Il commento

Il capitalismo familiare, la zavorra dell'economia italiana che vive di "amichettismi"

di Massimiliano Panarari   9 febbraio 2024

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Il mercato è poco competitivo e lo Stato si muove con un interventismo sempre attento a favorire gli amici. In particolare i protagonisti di quel mondo finanziario e industriale che è espressione di un familismo amorale diffuso in tutta la società

La modernità, come racconta una lunga e solida tradizione storiografica, si è accompagnata a tre rivoluzioni. Quella politica (il liberalismo), quella religiosa (il protestantesimo) e quella economica (il mercato concorrenziale). Dalla confluenza di questo trittico rivoluzionario sono scaturite le grandi nazioni liberaldemocratiche dell’Occidente. L’Italia, come noto, è una nazione di recente (e non propriamente robusta) costituzione, non particolarmente incline a fare rivoluzioni di sorta; ovvero, per dirla con Leo Longanesi: «La rivoluzione non si può fare perché ci conosciamo tutti». Un altro dei volti di quella che vari intellettuali hanno chiamato, giustappunto, l’«anomalia italiana».

 

Considerazioni che valgono, in particolare, per le ripetute ventilate promesse di rivoluzione liberale regolarmente disattese (basti pensare ai plurimi annunci in materia di Silvio Berlusconi). E, per ritornare alla caustica massima longanesiana, a conoscersi sono in modo particolare i protagonisti del capitalismo italiano.

 

Tra i principali paradigmi di capitalismo – che non è unico, come noto, ma si presenta secondo varianti differenti – vanno annoverati quello delle economie di mercato liberali (o modello anglosassone), nel quale le imprese si trovano in una condizione di accentuata competizione e le relazioni di mercato sono gestite attraverso contratti formali molto dettagliati e completi. E quello delle economie di mercato coordinate (o modello tedesco), nel quale esiste un ruolo più marcato dei poteri pubblici, si instaurano modalità comportamentali più collaborative e gli accordi risultano più incompleti e non scritti, sostituiti appunto da prassi maggiormente cooperative. Rispetto a questi paradigmi, ancora una volta, si staglia l’«eccezione italiana».

 

Dove il mercato è meno competitivo e più consociativo e lo Stato anziché svolgere una funzione autentica di regolatore si muove «a geometrie variabili» a seconda della maggioranza politica di cui è espressione e talvolta all’insegna di un interventismo più scoordinato e «amichettista» degli uni piuttosto che degli altri. Ossia dei protagonisti di un capitalismo familiare e dinastico che rappresenta il solo vero elemento di continuità della storia economica contemporanea italiana. Espressione a volte, come dicono alcuni studiosi di scienze sociali ispirandosi alla famosa-famigerata categoria elaborata nei tardi anni Cinquanta da Edward Banfield, di un familismo amorale che permea la società italiana a ogni livello, senza soluzione di continuità.

 

Un tempo a orchestrare il concerto degli interessi in gioco e a depotenziare i conflitti, che vediamo invece oggi dilagare, c’era il «salotto buono» (e camera di compensazione) di Mediobanca, sotto la regia ferrea di Enrico Cuccia. Fondata da quel banchiere umanista, Raffaele Mattioli, che con la sua Banca commerciale italiana aveva disegnato e governato il boom economico nazionale – leggere per credere le testimonianze (da Bruno Visentini a Guido Carli, da Ignazio Visco ad Antonio Patuelli) raccolte nel recentissimo volume “Gli insegnamenti di Raffaele Mattioli” (Laterza). Una stagione tramontata irreversibilmente, assieme alla politica industriale, mentre quello che Guido Rossi ha definito il «conflitto epidemico» (di interessi) si diffondeva ovunque. Ed è, appunto, la triste storia dei nostri anni.