Inchiesta
L’esercito dei lavoratori poveri, sfruttati per stipendi da fame: «Vivere così è impossibile»
Sono 3 milioni in Italia, tra i Paesi in Europa che ne ha di più. Hanno età diverse e forme contrattuali tra le più varie. Chi prova a protestare viene licenziato e descritto come viziato nel dibattito pubblico. Ecco le loro storie
Valeria, diciassette anni, studentessa brillante del liceo ci porta dentro la sua estate che racconta di un Paese che non dà un posto nel mondo del lavoro perché quel posto non c’è. O, se c’è, è mal pagato. «Lavoro in uno stabilimento balneare: 30 euro per 4 ore al giorno, senza day off, da giugno a settembre». Sono 7,5 euro l’ora, in nero, anche se tutti i documenti per l’assunzione sarebbero pronti e la visita medica già fatta. «Il proprietario aspetta che arrivino i controlli per regolarizzarci. Finché nessuno lo scopre si va avanti così». Assieme a lei, altre due amiche servono colazioni e gelati alle stesse condizioni. Pochi metri più avanti, sempre lungo la Riviera che costeggia il Monte Conero, nelle Marche, Luca lavora come bagnino “di terra”: «Se faccio i conti viene fuori che guadagno meno di tre euro l’ora: arrivo alle 7.30 stacco verso le 20. Per mille euro al mese monitoro la sicurezza dell’area e dei bagnanti, accompagno i turisti agli ombrelloni che ogni mattina apro e la sera chiudo. Ho un contratto regolare ma le ore lavorate sono molte di più rispetto a quelle previste».
Non è il solo. Francesco, Marco, Andrea hanno appena iniziato a lavorare come camerieri in un ristorante sulla spiaggia lungo la costa tra Lazio e Campania. «Per giugno e settembre abbiamo un contratto a chiamata, per luglio e agosto quello a termine, la paga oraria è di 6 euro l’ora per 4 ore al giorno. Quelle in più ci vengono pagate fuori busta», racconta Andrea che ha appena compiuto vent’anni. Studia all’università, abita con i genitori, vuole approfittare di parte delle vacanze per mettere qualche soldo in tasca e magari per pagarsi lo svago nelle settimane che restano, per questo non denuncia. A differenza di Sara, trentenne a cui è stato proposto di lavorare come cameriera in una pasticceria di Cerenova, sul litorale romano, per circa 200 ore al mese con uno stipendio di mille euro. «Questo è sfruttamento: quasi 5 euro l’ora. Senza alcun genere di pausa. Anche andare al bagno è un lusso e naturalmente non ti passano nulla da mangiare, nonostante gli orari lo prevedano», è lo sfogo sui social riportato da Today.it. «Il contratto l’ho rifiutato anche se ho bisogno di lavorare. Ma alla soglia dei 30 anni sono stufa di fare la serva».
I lavoratori poveri, quelli che pur avendo un’occupazione non riescono a guadagnare il necessario per arrivare alla fine del mese, sono almeno 3 milioni in Italia, secondo Eurostat, anche se è difficile avere un dato preciso perché dipende dai criteri utilizzati per definirli. La realtà, ben al di sotto della soglia di salario minimo a 9 euro, su cui la politica si è presa altro tempo, racconta che al di là delle statistiche il variegato mondo del lavoro è fatto di giovani che in nome di un introito estivo sono disposti ad accettare paghe da fame, quaranta-cinquantenni che non hanno altra scelta e accettano ogni tipo di contratto, anche quelli pirata, partite Iva obbligate a lavorare come dipendenti se vogliono tenersi il posto, lavoratori irregolari, per una parte o per il totale. Il che fa schizzare i numeri in alto. Quella del “working poor” non è una categoria omogenea eloquente. Non ha un’età precisa, non guarda solo a una generazione, non risponde a una determinata fetta di mercato e competenze. Ma è flessibile e penetrante. Basti guardare al dato Inps per ritoccare al rialzo le stime di Eurostat. Secondo l’istituto di previdenza solo i dipendenti con un reddito annuo lordo inferiore ai 12 mila euro, considerata la soglia di retribuzione minima, sono almeno 4,6 milioni. Così, mentre siamo distratti da una politica che discute di pensioni e di tasse e che spesso parla a chi il lavoro ce l’ha o ce l’ha avuto, è nel sommerso, invece, o grazie al lavoro grigio che sopravvive, a stento, il Paese.
