Litigi a destra
Lega e Fratelli d'Italia usano le riforme come clave. E la Costituzione viene stravolta per giochi politici
Salvini vuole l’Autonomia. Meloni il premierato. E usano uno contro l’altra modifiche decisive della Carta. Mentre i loro partiti non rappresentano molti elettori e a un eventuale referendum la vittoria sarebbe incerta
Il calcolo è facile. L’unità nazionale e la stessa Costituzione, con l’autonomia differenziata alle Regioni, verrebbero sacrificate per soddisfare chi oggi rappresenta meno del 5 per cento degli italiani con diritto di voto. Proprio così. Alle elezioni del 25 settembre 2022 la Lega di Matteo Salvini, unico partito cui quella assurda riforma sta a cuore, ha preso poco più di 2 milioni e mezzo di voti, residenti all’estero e valdostani compresi, su un corpo elettorale di 50,8 milioni di cittadini.
Si dirà che pure il premierato, così caro alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e che sconvolgerebbe in misura altrettanto profonda la Costituzione, interessa a chi rappresenta un’esigua minoranza di italiani maggiorenni. Alle stesse Politiche del 25 settembre 2022 Fratelli d’Italia ha portato a casa circa 7 milioni e mezzo di voti, cioè meno del 15 per cento del corpo elettorale. E la quota sale al 24,7 per cento considerando l’intera coalizione che governa il Paese.
È il valore più basso di rappresentatività di un governo democraticamente eletto in tutto l’Occidente: conseguenza di una legge elettorale insensata e di un astensionismo che per colpa dei partiti ha toccato livelli astronomici. Considerando anche gli italiani all’estero l’affluenza alle ultime elezioni generali è stata appena superiore al 60 per cento.
In democrazia vale sempre la regola per cui chi non va a votare ha sempre torto, è chiaro. Ma logica vorrebbe che decisioni capaci di un impatto così radicale sulla vita di una nazione intera avessero dietro spinte di consenso un po’ più consistenti.
Per le leggi costituzionali c’è sempre il referendum popolare confermativo, si potrebbe controbattere. Già, ma è una consultazione che non prevede il quorum. E infatti, come vedremo, ci sono state in passato riforme costituzionali scriteriate, volute e votate dalla sola maggioranza, approvate da una fetta esigua del Parlamento e confermate da una porzione altrettanto esigua di cittadini.
Perché non da ora sulla pelle della Costituzione, partorita tre quarti di secolo fa da un’assemblea eletta da quasi il 90 per cento degli italiani con diritto di voto, si giocano partite che riguardano solo i rapporti di forza nel Palazzo. E niente altro. Mai però era accaduto che nella stessa maggioranza due riforme costituzionali fossero brandite come clave da alleati: l’uno contro l’altro armati.
Il capogruppo della Lega Riccardo Molinari non poteva essere più chiaro, quando nella coalizione si è profilato uno slittamento dei tempi per l’autonomia differenziata: «C’è un accordo. Prevede che l’autonomia inizi la sua discussione in Aula il 29 aprile. E noi ci aspettiamo che tutti mantengano l’impegno assunto. Abbiamo dato il via libera in commissione sul premierato al Senato. I patti si rispettano».
Traduzione? Noi abbiamo appoggiato la riforma costituzionale che interessa l’azionista di maggioranza relativa del governo, votato dal 15 per cento degli italiani maggiorenni. Ma in cambio ci aspettiamo il sostegno alla riforma costituzionale che interessa meno del 5 per cento degli iscritti alle liste elettorali.
La verità è che in questa specie di ricatto incrociato c’è in ballo anche la sopravvivenza politica di Matteo Salvini. Le tensioni nella Lega sono fortissime. Dal Nord spira aria di rivolta e le elezioni europee rischiano di essere l’ultima spiaggia per il suo segretario. Arrivare al voto fra un mese e mezzo con le legge sull’autonomia differenziata approvata almeno da un ramo del Parlamento potrebbe servire a recuperare il rapporto con gli elettori nordisti, ai quali il ponte sullo Stretto di Messina, cavallo di battaglia salviniano, fa venire l’orticaria.
