Inchiesta

Quanto ci costa la Rai. E dove finisce il canone

di Sergio Rizzo   14 luglio 2023

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La tv di Stato stipendia 12.700 dipendenti. Ha 300 dirigenti e 2.058 giornalisti e non arriva a 2,7 miliardi di incassi. Più o meno quanto Mediaset dove però il costo del lavoro è la metà e i bilanci in utile

La Rai è come la scuola. Chiude a giugno e riapre a settembre, dopo tre mesi di vacanza. Da sempre. Indignato dalla slavina di repliche, Vittorio Feltri ha twittato l’11 giugno: «…Il canone bisogna pagarlo anche d’estate. Perché?».

Fioccano i cuoricini. Ma sapeva il direttore editoriale di Libero, eletto con Fratelli d’Italia nel consiglio regionale della Lombardia, che il canone della Rai finanzia, e generosamente, anche il suo giornale?

L’idea è del tempo di Matteo Renzi, che dopo aver messo il canone nella bolletta della luce dà il via libera a un “Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione”. Che è solo un modo più elegante per chiamare i contributi pubblici a certa editoria.

Ricordate il finanziamento alla stampa politica in auge alla fine del Novecento? Quello è finito, ma i sussidi sono sopravvissuti per alcuni. Per esempio i giornali editi da cooperative o controllati da fondazioni senza scopo di lucro. Sono 118 e lo Stato gli dà 93 milioni l’anno (2022). Nella lista, oltre ai giornali cattolici L’Avvenire e Famiglia cristiana, troviamo anche i resti di quel giurassico. C’è il Manifesto, «quotidiano comunista». C’è la Discussione, già periodico della Dc. C’è l’Opinione delle Libertà, ex giornale del Partito Liberale. Ma un milioncino si becca anche il Secolo d’Italia, quotidiano ex missino organo della fondazione An che custodisce le radici, anche patrimoniali, di Fratelli d’Italia della presidente del consiglio Giorgia Meloni. Ci sono poi il Dubbio, il Foglio, Italia oggi, la Gazzetta del Sud… Dulcis in fundo, c’è anche Libero, il quotidiano di Feltri, che il deputato di Forza Italia Antonio Angelucci e la sua famiglia di imprenditori sanitari in convenzione controllano con la Fondazione San Raffaele. Incassa 4 milioni l’anno dallo Stato. Ma sarebbe meglio dire: dai cittadini che pagano il canone Rai. Perché i soldi del “Fondo per il pluralismo dell’informazione” vengono proprio da lì: 110 milioni l’anno, dice una legge del governo bis di Giuseppe Conte.

Meccanismo davvero curioso. Ai cittadini viene imposto di pagare il canone con la bolletta della luce. Però con la stessa bolletta finanziano pure i giornali politici, a loro insaputa. Ma non c’è da stupirsi. Anche la Rai è proprietà dei partiti. Il canone si paga perché dovrebbe offrire un servizio pubblico. Che in realtà non esiste, se non in misura marginale. Da alcuni decenni la Rai è una compagnia televisiva commerciale in concorrenza con i privati, ma con la caratteristica di essere controllata dal potere politico in carica con un contentino per l’opposizione. Il tutto a spese dei contribuenti. Spese astronomiche. Al punto che quei 110 milioni le farebbero assai comodo.

Dal 2001 al 2021 il gruppo Rai ha cumulato perdite per 520 milioni. Il buco ventennale di bilancio della sola azienda radiotelevisiva, però, è ancora più grosso: 691 milioni e mezzo. L’affanno economico è perenne. A far tornare i conti non basta il canone, fra 1,7 e 1,8 miliardi l’anno; non basta la pubblicità, 590 milioni nel 2021; non bastano neppure i regalini dei governi di turno, come gli 80 milioni della finanziaria gialloverde, concessi «per l’adempimento degli obblighi del contratto di servizio…» (ma il canone che ci sta a fare?). La Rai brucia una quantità immane di risorse a servizio più della politica e del suo impressionante indotto, nonché della concorrenza commerciale con il privato, che del pubblico. I suoi amministratori hanno avuto il coraggio di scrivere nell’ultimo bilancio che i conti aziendali fra il 2005 e il 2020 «evidenziano per le attività di servizio pubblico una carenza di finanziamento» da parte dello Stato di qualcosa come 2,5 miliardi. Un’altra valanga di denaro che avremmo dovuto gettare nella fornace della lottizzazione.

