Poteri occulti
La storia del mafioso che voleva fare il massone a Roma
Domenico Carzo, fondatore della prima cosca di 'ndrangheta nella Capitale, ha cercato di infiltrarsi nella massoneria del Grande Oriente d'Italia. Grazie a una serie di amici professionisti dalla doppia obbedienza
Il copione è antico ed è lo stesso che ha vergato le pagine più nere della nostra storia, solo che questa volta ha sfiorato un livello mai visto prima. La collaborazione tra mafiosi e massoni per mettere a segno affari e trame è entrata negli atti giudiziari da oltre mezzo secolo, da quando un filo nero scaturito dal finto rapimento di Michele Sindona ha portato a smascherare la P2 di Licio Gelli. Nonostante questa consapevolezza, un boss di punta della ’ndrangheta è arrivato a un passo dal venire personalmente ammesso alla fratellanza. Non si tratta di un picciotto qualunque, ma del figlio e braccio destro dell’uomo accusato di essere stato il capo della prima ’ndrina creata a Roma. E non cercava l’iniziazione in un tempio deviato di qualche cittadina della provincia meridionale: voleva indossare il grembiule del Grande Oriente proprio nella Capitale, in una delle logge più prestigiose per tradizione e frequentazioni. Insomma, voleva un posto nel cuore della massoneria ufficiale.
Protagonista di questa incredibile impresa è Domenico Carzo, che assieme al padre Antonio è stato arrestato e condannato in primo grado per avere aperto la prima “locale” dei clan calabresi a Roma. I magistrati lo definiscono «soggetto formalmente organico alla ’ndrangheta con una dote della cosiddetta Società Maggiore». I Carzo sono ritenuti i leader militari della filiale, quelli che imponevano con la violenza la legge dell’organizzazione mentre il più noto Vincenzo Alvaro, celebre per avere gestito il Cafè de Paris di via Veneto, era considerato il regista delle attività imprenditoriali. Al momento Alvaro e Antonio Carzo sono reclusi al regime di carcere duro e Carzo è stato condannato con rito abbreviato al massimo della pena. Nella loro scalata per farsi spazio sui Sette Colli senza urtare gli interessi delle altre presenze criminali cercano metodicamente di stabilire relazioni con i colletti bianchi: sanno che la maniera per prosperare nella Capitale è mettere piede nei circoli che contano. E in questa stagione di poteri deboli, con i partiti politici frantumati, con sindaci e governi che cambiano in continuazione, ritengono che a Roma la massoneria sia l’unico referente stabile per avere la certezza di sedere ai tavoli più importanti.
Secondo gli atti dell’inchiesta, la nuova ’ndrina capitolina smantellata da una retata nel 2022 aveva già stretto legami con due iscritti al Grande Oriente: professionisti che si prodigavano per aiutarli a rilevare ristoranti, bar e negozi. A Domenico Carzo non bastava: voleva essere personalmente nella consorteria più autorevole. Così nel 2017 si fa consigliare dal commercialista Eugenio Mengarelli, che gli spiega i requisiti indispensabili per l’ammissione: servono un lavoro stabile e la residenza nella zona della loggia. Carzo provvede e così viene formalmente presentato come aspirante. L’informativa inedita della polizia giudiziaria sottolinea come Mengarelli avesse una posizione apicale nella loggia Kipling 128 e riporta un messaggio intercettato: era diretto a Carlo Ricotti, «llustrissimo presidente del collegio circoscrizionale dei maestri venerabili del Lazio». Si tratta di un giurista e docente della Luiss, scomparso nel 2019 e fino ad allora tra i volti più noti del Grande Oriente a Roma: una figura specchiata di studioso, mai coinvolta in indagini. Nel testo, Mengarelli invitava Ricotti a partecipare all’agape – la riunione rituale – della Kipling 128 e lo faceva per conto del maestro venerabile: «La vostra presenza come già in occasione della cerimonia dell’installazione dei dignitari darebbe un forte segnale ai nostri fratelli dopo i purtroppo tristi avvenimenti che ci hanno colpito». Probabilmente il riferimento è all’acquisizione degli elenchi massonici realizzata dalla Finanza pochi giorni prima su decreto dell’allora presidente della Commissione antimafia Rosy Bindi: un atto vissuto come una persecuzione dal Grande Oriente, che qui però viene evocato da un professionista poi arrestato per avere occultato i patrimoni delle cosche.
Come prevedono le regole della fratellanza, Domenico Carzo dichiara che né suo padre né suo nonno sono pregiudicati e indica due massoni come testimoni della sua rettitudine. Uno è il medico Antonio Francesco Orlando, iscritto alla Felsinea di Bologna ed ex assessore comunale di Vignola (Modena). L’altro è Attilio Russo, oculista di Cosoleto, il paesino non lontano da Gioia Tauro, da cui proviene la famiglia Carzo: è stato maestro venerabile della Ettore Ferrari di Palmi e si è candidato per incarichi nazionali del Grande Oriente.
