ridurle. Dunque, a conti fatti, anche con i quattro miliardi che, si spera, la Finanziaria offrirà alla sanità pubblica, il servizio nazionale continuerà a essere in sofferenza. Perché il finanziamento cresce solo sulla carta, dai 123,4 miliardi del 2021 ai 125,98 del 2022, fino ai 136 del 2023. Ma siccome il calcolo si fa sul Pil, siamo passati dal 6,4% del 2019 al 6,5% del 2023. Mentre, per arrivare a livelli paragonabili a Germania e Francia, servirebbero all’incirca 40 miliardi in più l’anno, 20 per raggiungere il Regno Unito.

 

Alternative? La privatizzazione sostanziale del Servizio sanitario nazionale, chiudendo un occhio sul massiccio ricorso all’intramoenia e chiudendo l’altro occhio sul sempre maggiore ricorso alle cliniche private da parte dei cittadini, così da alleggerire il ricorso alla sanità pubblica. Tutto questo a fronte di una forte contrazione dell’Ssn attraverso una politica di razionamento, coordinata dal ministero dell’Economia, per bloccare assunzioni, spese farmaceutiche e ogni singolo fattore produttivo. Proprio in questi giorni la Regione Emilia-Romagna ha lanciato un progetto di legge, sostenuto da oltre 400 sindaci, per impegnare le Camere a sostenere un’operazione contabile: ovvero fissare al 7,5% del Pil il finanziamento annuale del Servizio sanitario nazionale, abolire il tetto di spesa che è stato fissato nel 2006, trovare queste risorse combattendo tenacemente l’evasione e l’elusione fiscale. Chissà cosa risponderanno Parlamento e governo.