L'inchiesta

Il governo Meloni prepara l'ottavo decreto armi per l'Ucraina: in tutto 1,8 miliardi di euro

di Carlo Tecce   18 dicembre 2023

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Domani viene presentato al Comitato per la sicurezza della Repubblica il dettaglio dell'ultima spedizione di materiale bellico per Kiev. Si parla di meno di sostegno, ma l'Italia è al fianco di Zelensky: un altro miliardo nel fondo europeo. E poi c'è il grande piano dell'acciaio a Piombino

«Come l’Italia si ritira dall’Ucraina». Questo articolo è partito col titolo. Accade spesso nel giornalismo anche se la nostra categoria è parecchio indulgente con sé stessa e omissiva con i suoi peccati. La premessa è che, purtroppo, questo è un titolo sbagliato. Il titolo giusto è: «Come l’Italia vuol far credere che si ritiri dall’Ucraina». Capite che in questo modo il titolo diventa più moscio, contorto, e che in questo modo si richieda un supplemento di attenzione e dunque una lettura si spera non troppo noiosa. Perciò un articolo. Al titolo penseremo poi.

 

Com’è noto l’Ucraina è scivolata in fondo a quel prontuario di verità, menzogne, iperboli e semplice propaganda che è l’agenda politica. Per vari motivi. Non soltanto per il conflitto fra Hamas e Israele e non soltanto, e però soprattutto, per gli impegni di primavera con il più grosso che assilla i partiti di maggioranza e di opposizione: le elezioni europee. Questa confusa agenda politica riesce a manipolare il dibattito mediatico, ma non riesce a far tacere le bocche di fuoco dei soldati russi, che sparano, occupano, ammazzano. Oggi come ieri. Forse più oggi di ieri. Quando da Washington si ode uno squillo di tromba su Kiev, però, qui in Italia ci si mette sull’attenti. Non per il riflesso pavloviano di seguire la rotta indicata dagli Stati Uniti, che peraltro è l’unica bussola di un governo che sta ancora interpretando le coordinate geopolitiche, ma perché nessuno può esimersi dai doveri che spettano in un gruppo unito da un’alleanza. Per intenderci: l’alleanza militare atlantica Nato. La differenza col passato è che un anno fa l’Ucraina era una bandiera sventolata da Giorgia Meloni per carezzare l’amministrazione americana e ridicolizzare le esitazioni dei partiti italiani, pure dei suoi compagni di maggioranza, adesso la bandiera è a mezz’asta, un po’ nascosta, fuori dalle inquadrature. Per comprensibile stanchezza di quella che viene definita l’opinione pubblica. Per mancanza di risorse pubbliche. Per ridotta convenienza esterna e interna. Kiev è un argomento logoro, ma sempre centrale. E l’Italia non fa mancare il suo contributo. Ecco. Adesso comincia l’articolo.

 

Nei prossimi giorni verrà illustrato al Comitato parlamentare per la Sicurezza della Repubblica, in maniera abbreviata Copasir, l’ottavo decreto interministeriale per l’ottava spedizione di materiale bellico al governo di Volodymyr Zelensky. Ancora munizioni per fronteggiare l’avanzata dei russi, ancora missili anticarro per non perdere posizioni dopo la fallimentare offensiva estiva. La cornice giuridica dei decreti interministeriali, che permette di aggirare i vincoli normativi sulle esportazioni militari e che copre ogni dettaglio col segreto di Stato, è quella attivata dal governo di Mario Draghi, rinnovata dal governo di Giorgia Meloni e in scadenza a fine mese (con calma le Camere saranno chiamate a prolungarla).

 

 

Secondo fonti referenziate consultate da L’Espresso, incluso quest’ultimo ottavo carico che raggiungerà il territorio ucraino attraverso la Polonia, in quasi due anni di guerra l’Italia ha ceduto armi per un valore stimabile in 1,8 miliardi di euro. Al computo vanno aggiunte le spese per il trasferimento, la cosiddetta logistica, che incide per un dieci per cento, ipotizziamo circa 180 milioni di euro. Il democratico Lorenzo Guerini, che era ministro della Difesa con Draghi (in questa legislatura è tornato proprio al Copasir), ha firmato cinque decreti. Il fondatore di Fratelli d’Italia Guido Crosetto, che è ministro della Difesa con Meloni, sta per firmare il terzo decreto. Guerini ha firmato cinque spedizioni per oltre un miliardo di euro. Crosetto quel che resta per arrivare a 1,8 miliardi. Cambia il numero dei decreti interministeriali e probabilmente l’enfasi che li avvolge, e nient’altro. Quella era l’Italia membro Nato. Questa è l’Italia membro Nato. L’anno che verrà non prevede smentite di linea, semmai di metodo.