«L’Italia soffoca sotto il peso del lavoro che non permette a chi lo fa di uscire dalla soglia di povertà, cioè di avere abbastanza soldi per arrivare a fine mese», spiega Emanuele Felice, professore ordinario di politica economica all’Università G. D’Annunzio di Chieti-Pescara: «Il nostro è il quarto Paese per lavoro povero in Europa e l’unico tra quelli Ocse ad aver registrato un valore negativo nella variazione dei salari medi tra il 1990 e il 2020. Questo succede perché manca una politica industriale strutturata, manca una strategia a lungo termine e investimenti in innovazione e ricerca: l’occupazione cresce in settori come ristorazione e turismo che sono quelli in cui i salari sono più bassi e il lavoro irregolare più diffuso, trasformando l’Italia in un territorio sempre più povero, che si allontana dagli standard degli altri Stati avanzati, mentre i laureati si trasferiscono all’estero». Chi resta riempie le fila del lavoro precario e sottopagato: «Ma io devo vivere con 750 euro? Non mi ci pago neanche l’affitto, non ci vivo», aveva denunciato sui social Ornela Casassa, ingegnera ventottenne a cui era stato proposto un posto a 900 euro al mese con partita Iva per lavorare come dipendente. «Guadagnavo cinque euro e ottanta l’ora inquadrato come guardasala anche se per la maggior parte del tempo spiegavo ai visitatori le opere in esposizione», racconta Marco, laureato in storia dell’arte, ex dipendente del Chiostro del Bramante: «Avrei dovuto fare 16 ore al mese, invece erano in media 120. Non ero l’unico in questa condizione, la maggior parte era messa come me».
Dai dati emerge che i lavoratori poveri sono soprattutto under 30 e donne. Che vivono al Sud o nelle isole dove le paghe si abbassano fino all’inverosimile: «2,5 euro all’ora, in nero, per fare la babysitter», ha raccontato a Fanpage Emanuela dalla periferia ovest di Napoli; «280 euro al mese per 10 ore al giorno per lavorare come commessa», è lo sfogo di una ventiduenne sempre dal capoluogo campano. «Voi giovani non avete voglia di lavorare», le risponde la titolare del negozio.
Come evidenzia il Geography Index dell’osservatorio JobPricing, c’è un forte squilibrio in termini di stipendio a parità di ruolo e di esperienza professionale sia a livello regionale sia a livello provinciale. Queste differenze sono ulteriormente accentuate da fattori esogeni al mercato del lavoro, quali, per esempio, il costo della vita, gli investimenti pubblici, le infrastrutture e i mezzi di trasporto. Ne deriva che fra Nord e Sud, in media, il delta retributivo raggiunge il 17 per cento. Una differenza che diventa ancora più significativa, quasi il 52 per cento, se si confronta la provincia di Milano, con la retribuzione media più elevata d’Italia, con quella di Ragusa, con la retribuzione in media più bassa.
A essere pagati meno del necessario per vivere una vita dignitosa, però, non sono soltanto gli under 30: Corrado ha 49 anni, rider di Cagliari. È assunto a tempo indeterminato da Just Eat per 10 ore alla settimana, «e per il tempo che mi resta lavoro come autonomo per gli altri food delivery. Accedo alle app e aspetto che mi vengano assegnate le consegne. Alla fine, lavoro 9-10 ore al giorno per 5 giorni alla settimana e guadagno sui mille euro al mese, puliti. Meno di 4 euro a consegna. Riesco a viverci solo perché ho una casa di proprietà». Vale lo stesso per Enrico che ha 50 anni, conducente di scuolabus da 24 per una ditta privata che ha vinto la gara d’appalto con il Comune di Cerveteri. Ha un contratto a tempo indeterminato ma guadagna 950 euro solo per 9 mesi: «Durante l’estate non percepiamo lo stipendio. Il contratto nazionale a cui facciamo riferimento è quello degli autoferrotranvieri. Non ne abbiamo uno nostro. Siamo impegnati tutto il giorno dalle sette di mattina alle cinque di pomeriggio, abbiamo la responsabilità del mezzo, qualsiasi danno ci viene imputato in percentuale, e dei bambini che portiamo a bordo. Ma non ci viene riconosciuto niente di tutto questo: stiamo tre mesi senza indennità e il primo stipendio completo lo prendiamo a novembre, relativo al lavoro svolto a ottobre».
