Pedaggi e profitti alle stelle, manutenzioni e investimenti al palo. Controlli inesistenti. Un cantiere ogni diciotto chilometri, noi in coda e i 23 concessionari a lucrare su una rete logora. Come dimostra la lunga era Benetton

Non c’è verso di placarlo. Quando Flavio Briatore capita in coda sulla famigerata A10 che attraversa la Liguria, si scatena sui social. Diretto a Montecarlo il giorno di Pasqua, nel groviglio dei cantieri ha consegnato le proprie rimostranze a Instagram: «Quest’estate che cosa succederà? Per andare a Genova sarà tutto bloccato. Nessuno dice niente, paghiamo il biglietto e siamo tutti contenti».

 

L’ingorgo lo perseguita. Una volta, era il 2014, doveva presentarsi a un processo, a Genova. Ma i giudici furono costretti a rinviare l’udienza perché lui e il suo avvocato erano rimasti bloccati sull’autostrada. Ovvio che sia ancora imbestialito procedendo a passo di lumaca sull’autostrada gestita fino al 2022 dal gruppo della famiglia Benetton, proprietaria dei bolidi guidati da Michael Schumacher con cui proprio Briatore vinceva i mondiali di Formula uno.

 

Sul fatto che nessuno dica niente, tuttavia, non ha proprio ragione. La società Autostrade per l’Italia deve fronteggiare almeno un paio di class action di automobilisti infuriati. Una di queste avviata da Ferruccio Sansa, il capogruppo dell’opposizione alla Regione Liguria, che il tribunale di Roma ha però spedito al mittente con una motivazione paradossale. Cioè che i disagi sulla A10 risalgono a un’epoca precedente all’introduzione della legge sulla class action. Approvata dal Parlamento, per inciso, il 24 dicembre 2007. Quindici anni e venti giorni fa.

 

Motivazione certo paradossale, ma freddamente ancorata alla cruda realtà. Fra incidenti e cantieri infiniti, piuttosto che un’autostrada la A10 può essere definita un girone dantesco. Da decenni. Il 2 gennaio 2001 un commercialista di Torino, tal Andrea Gino, diretto a Ventimiglia, fece causa alle Autostrade dopo aver passato dieci ore in fila. La coda era lunga quasi 100 chilometri.

 

Da allora sono passati 13 governi e un numero imprecisato di ministri e manager; nel frattempo il potere di vigilanza sulle autostrade è passato dall’Anas al ministero delle Infrastrutture ed è stata creata anche una specifica autorità per i trasporti. E la A10 è sempre lo stesso girone dantesco delle code infinite.

 

Ma dire che tutto è rimasto come prima sarebbe decisamente sbagliato. Perché alle 11,36 antimeridiane del 14 agosto 2018 tutto è invece cambiato. La tragedia del crollo del viadotto Morandi ha fatto scoppiare un bubbone di cui ciò che succede su quella maledetta autostrada è appena la manifestazione più evidente. La verità è che il sistema autostradale italiano è ormai prossimo al collasso. Una rete realizzata per oltre metà prima del 1970, quando la mobilità, e soprattutto il trasporto merci, era un’altra cosa, non regge più.

 

Da tempo si sa. Lo sanno bene i concessionari, il cui principale interesse è sempre stato però quello di riscuotere i pedaggi limitando al massimo gli investimenti. Lo dicono chiaramente i numeri messi in fila dall’autorità dei trasporti. Nel periodo compreso fra il 2009 e il 2018, l’anno del crollo del viadotto Morandi, le 23 società concessionarie che gestiscono i 6.020 chilometri di autostrade e trafori a pagamento hanno aumentato gli utili da 986 a 1.214 milioni. In un decennio i profitti netti cumulati hanno superato 11,6 miliardi. E questo grazie a una crescita media degli incassi da pedaggi da 4 miliardi 754 milioni a 6 miliardi 78 milioni. In compenso, la spesa per le manutenzioni ordinarie è rimasta identica, da 720 a 727 milioni fra il 2009 e il 2018. Invece quella per gli investimenti è diminuita da 1.805 a 989 milioni.

Mentre nei dieci anni precedenti al disastro genovese l’incasso dei pedaggi lievitava in termini reali (ossia tenendo conto anche dell’inflazione) del 15,2 per cento e i profitti dei concessionari salivano del 12 per cento, con un ebitda (l’indicatore della redditività aziendale) sempre superiore al 30 per cento, la spesa per le manutenzioni calava del 9,1 per cento e quella per gli investimenti crollava addirittura del 45,6 per cento.

 

Ma come stavano le cose l’hanno sempre saputo anche al ministero i burocrati che avrebbero dovuto controllare. L’indicatore di qualità dei servizi autostradali calcolato sui parametri fondamentali, come lo stato della pavimentazione e la sicurezza, era lì sotto i loro occhi. Non potevano quindi non scorgere il degrado progressivo, con quel valore sceso in modo preoccupante da 75,6 a 70,4 (del 6,9 per cento) fra il 2010 e il 2018. E questo, incredibilmente, non impediva che il primo gennaio di ogni anno i concessionari venissero beneficiati con nuovi aumenti delle tariffe.

 

Per non parlare dei politici. Anche loro sapevano, ma non hanno mai voluto mettere fine all’andazzo. Troppo influente la lobby dei concessionari associati nell’Aiscat, presieduta oggi dal numero uno dell’Autobrennero Diego Cattoni. Ma l’accondiscendenza di certa politica e degli apparati burocratici non si spiega in altro modo se non con l’esistenza di qualche sconosciuto tornaconto. Poi è successo quello che non doveva succedere e il velo è cominciato a cadere. Poco per volta, però.