Ma i piani del partito di Giorgia Meloni non prevedono un cambiamento sensibile degli equilibri nella coalizione, soprattutto a vantaggio di un alleato interno così in difficoltà (che poi in Europa non è nemmeno alleato). Ben sapendo, fra l’altro, che per i propri elettori l’autonomia differenziata è una pietanza assai indigesta. Meglio, così, continuare a tenere Salvini sulla corda. Finché la corda regge, beninteso.
Invece la sinistra non può che rassegnarsi al ruolo di semplice spettatrice. Che comunque, in questa partita giocata tutta nella maggioranza, ha responsabilità enormi. Sentite che cosa dice l’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola: «Forse non staremmo qui a parlare della secessione dei ricchi se nel 2021 qualcuno non avesse portato avanti la riforma del Titolo V della Costituzione. Non voglio fare la morale, ma a Massimo D’Alema, a Romano Prodi e a Giuliano Amato direi che non potete stare sempre in cattedra a parlare degli errori degli altri. Occorre fare autocritica».
È illuminante ripercorrere la storia di quella riforma del 2001. Una riforma pensata e voluta dal centrosinistra con l’idea di arginare la valanga leghista, che alla prova delle urne si rivelò una pia illusione. Insomma il pallonetto, alla Lega, l’hanno alzato 23 anni fa proprio i suoi avversari.
Tutto cominciò con la commissione Bicamerale per le riforme ideata da Massimo D’Alema, che per inciso proponeva anch’egli il premierato: oggi bandiera di Giorgia Meloni. L’operazione fallì, come sanno i meno giovani. Ma nel marzo del 1999 D’Alema, diventato presidente del Consiglio, riprese parte dei lavori di quella commissione e presentò un disegno di legge costituzionale, atto Camera 5830 dal titolo «Ordinamento federale della Repubblica».
Come ricorda un documentato dossier del Senato, era il germe della riforma del Titolo V che avrebbe spianato la strada alla futura autonomia differenziata. D’Alema ha poi rigettato la responsabilità rispondendo a Matteo Renzi che l’aveva chiamato in causa prima del referendum costituzionale del 2016: «Era una parte dei lavori della Bicamerale e io espressi perplessità sul farne una riforma da sola perché avrebbe creato squilibrio ma l’insistenza in particolare di Francesco Rutelli che nel 2000 era candidato del centrosinistra con il sostegno di Walter Veltroni nella convinzione che la riforma sottraeva voti alla Lega spinse a realizzarlo».
Rutelli venne investito della candidatura a premier molti mesi dopo la presentazione dell’atto Camera 5830. E comunque è innegabile che il centrosinistra e il partito di D’Alema avessero una fretta indemoniata di far passare la riforma. L’urgenza era tale che nel settembre 2000 l’assemblea del Senato iniziò la discussione nonostante la commissione cui la legge era stata assegnata non avesse ancora concluso l’esame. La riforma fu approvata con una maggioranza risicatissima dal centrosinistra: Rifondazione Comunista votò contro e il centrodestra non fu avvistato al voto finale.
Il nuovo titolo V diventò legge la mattina dell’8 marzo 2001. Il pomeriggio dello stesso giorno il capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi sciolse le Camere. Il referendum confermativo si tenne il 7 ottobre 2001, quando già al governo c’era Silvio Berlusconi, e passò con il 64,2 per cento dei «sì». Ma l’affluenza era stata del 34 per cento e i voti validi appena il 32,8 per cento: quindi la riforma ebbe la conferma da neppure il 21 per cento degli italiani maggiorenni. In alcune Regioni del Sud, come la Calabria, aveva toccato a malapena il 20 per cento l’affluenza al referendum per una riforma che aveva cancellato dalla Costituzione la parola «Mezzogiorno».