La riforma voluta dalla maggioranza renderà definitiva la frattura tra Nord e Sud. E sancirà la crisi definitiva del Servizio Nazionale. La denuncia di Nino Cartabellotta, fondatore della Fondazione Gimbe, e una sua proposta

L’aula del Senato ha approvato il ddl Calderoli sull’attuazione dell’Autonomia differenziata che ora è al vaglio della Camera con l’ambizione di diventare legge prima delle elezioni europee, continuando a ignorare le imprevedibili conseguenze delle maggiori autonomie nella sanità che si inserirebbero in un contesto caratterizzato, oltre che dalla grave crisi di sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale (Ssn), da inaccettabili diseguaglianze tra i 21 sistemi sanitari regionali. Diseguaglianze relative ai Livelli Essenziali di Assistenza (Lea) – prestazioni sanitarie che le Regioni devono garantire gratuitamente o previo pagamento del ticket – di aspettativa di vita alla nascita, di mobilità sanitaria, oltre che di attuazione della Missione Salute del Pnrr.

 

Tutti i dati confermano che nella sanità – nonostante la definizione dei Lea nel 2001, il loro monitoraggio annuale e l’utilizzo da parte dello Stato di strumenti quali Piani di rientro e commissariamenti – persistono inaccettabili diseguaglianze tra i 21 sistemi sanitari regionali. E oggi non siamo più di fronte a un semplice divario Nord-Sud, ma a una “frattura strutturale” che compromette qualità dei servizi sanitari, equità di accesso, esiti di salute e aspettativa di vita alla nascita, alimentando un imponente flusso di mobilità sanitaria da Sud a Nord. E l’attuazione di maggiori autonomie nella sanità, richieste proprio dalle Regioni con le migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione, non potrà che ampliare tutte le diseguaglianze già esistenti. Di conseguenza, senza sanare almeno in parte tale “frattura strutturale”, senza modificare i criteri di riparto del fabbisogno sanitario nazionale, senza superare il sistema dei Piani di Rientro e dei commissariamenti e senza aumentare le capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni, con l’Autonomia differenziata la sanità si trasformerà definitivamente in un bene pubblico nelle più ricche Regioni del Nord e in un bene di consumo per le altre Regioni.

 

La richiesta della Fondazione Gimbe di espungere la tutela della salute dalle materie su cui le Regioni possono richiedere maggiori autonomie non è stata sinora presa in considerazione dal governo, né sostenuta con vigore e costanza dalle forze di opposizione. Risulta pertanto indispensabile ribadire le motivazioni che portano a sostenere questa posizione, al fine di aumentare la consapevolezza sociale sui rischi del ddl Calderoli relativamente alla sanità. Perché non è ammissibile che venga violato il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto alla tutela della salute, legittimando normativamente il divario tra Nord e Sud.

 

il ministro delle Autonomie e delle Regioni Roberto Calderoli

 

Primo: il Ssn attraversa una gravissima crisi di sostenibilità e il sotto-finanziamento costringe anche le virtuose Regioni del Nord a tagliare i servizi e/o ad aumentare le imposte regionali per evitare il Piano di Rientro. Guardando alla crescita economica del Paese, all’impatto atteso del nuovo Patto di Stabilità e all’assenza di misure concrete per ridurre evasione fiscale e debito pubblico, peraltro non si intravedono risorse né per rilanciare il finanziamento pubblico della sanità né tantomeno per colmare le diseguaglianze regionali. E con l’Autonomia differenziata le Regioni potranno trattenere il gettito fiscale, che non verrebbe più redistribuito su base nazionale, impoverendo ulteriormente il Mezzogiorno.

 

Secondo: il Comitato istituito per definire i livelli essenziali delle prestazioni (Clep) – la cosiddetta Commissione Cassese – non ha ritenuto necessario definire i Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep) per la materia «tutela della salute», perché esistono già i Lea. Tuttavia, ai Lea non corrisponde alcun fabbisogno finanziario, perché il riparto del Fondo Sanitario Nazionale, con cui lo Stato trasferisce le risorse alle Regioni, avviene secondo criteri di popolazione residente, in parte pesata per età, ed è indipendente dal raggiungimento o meno dei Lea. Ovvero, si tratta di una pericolosissima scorciatoia rispetto alla necessità di garantire Lep secondo quanto previsto dalla Carta costituzionale. Peraltro, se i capisaldi del federalismo mirano ad affermare il principio di sussidiarietà e a migliorare l’efficienza amministrativa, non dovrebbero compromettere la capacità di redistribuzione del reddito, fondamentale per garantire a tutta la popolazione il diritto alla tutela della salute ed eliminare gli ostacoli presenti nei territori più svantaggiati.

