Mare nostrum

La guerra del pesce che si combatte intorno alle coste della Libia

di Marco Bova   3 novembre 2023

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Per mettere fine ai sequestri di pescherecci italiani è stato stipulato un accordo tra broker privati che fa felice il generale Haftar. Ma sull’intesa con Bengasi i servizi frenano e il governo Meloni pone il veto

Lo sguardo fiero e commosso. L’ingresso al porto di Bengasi, abbracciato ai compagni al comando del peschereccio mazarese Anna Madre, lo stesso con il quale, nel 2020, era finito sequestrato nella capitale della Cirenaica. Quest’anno Giacomo Giacalone, 35 anni, a Bengasi è tornato ma da pescatore libero. Ha potuto farlo in virtù di un accordo, privato, che prevede il pagamento di mille euro al giorno alle autorità del generale Khalifa Belqasim Haftar. Un’intesa osteggiata dalla nostra intelligence e sulla quale il governo di Giorgia Meloni frena.

 

Tre anni fa la storia di Giacomo, aveva fatto il giro del mondo. Era stato fermato a 40 miglia dalle coste libiche e bloccato a Bengasi per 108 giorni assieme ad altri 17 pescatori. Alla vigilia di Natale erano stati tutti liberati, dopo che il premier Giuseppe Conte e il capo della Farnesina, Luigi Di Maio, erano andati a stringere la mano ad Haftar. Era il riconoscimento internazionale che serviva al generale. Al rientro di Giacalone, la procura di Roma aprì un’indagine, individuando sui social molti dei sequestratori, finora mai reperiti. Sei mesi dopo, nel maggio 2021, fu la guardia costiera di Tripoli a mitragliare un altro peschereccio, l’Aliseo, ferendo il capitano Giuseppe Giacalone, padre di Giacomo. Uno dei militari a bordo della motovedetta libica – una di quelle consegnate dalla Marina italiana – era stato addestrato a Messina. All’arrivo al porto di Mazara del Vallo, il comandante con ancora addosso la maglia sporca di sangue, giurò: «Non andrò mai più in alto mare a pescare il gambero rosso». Così è stato. Il figlio, invece, quest’estate, è tornato per oltre un mese di pesca, a trenta miglia da Bengasi, affiancato da altri sette pescherecci mazaresi. E ha anche attraccato nel porto libico per rifornirsi di gasolio a prezzi stracciati: 0,30 centesimi al litro, a fronte degli 0,90 pagati in Italia. Era a pesca anche il 18 luglio. Mentre, a oltre novanta miglia da Misurata, i guardacoste di Tripoli mitragliavano il peschereccio Orizzonte della marineria di Siracusa, salvatosi grazie al pattugliatore Orione della Marina italiana, impegnato nell’operazione Vigilanza pesca. È ciò che accade nella guerra del pesce, complicata dal caos libico scatenatosi nel 2011, dopo l’eliminazione di Gheddafi.

 

Già dal 2005 la Libia rivendica una Zpp (Zona pesca protetta) fino a 74 miglia dalla costa. Un’area da sempre battuta dalla flotta di Mazara del Vallo per la pesca del gambero rosso, oro del Mediterraneo, quotato anche 500 euro a cassetta. Il prezzo da pagare è il rischio di essere mitragliati e sequestrati. L’alternativa è trovare un accordo. La Zpp libica non è mai stata riconosciuta dall’Onu, ma viene tollerata dalla Commissione europea. L’Italia, invece, ha aperto dei negoziati per «dare continuità alla partecipazione italiana allo sfruttamento delle risorse ittiche presenti nella Zpp». Il tema della pesca viaggia in parallelo con gli altri interessi in Libia: gas e petrolio (attività di Eni), e con la questione migranti. Con il governo di Tripoli, riconosciuto dalle Nazioni Unite, c’è una linea di credito basata su addestramento e motovedette donate dalla Marina nostrana, ma di pesca non se ne parla. A maggio scorso Giorgia Meloni ha incontrato a Roma il generale Haftar, alla ricerca di garanzie sul blocco delle partenze di migranti. Negli auspici della premier, il vertice doveva suggellare una «proficua collaborazione». Che però non sembra esserci, a giudicare dai naufragi. Un po’ come accade con il presidente tunisino Kais Saied.

 

Sul versante pesca, gli unici accordi sono iniziative private. Nel 2019 ci provò Federpesca (la Confindustria del mare), con un patto quinquennale con gli uomini di Haftar, regolato da una società di intermediazione maltese. Tripoli reagì con disappunto e l’Italia fece marcia indietro. Stavolta ci hanno riprovato due imprenditori mazaresi, senza coinvolgere le istituzioni. L’accordo si basa su un contratto tra due società (una di Mazara del Vallo e un’omologa di diritto libico), riconosciuto dalle autorità di Haftar. Il permesso libico, valido dieci anni, si estende dalla linea perpendicolare di Misurata fino al confine con l’Egitto, per un tratto di 750 chilometri. L’iniziativa è partita da un imprenditore ed ex politico mazarese, Vincenzo Asaro, 62 anni, oggi broker internazionale. L’origine dei rapporti con le autorità di Haftar risale alle relazioni del socio, Saverio Giarratano, per gli amici Renè, imprenditore edile, da anni trapiantato a Bologna. Nell’ottobre 2022 con Asaro costituisce la International Services, società di intermediazione, che a sua volta ha stipulato un accordo con una società libica, concessionaria del governo di Bengasi. Un’intesa bocciata, sin da subito dalle autorità italiane, per il rischio di «attribuire una legittimità di fatto ad autorità non riconosciute dal governo italiano».

 

Tuttavia, a inizio 2023, il peschereccio Sofocle è riuscito a concludere un ciclo di 21 giorni di pesca, senza alcun fastidio. Tra maggio e luglio l’accordo ha inglobato altri armatori tra cui l’Anna Madre di Giacomo Giacalone. Il pressing da Roma si è fatto intenso fino a una nota del ministero dell’Agricoltura, datata 2 agosto, in cui si intima ai capitani di allontanarsi dall’area. Un alt che di fatto blocca i pescherecci. «Se dobbiamo diventare un problema per la sicurezza nazionale, ci fermiamo – avverte Asaro – dicono di attendere gli accordi del governo, ma la pesca sta morendo e non possiamo neanche darci da fare per migliorare la nostra condizione». Lo stop soddisfa l’Aise che, seguendo il denaro pagato dagli armatori attraverso l’International Services, ha individuato la destinazione finale, ovvero la Libyan military investment and public works authority, la cassaforte di Haftar. Il generale, si sa, è prodigo di relazioni, a cominciare dalla Russia, a patto che siano proficue. Per lui.