Energia
Il flop dell’authority dell’energia: dovrebbe difenderci dal caro bollette, serve solo per spartirsi poltrone
Arera dovrebbe tutelare i consumatori nel settore dell’energia. Specie dopo gli ultimi rincari. Ma sembra molto più sensibile agli interessi delle imprese. Ed è lottizzata dai partiti
Quando arriva la bolletta della luce o del gas le prime maledizioni sono per chi l’ha mandata. Ovvio. A uno sguardo più approfondito, però, i destinatari dei cattivi pensieri si moltiplicano. Scopriamo, per esempio, che paghiamo l’Iva sulle accise, cioè una tassa sulla tassa. Che un bel po’ di soldi se ne vanno ancora per il problema mai risolto delle scorie nucleari. Che paghiamo la corrente per fa marciare i treni. E molto, ma molto di più, per le energie rinnovabili che in teoria non dovrebbero costare nulla.
Scopriamo pure che gli investimenti delle compagnie elettriche e del gas sono remunerati con tassi d’interesse di circa il 6 per cento netto: rendita finanziaria pura e assurda che ha il solo scopo di gonfiare gli utili delle aziende.
Molte colpe, tipo la follia della tassa sulla tassa, sono statali. Ma il dettaglio di quel 6 per cento netto apre uno scenario sconosciuto alla stragrande maggioranza degli utenti, tirando in ballo altre grosse responsabilità. Quanti sanno che la bolletta, compresa quell’insensata rendita a solo vantaggio delle imprese, è frutto delle decisioni di un’autorità indipendente finanziata dalle stesse imprese?
Si chiama Arera e ha competenze sull’energia, ma anche sull’acqua e i rifiuti. Ha 246 dipendenti e secondo le previsioni 2023 spende per il personale 53,8 milioni, che fa 219 mila euro a cranio. Un botto. Occupa una sede a Milano dove pagano un affitto di 2,1 milioni l’anno pur avendo la proprietà di uno stabile comprato nel 2015 per la bellezza di 42 milioni. Da allora sono riusciti a sistemarne solo un piano. In otto anni. La legge gli assegna in teoria poteri enormi di «regolazione» di questi settori.
Tradotto, è lo sceriffo che deve difendere gli utenti dai possibili soprusi delle aziende e degli operatori. Ma questo sceriffo spara soltanto a salve.
Nella scorsa primavera il profumo della speculazione è già intenso. Così intenso da indurre il governo Draghi a tassare gli extraprofitti. Investita del problema, dopo 30 pagine di dissertazioni tecniche fumose e incomprensibili per i non addetti ai lavori, l’Arera sforna una risposta disarmante. «Il tema va affrontato con un approccio più ampio, considerando anche tutti i costi e i margini che si generano lungo la filiera e che ricadono, in ultima analisi, sui consumatori finali». Amen.
L’episodio dice tutto. Fra i poteri dell’Arera c’è anche quello di segnalare al governo e al parlamento le cose che non vanno. Per farle cambiare. E di faccende da chiarire ce ne sarebbero eccome. Perché nel momento delicatissimo del passaggio della stragrande maggioranza delle utenze al libero mercato, i prezzi dell’energia offerti dai vari operatori salgono mentre i costi delle materie prima finalmente scendono, e questo nonostante ci siano centinaia di offerte? Perché i distributori di luce e gas continuano ad avere margini operativi lordi stratosferici prossimi al 70 per cento? Come mai non si interviene sulle rendite finanziarie delle imprese? Perché non si mette ordine negli oneri di sistema che fanno salire in modo ingiustificato le tariffe? Domande, queste come altre, che restano senza risposta. Senza dire degli altri settori, l’acqua e i rifiuti. Dove il silenzio è d’oro.
Ma non era questo l’obiettivo della legge che nel 1995 ha istituito l’autorità. Il fatto è che da un decennio questa authority ha subito la stessa sorte degli altri organismi indipendenti nati a partire dagli anni Novanta. Enti creati per tutelare i consumatori dai rischi delle liberalizzazioni, trasformati in terreno di spartizione dei partiti. In barba pure al rispetto delle regole. Basta dire che ben tre dei cinque commissari collocati al vertice dell’Arera dal governo grillo-leghista nell’agosto 2018 sono ai limiti dell’incompatibilità. In base al decreto legislativo 39 del 2013 chi assume incarichi in un’authority non dovrebbe aver svolto nei due anni precedenti attività in campi regolati dalla medesima autorità. Invece, al momento della nomina, il presidente Stefano Besseghini voluto alla Lega salviniana era presidente della Ala srl, società di smaltimento rifiuti di alcuni comuni lombardi. Andrea Guerrini, voluto dai grillini, presidente dell’Azienda dei servizi ambientali di Livorno. L’ex deputato di An ed ex sottosegretario del governo Berlusconi, Stefano Saglia, addirittura consigliere di Terna. Mentre solo i restanti due componenti risultavano in regola con la normativa. Gianni Castelli (in passato segretario politico della Lega a Milano) ha lasciato nel 2008 il consiglio dell’Agam Monza. E Clara Poletti (indicata dal Pd) non ha mai avuto incarichi in aziende sottoposte alla regolazione dell’Arera.
La vigilanza sulle incompatibilità spetta all’Anticorruzione. Ma tant’è. Adesso anche l’Anac è spartita e nessuno a queste sciocchezze fa più caso. La politica ormai è padrona incontrastata anche delle authority. E poco importa se qualcuno lì dentro storce il naso perché Besseghini assume come consigliera personale l’ex assessora Pdl di San Donato Milanese Ilaria Amè, ora di fede leghista. Per poi nominarla vicedirettore alle relazioni esterne: in una direzione di dieci persone che ha un direttore, due vicedirettori, due funzionari, quattro impiegati. E una segretaria.