 

Anziché girare agli ucraini quello che avanza o è in disuso – ormai poco! – alle forze armate italiane, il governo potrebbe aumentare la sua partecipazione ai programmi internazionali di acquisto e di fabbricazione di armi che poi sono riversate a Kiev. C’è già una soluzione, è lo Strumento europeo per la Pace, in sigla Efp, creato tre anni fa per «prevenire i conflitti» e utilizzato dal 28 febbraio 2022 per sostenere la resistenza di Kiev, un protagonista del conflitto, non per sua volontà, ma comunque in conflitto. Il fondo Efp è il serbatoio codificato dall’Unione europea per armare Kiev e viene sfruttato per rimborsare con quote dal 40 al 60 per cento i 27 Paesi che forniscono materiale bellico.

 

Per i maliziosi gli eserciti più piccini si sono rifatti l’argenteria: rinunciano a pezzi scadenti e si prendono capitali per nuovi acquisti. Alla vigilia dell’invasione ordinata da Vladimir Putin, l’Efp era un fondo dormiente, una voce di bilancio comune aperta e abbastanza smunta. C’era un mezzo miliardo di euro in gran parte collocato su progetti per l’Africa con un gruzzoletto, insignificante, puntato su Georgia, Moldavia, Ucraina, una trentina di milioni. I capi di governo in Consiglio europeo più volte hanno deciso di ampliare la capienza per lo Strumento europeo per la Pace e oggi siamo a 12 miliardi di euro (in teoria l’Italia deve finanziare il 12,8 per cento). I bonifici italiani verso il fondo Efp erano più lenti durante il governo Draghi per l’ostruzionismo dei Cinque Stelle, invece il governo Meloni ha pagato e paga a cadenza regolare e ha aumentato gli stanziamenti. Entro gennaio l’Italia avrà corrisposto 183,5 milioni di euro al fondo Efp. Come previsto, per non dirazzare rispetto a Bruxelles, la legge di Bilancio – articolo 69 – ha ritoccato le «allocazioni»: 203 milioni per il ’24; 259 milioni per il ’25; 265 milioni per il ’26; 274 milioni per il ’27. Per lo Strumento europeo per la Pace, si tratta di supporto militare e umanitario a Kiev, come dicono i bravi, a «consuntivo» in quasi sei anni l’Italia avrà inoltrato decine di bonifici per un totale di 1,18 miliardi di euro.

 

Per blandire i più riottosi s’è sempre spiegato, col dovuto cinismo, che le guerre rilasciano un dividendo. La ricostruzione. Nel frattempo, a guerra calda, ci sono altre forme di dividendo. Il governo Meloni apprezza parecchio il piano di Metinvest (gigante siderurgico ucraino) e di Danieli (azienda meccanica friulana) che vogliono allestire un forno elettrico per la produzione di nastri di acciaio in un’area di Piombino non più attiva mentre, in un sito vicino, il gruppo indiano Jsw continua a soddisfare le sue commesse (molte italiane con la società della rete ferroviaria Rfi) sfornando rotaie. Metinvest-Danieli potrebbe sopperire a questo tipo di tagli di acciaio che l’Italia deve importare, assorbire la metà dei 1.350 dipendenti di Jsw in cassa integrazione, generare lavoro per l’indotto con ulteriori 700 posti. Metinvest offre il suo patrimonio minerario in Ucraina e gli investimenti necessari – è coinvolto anche lo Stato italiano – per tirar su l’impianto con le tecnologie e le macchine Danieli.

 

Per Metinvest è l’occasione perfetta per sopperire alla chiusura del sito di Azovstal, teatro di battaglie terrificanti. L’impianto di Piombino ha bisogno di 2 miliardi di euro e almeno 700/800 milioni li porta Metinvest per il tramite del governo di Kiev. Avvio della fabbrica fissato nel ’27 con un certo ottimismo. Stupendo. Quali sono le controindicazioni? Metinvest è dell’oligarca Rinat Akhmetov, l’uomo più ricco dell’Ucraina. Due anni fa il presidente Zelensky accusò Akhmetov di essere coinvolto in un colpo di Stato ai suoi danni ordito dalla Russia. La smentita fu netta. La riconciliazione fra Zelensky e Akhmetov è stata favorita (obbligata) dalla guerra e di conseguenza dal febbraio ’22 l’oligarca ha aiutato la resistenza di Kiev con decine di milioni di euro. A questi fragili equilibri ucraini, ci si domanda, cosa succederà nel giorno della pace? Dopo russi, algerini, indiani, per l’ex polo siderurgico Lucchini è il momento di legarsi a Metinvest perché non ci sono alternative. Allora il titolo «Come l’Italia si ritira dall’Ucraina» oppure «Come l’Italia vuol far credere che si ritiri dall’Ucraina» può abbinarsi al titolo «Come l’Ucraina entra in Italia».