 

Terzo: in sanità il gap tra Nord e Sud configura ormai una “frattura strutturale”, come dimostrano tutti i dati. Alla maggior parte dei residenti al Sud non sono garantite nemmeno le prestazioni essenziali, alimentando il fenomeno della mobilità sanitaria verso le Regioni che hanno già sottoscritto i pre-accordi per le maggiori autonomie. Di conseguenza è impossibile, come ripetutamente dichiarato, che le maggiori autonomie nella sanità possano ridurre le diseguaglianze esistenti.

 

l Pronto Soccorso dell’Ospedale San Giovanni di Roma

 

Quarto: le maggiori autonomie già richieste da Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto ne potenzieranno le performance sanitarie e, al tempo stesso, indeboliranno ulteriormente quelle delle Regioni del Sud, incluse quelle a statuto speciale. In tal senso risulta al tempo stesso grottesca e autolesionistica la posizione dei presidenti delle Regioni meridionali governate dal centrodestra, dimostrando che gli accordi di coalizione partitica prevalgono sulla tutela della salute delle persone. Alcuni esempi: la maggiore autonomia in termini di contrattazione del personale provocherà una fuga dei professionisti sanitari verso le Regioni più ricche impoverendo ulteriormente il capitale umano nel Mezzogiorno; l’autonomia nella determinazione del numero di borse di studio per scuole di specializzazione e medici di medicina generale determinerà una dotazione asimmetrica di specialisti e medici di famiglia; le maggiori autonomie sul sistema tariffario, di rimborso, di remunerazione e di compartecipazione rischiano di aumentare le diseguaglianze nell’offerta dei servizi e favorire l’avanzata del privato; una maggiore autonomia in materia di istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi darebbe il via libera a sistemi assicurativo-mutualistici regionali.

 

Quinto: l’inevitabile indebolimento dei servizi sanitari nel Mezzogiorno rischia di generare un effetto paradosso anche sulle Regioni settentrionali con le migliori performance. Infatti, la crisi di sostenibilità del Ssn oggi non consente nemmeno alle ricche Regioni del Nord di aumentare la produzione sanitaria oltre un certo limite. Di conseguenza un ulteriore incremento della mobilità attiva verso queste Regioni rischia di peggiorare l’assistenza sanitaria per i propri residenti. In tal senso la “spia rossa” si è già accesa in Lombardia, che nel 2021 si trova sì al primo posto per mobilità attiva, ma anche al secondo posto per mobilità passiva: ovvero un numero molto elevato di cittadini lombardi va a curarsi fuori Regione.

 

Sesto: nonostante gli entusiastici proclami sui vantaggi delle maggiori autonomie anche per le Regioni del Sud, è certo che nella sanità non possono esistere affatto per una ragione molto semplice. Tutte le Regioni del Mezzogiorno (eccetto la Basilicata) si trovano assieme al Lazio in regime di Piano di Rientro, con Calabria e Molise addirittura commissariate. Uno status che, imponendo la “paralisi” nella riorganizzazione dei servizi sanitari, rende impossibile avanzare qualsiasi richiesta di maggiori autonomie in sanità.

 

Settimo: il Pnrr, sottoscritto dall’Italia e per il quale abbiamo indebitato le future generazioni, persegue il riequilibrio territoriale e il rilancio del Sud come priorità trasversale a tutte le missioni. In tal senso, l’impianto normativo del ddl Calderoli contrasta proprio il fine ultimo del Pnrr, che dovrebbe accompagnare il processo di convergenza tra Sud e Centro-Nord quale obiettivo di crescita economica, come più volte ribadito nelle raccomandazioni della Commissione europea.

 

L’Ospedale Loreto Mare di Napoli

 

Quel che è certo, al di là di slogan e illusori proclami, è che l’autonomia differenziata non potrà mai ridurre le diseguaglianze in sanità, perché renderà le Regioni del Centro-Sud sempre più “clienti” dalle Regioni del Nord. Le quali, a loro volta, rischiano paradossalmente di peggiorare la qualità dell’assistenza sanitaria per i propri residenti. Ovvero, l’Autonomia differenziata per la materia «tutela della salute» non solo affonderà definitivamente la sanità del Mezzogiorno, ma darà anche il colpo di grazia al Ssn, causando un disastro sanitario, economico e sociale senza precedenti.

 

Stiamo rinunciando alla nostra più grande conquista sociale e a un pilastro della democrazia solo per un machiavellico “scambio di cortesie” nell’arena politica tra i fautori dell’autonomia differenziata e i fiancheggiatori del presidenzialismo. Due riforme che, oltre ogni ragionevole dubbio, spaccheranno l’unità del Paese Italia.