Nel rapporto degli inquirenti, Orlando – contro cui non sono state formulate contestazioni – viene definito «compare» del capoclan Antonio Carzo. Il figlio Domenico però non preavvisa il dottor Russo della sua domanda di iniziazione. E l’oculista, interpellato dalla loggia romana, correttamente li mette in guardia: gli spiega che il fratello dell’aspirante doveva scontare una pena per sequestro e associazione mafiosa e pure il nonno era stato arrestato per un rapimento. Insomma, fornisce il ritratto di un uomo di ’ndrangheta.
Alla vigilia del Natale 2017 la microspia degli investigatori registra la discussione tra il candidato massone e i suoi familiari. Dice che un membro della loggia gli aveva domandato se per davvero il nonno fosse stato arrestato per sequestro di persona. Lui non si era perso d’animo: aveva risposto che era stato assolto, aggiungendo che ognuno dei suoi parenti «aveva pagato quello che doveva e che si erano trasferiti a Roma proprio per sottrarsi alle dinamiche mafiose e fare una vita diversa». Una versione che non ha convinto «il tizio della loggia», che torna a chiedergli se suo padre, suo zio e suo nonno fossero elementi della criminalità. Domenico Carzo nega ancora. Invano, perché la sua speranza di venire iniziato al Grande Oriente svanisce qui.
Domenico Carzo più che alle agapi accompagnate da musica di Mozart era abituato alle «mangiate» – così gli ’ndranghetisti chiamano il raduno della cosca. È stato condannato in primo grado a 16 anni con giudizio abbreviato: gli sono state contestate pure estorsioni e reati di armi. Il padre è stato intercettato mentre pronunciava minacce come: «Gli butto tanto di quell’acido in faccia alla moglie che quando lui la guarda deve pensare: “Per colpa mia”». Oppure: «Ti scannu come nu craprettu, vegnu e t’ammazzu i toi». Quando il genitore torna in Calabria, è lui che prende la guida della colonia a Roma e tratta con i capi delle altre famiglie criminali.
Il problema è che anche quando il Grande Oriente viene a sapere della caratura mafiosa dei Carzo, i suoi adepti non rinunciano a lavorare per loro. L’inchiesta della procura capitolina ha radiografato l’impegno di Eugenio Mengarelli al fianco dei boss proseguito per altri cinque anni. Il giovane Mengarelli si divideva tra le riunioni della Kipling 128 e le «ambasciate» per conto di Alvaro, che quando viene a sapere delle indagini sul suo conto usa il professionista per trasmettere messaggi. Sarebbe stato lui a provvedere alle intestazioni fittizie di società e ristoranti per evitare che finissero sotto sequestro giudiziario «mettendosi – scrivono i magistrati – a completa disposizione degli interessi del sodalizio».
C’è poi il commercialista Franz Silvestri: per i magistrati «si è messo a servizio in modo continuativo» dei due capi Vincenzo Alvaro e Antonio Carzo «al fine di agevolarne la penetrazione nel tessuto economico-produttivo romano». Attualmente è detenuto per concorso esterno in associazione mafiosa. Era iscritto alla loggia Jerusalem 1199 che celebra la sua agape in una delle case massoniche più rispettate del Grande Oriente: lì si ritrovano professionisti di altissimo livello, soprattutto avvocati e fiscalisti, non solo di Roma ma di tutta Italia. «Sono stati sospesi immediatamente al momento dell’arresto – dichiara a L’Espresso Stefano Bisi, al vertice del Grande Oriente d’Italia – prestiamo particolare attenzione all’infiltrazione mafiosa e facciamo accertamenti accurati, come è accaduto per Carzo. Ma si tratta pur sempre di controlli associativi: chiediamo il casellario giudiziale; non possiamo ovviamente fare indagini sui conti correnti o perquisizioni domiciliari. Del resto ci sono mele marce persino nelle forze dell’ordine».
I documenti sequestrati a Silvestri durante le perquisizioni illustrano il suo impegno nelle attività della fratellanza, che lo vedono a stretto contatto di massoni dichiarati e di altri che restano coperti. Nel 2014 viene eletto maestro venerabile della Jerusalem – posizione che poi perderà – e costituisce una onlus – con lo stesso nome e sede nel suo studio – per diffondere i valori della massoneria: risultano iscritte figure di diverse logge di altre regioni, che sulle fonti aperte mostrano orientamenti politici diversi e mestieri molto differenti, con una predominanza di avvocati, medici e docenti universitari. Uno di loro si è candidato per le elezioni del vertice del Grande Oriente – il primo turno c’è stato il 3 marzo, il secondo sarà il 24 – con un programma in cui è prevista «l’avversione alla criminalità organizzata e alla mentalità mafiosa».
La replica dell'Associazione Jerusalem 1199 al nostro articolo
“In riferimento alla posizione del dr. Frantz Silvestri preciso che l'Associazione Jerusalem 1199, in quanto articolazione territoriale del Grande Oriente d’Italia, risulta costituita in data 6.3.2019 e non ha nulla a che vedere con la Onlus a cui si fa riferimento nel suddetto articolo. Che tale "Onlus" risulta cessata da lungo tempo, e comunque da epoca grandemente anteriore alla fondazione della Associazione Jerusalem 1199. Che nessuno dei candidati alle elezioni 2024 del Grande Oriente d'Italia risulta attualmente iscritto alla suddetta cessata Onlus".
Avvocato Vincenzo Carteny