Il caso
Tutto il sistema delle carceri minorili si basa sulla violenza
Il caso “Beccaria” ha rivelato che gli abusi sono ricorrenti negli istituti penali per i minorenni. Ma non si tratta di un'eccezione: è l’intero mondo della giustizia a non essere adeguato a loro. Come racconta chi ci è passato
A colpire M. non erano solo gli schiaffi. Ma il fatto che gli agenti cercassero di farla sentire in colpa. «Mi dicevano: grazie a te dobbiamo fare il nostro lavoro». Per R. c’entra anche il pregiudizio: «Io sono appassionato di bricolage. Quando i poliziotti hanno perquisito la casa, hanno visto un taglierino sul comodino e hanno detto: questo dorme con un coltellino accanto, per alludere all’uso di droghe. Ma non era così». A G. è successo al momento dell’arresto: «Mi hanno tolto il cellulare e mi hanno picchiato». Anche A. racconta di essere stato percosso durante il fermo: «Non l’ho detto a nessuno e comunque dirlo a qualcuno non cambia niente». Eccole, le voci che nessuno ascolta: quelle delle ragazze e dei ragazzi detenuti nelle carceri minorili in Italia. Quasi cinquecento, nei 17 istituti penali per minorenni del nostro Paese: numeri in crescita, anche a causa dell’approccio punitivo su cui è incentrato il decreto Caivano. Voci che raccontano come le violenze all’Ipm “Cesare Beccaria” – oggetto dell’inchiesta condotta dalla Procura di Milano che ha portato agli arresti di tredici agenti penitenziari – non sono un’eccezione, ma «un elemento ricorrente del sistema», come spiega Pippo Costella, direttore di Defence for Children Italia.
Nasce per questo il rapporto del progetto “Just Closer”, di cui l’associazione è capofila: cofinanziato dall’Unione europea, ha raccolto le testimonianze dei ragazzi e delle ragazze attualmente coinvolti nei procedimenti di giustizia minorile. Storie confluite in una serie podcast, in uscita a maggio. «Volevamo far ascoltare chi è meno ascoltato – spiega Costella – la forza della ricerca sta anche nel fatto che è stata svolta da un gruppo di giovani che avevano vissuto in passato, in prima persona, un procedimento penale minorile. E la fotografia è preoccupante: una buona esperienza sembra questione di fortuna, più che il frutto dell’applicazione delle garanzie richieste dal diritto europeo e nazionale. Anche i tanti operatori competenti, in questo quadro, vengono penalizzati. Siamo ancora ben lontani da una giustizia a misura di minorenne».
"Beccaria", la punta dell’iceberg
I fotogrammi in bianco e nero, frammenti del pestaggio di un detenuto quindicenne trascinato nei corridoi a torso nudo, ripreso da una telecamera lo scorso 8 marzo, hanno la forza di lasciar intuire tutto il resto. Quello che resta sommerso. Perché, mentre l’inchiesta in corso potrebbe allargarsi, il report di Defence for Children (“La giustizia a misura di minorenne. Le voci dei ragazzi e delle ragazze in Italia”) accende una nuova luce su quel che accade “dentro”. Ma anche prima, al momento dell’arresto, o nel rapporto con avvocati, giudici, educatori.
Nove principi disattesi
Il rapporto è guidato da nove principi che suonano come altrettante domande ai minori intervistati: la giustizia è stata accessibile? Adeguata all’età? Rapida? Diligente, ovvero accurata? Attenta ai bisogni? Ha seguito i dettami del giusto processo? È stata partecipata e comprensibile? Rispettosa della vita privata e famigliare? E, soprattutto, protegge da intimidazioni, stigmi o – come sta emergendo dal caso “Beccaria” – torture e trattamenti inumani? «A guidarci sono stati i principi del Consiglio d’Europa sulla giustizia a misura di minore del 2010 e la direttiva europea 800 del 2016 promossa dalla deputata europea Caterina Chinnici, che disciplinano il trattamento che deve essere riservato prima, durante e dopo il procedimento penale minorile», riprende Costella. Ma le risposte raccontano come questi principi vengano applicati in modo come minimo discontinuo, per la carenza di risorse strutturali e di un’adeguata formazione degli operatori del sistema. Al momento dell’arresto, racconta uno dei ragazzi intervistati, «mancavano quattro giorni al mio quattordicesimo compleanno: fino ad allora mi hanno tenuto isolato e non mi hanno permesso di chiamare nessuno». Il motivo? In Italia sei imputabile solo al compimento dei 14 anni. «Io – continua il ragazzo – non avevo idea di quali fossero i miei diritti».
Effetto Caivano
Inasprire le pene: è il mantra di questo governo. I dati raccolti dall’ultimo rapporto di Antigone, “Prospettive minori”, mostrano come – al 15 gennaio 2024 – i detenuti nei 17 istituti penali per minorenni del nostro Paese siano, per l’esattezza, 496. Questo è il secondo anno di fila in cui crescono le presenze: ma se l’aumento del 2022 rappresentava un ritorno alla situazione pre-pandemia, l’impennata registrata l’anno scorso ha altre spiegazioni. «Fino al 15 settembre, giorno dell’entrata in vigore del decreto Caivano – sottolinea il rapporto – sono stati registrati 1.231 ingressi; una media di 4,8 al giorno. Da quel momento fino al 31 dicembre si sono registrati 576 ingressi in 108 giorni, con una media di 5,25 ingressi al giorno». Il punto è che il decreto diventato un simbolo per Giorgia Meloni inverte una rotta già tracciata: un approccio punitivo a discapito di quello educativo, su cui è invece improntato il processo penale minorile secondo il relativo Codice (dpR 448 del 1988).
Stranieri, i più deboli
A farne le spese sono gli ultimi: vittime anche, come rimarca Costella, di un sistema di accoglienza spesso inefficace. Del totale di 496 detenuti presenti negli Ipm – sottolinea il rapporto di Antigone – gli stranieri sono infatti il 54,2%: quelli che beneficiano meno di misure più leggere ed efficaci. Se prendiamo i provvedimenti di messa alla prova adottati l’anno scorso – in tutto 6.592 – «solo il 20 per cento di essi ha riguardato ragazzi e ragazze stranieri». Che restano dentro.