Paghe da fame, turni pesanti, lavoro precario in cooperative finte e subappalti selvaggi sono caratteristiche che rendono infernale anche la vita dei vigilanti privati: «La nostra retribuzione era già bassa. Adesso non arriviamo più a fine mese. Non abbiamo soldi neanche per comprare i libri che servono per la scuola ai nostri figli», è lo sfogo degli addetti alla vigilanza dell’Università Sapienza di Roma raccolto da L’Espresso. Cinquanta lavoratori che all’improvviso avevano visto il loro stipendio, nonostante gli anni di servizio, ridursi drasticamente. Perché, come conseguenza di un cambio d’appalto, s’era trasformata anche la tipologia del contratto d’assunzione: da multiservizi a vigilanza privata e servizi fiduciari, il contratto nazionale noto per le sue retribuzioni «al di sotto della soglia di povertà», come hanno sancito diversi tribunali. «È complicato avere relazioni umane quando non si hanno tempi di vita conciliabili con il resto della società», spiegava, infatti, Matteo. Che lavora come vigilante armato 173 ore al mese spalmate su 27 giorni, con 4 giornate di riposo e otto domeniche libere l’anno. Per uno stipendio di 1.120 euro netti al massimo della carriera, con 26 anni di lavoro alle spalle: «I colleghi più giovani non arrivano a 700».
L’articolo 36 della Costituzione sancisce il diritto a una retribuzione «proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Ma in troppi casi non succede: alcuni contratti nazionali anche se firmati dalle principali sigle sindacali, come nel caso di quello della vigilanza privata, prevedono paghe inferiori alla soglia di povertà. Inoltre l’Italia è il Paese dei contratti scaduti e quindi inadeguati all’inflazione attuale, non aggiornati sulla base del costo della vita che aumenta. Ma soprattutto esistono contratti nazionali sottoscritti da sigle di rappresentanza minori o fittizie pensati più per ridurre i costi per le aziende che per tutelare i lavoratori. Creano dipendenti di serie b e che a parità di mansioni guadagnano molto meno di quelli tutelati dagli accordi siglati dai sindacati principali: i contratti pirata proliferati negli ultimi anni a causa della mancanza di regole chiare, che sono difficili da arginare visto che anche le sentenze emesse dai tribunali non si traducono in un azzeramento del contratto ma valgono solo per il lavoratore che ha fatto causa.
«Una serie di studi ha evidenziato che sono i lavoratori sottoposti a forme contrattuali atipiche quelli con più difficoltà a raggiungere un reddito sufficiente alla sussistenza. Penso soprattutto ai rider e agli shopper, ossia chi consegna la spesa a domicilio. Vivono una condizione sostanziale di lavoro a cottimo, a volte con paghe inferiori ai 4 euro l’ora, resa possibile da “contratti” che sono ritenute d’acconto. Questi lavoratori, invece, dovrebbero essere inquadrati come dipendenti visto che nella realtà le loro prestazioni sono interamente gestite dalle piattaforme», spiega Andrea Borghesi, segretario generale NIdiL Cgil: «Succede perché in Italia ci sono troppe forme contrattuali, generano caos e portano le imprese ad approfittarne. Anche per questo è importante il dibattito che si è aperto sul salario minimo, che deve estendersi anche alle forme di lavoro che non sono subordinate». A condividere l’iniziativa di legge sul salario minimo anche il professor Felice: «I contratti che prevedono paghe basse sono più una conseguenza della situazione che la causa. Bisogna cambiare la politica industriale per tornare a crescere. Nel frattempo, però, le leggi servono per evitare lo sfruttamento: in Italia il lavoratore viene visto come un peso. Non come una risorsa. Non si investe più sulla persona che diventa facilmente sostituibile, le mansioni che deve svolgere sono relativamente semplici, il Paese non si specializza e diventa sempre più povero e più diseguale. Non possiamo competere con il resto del mondo ribassando i salari, dobbiamo puntare sulla qualità del lavoro», sentenzia l’economista senza mezzi termini.