 

Il contesto normativo, difficile crederlo, era ancora in buona parte quello del 1967, tre anni dopo il completamento dell’Autostrada del sole. La verifica delle gallerie, per esempio, era esclusivamente demandata alla buona volontà. E quando hanno cominciato a farlo, dopo la tragedia di Genova, si è scoperto che il 40 per cento dei tunnel autostradali non è impermeabilizzato. Con il rischio che ne consegue. Anche se per averne materiale contezza c’è voluto il crollo nel dicembre 2019 di un pezzo della volta della galleria Bertè sulla A26. Due tonnellate di detriti cadute mentre auto e camion transitavano, per fortuna senza provocare danni.

 

L’indagine successiva ha fatto emergere che i tre quarti delle gallerie in Liguria erano fuori norma. Semplicemente sconcertante ciò che salta fuori il 13 febbraio 2023 al processo sul crollo del ponte Morandi. Il maresciallo della Finanza Stefano Figini racconta che i controlli dei 285 tunnel del nodo autostradale ligure hanno rivelato 6.613 difetti in 191 gallerie così gravi che in base alle norme avrebbero dovuto determinarne la chiusura. Poi viene proiettato in aula un video che illustra in che modo i tecnici incaricati dalla concessionaria di fare i controlli li svolgevano: passando nel tunnel Bertè in auto a tavoletta, e cantando a squarciagola. Quale canzone? “Non sono una signora” di Loredana Bertè.

 

La rete autostradale italiana è la più vecchia d’Europa. Abbiamo già detto che oltre metà risale a un’epoca precedente al 1970. Il 56 per cento della rete ha almeno mezzo secolo. E l’85 per cento oltre 40 anni. Per di più, circa un terzo, 2.000 chilometri, è costituita da viadotti e gallerie. Il 14 per cento dell’intero tracciato corre su ponti, contro una media europea del 2,6 per cento. Sui 400 chilometri gestiti nella sola Liguria da Autostrade per l’Italia insistono 800 fra tunnel e viadotti. Uno ogni 500 metri. Nel territorio più franoso d’Europa.

 

Già l’età sarebbe un bel problema. Se però ci mettiamo sopra anche il traffico, la faccenda diventa ancora più seria. Perché ogni chilometro in Italia è percorso da 40 mila veicoli al giorno, contro 30 mila in Francia e 20 mila in Spagna. Di questi 40 mila, per giunta, un quarto è rappresentato da Tir. In Francia sono un terzo, in Germania un decimo.

 

Eppure gli investimenti per l’ammodernamento negli ultimi 25 anni sono stati in Italia metà che in Germania e Francia. Ma ora è troppo tardi per recuperare. Il fatto è che se gli ammodernamenti sono comunque necessari anche e soprattutto per motivi di sicurezza, per come si sono messe le cose potrebbero addirittura rivelarsi controproducenti. Sembra assurdo, ma è così. Di questo sono convinti gli esperti di Autostrade per l’Italia, gruppo rientrato ora nell’orbita pubblica attraverso la Cassa depositi e prestiti che ne controlla di fatto la maggioranza del capitale.

 

Il 60 per cento delle tratte gestite da Aspi sono considerate oggi «ai limiti della propria capacità di trasporto», al punto che le manutenzioni senza interventi di potenziamento potrebbero inasprire in modo insopportabile le difficoltà per gli utenti. I livelli di congestione, fanno capire senza mezzi termini, potrebbero risultare «non sostenibili» per i territori attraversati, per l’economia, per il commercio, per il turismo.

Una situazione che già ora, in molti casi, chiunque può sperimentare direttamente. L’associazione Altroconsumo, che ha promosso a sua volta una class action dichiarando l’adesione di 100 mila automobilisti, sostiene di aver verificato l’esistenza di un cantiere in media ogni 18 chilometri. Senza contare la faccenda non trascurabile della sicurezza. I dati della Polizia stradale dicono che nel 2022 gli incidenti sulla rete autostradale italiana sono aumentati dell’8 per cento. Con 254 morti: 43 in più rispetto al 2021.

 

Ma si fa presto a dire «potenziamento». Bisognerebbe costruire nuove corsie, e soprattutto nuove autostrade. Il problema però non sono soltanto i costi e le normative, ma i tempi. E qui, come sempre, non ci siamo. Autostrade fa sapere di avere pronti per essere cantierati progetti per 13 miliardi. L’inferno della Liguria, non è un mistero, avrebbe un bisogno disperato della Gronda. Opera autorizzata nel 2018, quasi 5 anni fa, che è ancora un fantasma.

 

Ai Benetton, da questa prospettiva, non è andata poi così male. Le rogne adesso sono tutte di nuovo dello Stato, che ha ricomprato a caro prezzo Autostrade per l’Italia dalla famiglia veneta dopo 23 anni durante i quali il venditore ha accumulato una montagna di profitti. Per uscire poi da una privatizzazione che non si sarebbe mai dovuta fare nel modo in cui è stata fatta, con un incasso paragonabile alla stessa somma spesa nel 1999 per comprare la concessionaria pubblica. Conservando ancora un posticino di prima fila nel business autostradale: la Brescia-Padova è gestita dalla spagnola Abertis, che la holding dei Benetton Atlantia ha acquistato nel 2016. Ultima amara considerazione, dei responsabili politici di uno fra i più grandi scempi di risorse pubbliche del dopoguerra nessuno ha pagato.