Il gruppo Rai stipendia 12.700 dipendenti. Ha 300 dirigenti e 2.058 giornalisti. Fra canone, pubblicità e altre entrate non si arriva a 2,7 miliardi di incassi. Un miliardo evapora per pagare il personale, in media più di 80 mila euro procapite. Ma soprattutto un altro miliardo se ne va per i servizi e gli appalti esterni. È una somma mostruosa, che alimenta un circuito economico enorme. La stessa Rai stima un «impatto occupazionale» di 26.094 persone. Più del doppio delle risorse interne. Tanto da rendere legittima una domanda: a che cosa servono tutti quei dipendenti?

Non c’è azienda privata che nelle stesse condizioni potrebbe sostenere un peso simile. C’è chi riterrebbe improprio il paragone con Mediaset, perché è una compagnia televisiva commerciale pura. Il confronto però dice qualcosa. Il gruppo fondato da Silvio Berlusconi ha tre reti televisive in chiaro e una serie di canali digitali. A differenza della Rai non ha la radio, ma in compenso una struttura televisiva in Spagna di dimensioni paragonabili. In tutto ha 4.900 dipendenti. E un fatturato intorno ai 2,6 miliardi di euro, pressoché identico a quello della Rai. Però il costo del lavoro è la metà e i bilanci sono stati sempre in utile.

Il confronto ha senso anche perché da più di 30 anni la Rai insegue il concorrente privato, posseduto dal leader di un partito capace nel passaggio dal secondo al terzo millennio di condizionare la vita politica del Paese.

Ancor prima di scendere in campo, il futuro presidente del Consiglio più longevo dell’età repubblicana già manovrava la leva televisiva. Nel 1990 Milano Finanza rivelò che era il maggiore finanziatore privato dei partiti. Trasmetteva gratis spot elettorali sulle reti Fininvest a tutto spiano: nel 1988 regalò in questo modo 3 miliardi di lire al Psi del suo amico Bettino Craxi e un miliardo e mezzo alla Democrazia cristiana. Senza trascurare neppure Rifondazione comunista.

Le basi per la scalata politica c’erano tutte, mentre la tivù di Stato si faceva trascinare in una corsa con le reti di Berlusconi sul loro terreno, finendo per essere attratta nell’orbita del Cavaliere premier. Una competizione assurda e perdente, in termini economici. Anche perché la Rai ha mantenuto i difetti di sempre. Partita dall’informazione, la lottizzazione ha finito per penetrare anche nel sistema degli appalti per la produzione dei programmi, sempre più affidata all’esterno. Una dipendenza che a lungo andare ha generato effetti surreali. Un caso? Su Raiplay, la piattaforma dove si dovrebbe trovare tutto ciò che va in onda, non sono disponibili gli episodi del Commissario Montalbano, la fiction record di audience nella storia della Rai. Questione di diritti, evidentemente: ma una follia, trattandosi del programma più visto della Rai. Peraltro la dipendenza, in un apparato lottizzato e finanziato con i soldi di nessuno, cioè dei contribuenti, non ha nemmeno determinato una ovvia dieta dimagrante interna con riduzione dei costi.

La via d’uscita dal carrozzone poteva essere la separazione del servizio pubblico dalle reti commerciali, come in Francia. O semplicemente la privatizzazione. Che sulla carta sarebbe stata anche decisa, anche se nessuno lo ricorda. La legge Gasparri del 2004 contiene un articolo, ispirato dall’allora direttore generale della Rai Flavio Cattaneo, che imponeva il collocamento in Borsa dell’azienda entro quattro mesi. Mettere sul mercato anche una quota di minoranza avrebbe di sicuro allentato la morsa della politica. Ma il governo Berlusconi allora in carica si guardò bene dall’applicare una propria legge. E la governance della Rai è sempre rimasta nelle mani dei partiti.

Nel 2015 la morsa della politica è stata ancora rafforzata. La maggioranza del cda è nominata dal Parlamento e due componenti, fra cui il presidente, spettano al governo. La maggioranza ha sempre in mano l’azienda. E in un Paese di anziani, dove ancora in 23 milioni stanno attaccati al piccolo schermo, non è poco. Questo spiega perché quando cambia il potere in Italia alla Rai non cambiano soltanto i direttori dei tg ma anche i conduttori dell’intrattenimento. E arriva sempre un capo azienda scelto da chi è al potere. Ora è il turno di Roberto Sergio, dirigente Rai democristiano, per inciso animatore trent’anni fa di un centro culturale romano che volle premiare il poeta Licio Gelli. Ecco perché la vera domanda, estate o inverno che sia, dovrebbe essere: «Se questo è il servizio pubblico, perché mai dovremmo pagare il canone?»