Esclusivo
L'Italia in vendita fa ricchi i fondi stranieri: i numeri segreti degli ultimi affari
Dalla rete Tim alle Autostrade per l'Italia, è sempre lo Stato a rischiare di più. Le ultime novità sull'operazione degli americani di Kkr con l'ex Telecom. Il garbuglio inestricabile dentro Aspi
Volete un fragoroso applauso? Dite che l’Italia va a fondo e s’aggrappa ai fondi stranieri di investimento, speculativi, industriali, perpetui, stanziali, o come preferite chiamarli. Volete una estatica ovazione? Dite che l’Italia che va a fondo deve, è un obbligo, aprire il capitale pubblico ai fondi stranieri di investimento, speculativi, industriali, perpetui, stanziali, o come preferite chiamarli.
Qui lasciamo perdere applausi e ovazioni, più o meno spontanee, a volte sui giornali sono «spintanee», e tentiamo di rispondere a due o tre quesiti fondamentali per dire meglio ciò che stiamo per dire sui fondi stranieri. Chi siete? Che fate? Cosa portate? Gli esempi pratici insegnano.
Quasi sei anni fa, e la memoria custodisca quel giorno, la tragedia del ponte Morandi di Genova denunciò con il sacrificio di 43 vittime innocenti quello che pochi valorosi giornalisti, immuni al fascino della famiglia Benetton, hanno denunciato per anni. Contro le concessioni autostradali abbinate al perverso meccanismo dei pedaggi. Contro gli osceni profitti di Atlantia/famiglia Benetton con Autostrade per l’Italia. La politica reagì – c’era il governo gialloverde di Giuseppe Conte – con promesse vanagloriose o gradasse, scegliete voi, del tipo ci riprendiamo quello che è nostro e la famiglia Benetton verrà punita. Alla fine, e vi risparmiamo le eccezioni, anche giuridicamente corrette, sollevate duranti i governi Giuseppe Conte versione giallorossa e Mario Draghi in formato salvezza nazionale, lo Stato si è ripreso ciò che era suo e ha punito la famiglia Benetton versando al gruppo Atlantia controllato dalla famiglia Benetton 8,2 miliardi di euro. Con un solenne giuramento però: mai più affari facili risparmiando sulla sicurezza.
Per la rifondata Autostrade per l’Italia (Aspi), concessione statale su oltre 2.800 km di rete per 16 anni e dunque sino al 2038, fu deliberata la maggioranza pubblica a Cassa Depositi e Prestiti con il 51 per cento e un 24,5 ciascuno per gli americani di Blackstone Infrastrutture Part e gli australiani di Macquarie Asset Management. Era il 5 maggio 2022. Tempo qualche mese e si scoprì – grazie a Giorgio Meletti su Domani – che i patti parasociali sottoscritti dagli azionisti imponevano l’automatica conversione in dividendo dell’intero utile: ogni euro di guadagno rotolava nelle tasche degli azionisti. Era la garanzia per Blackstone e Macquarie di recuperare i soldi spesi, circa 2 miliardi di euro a testa, e moltiplicare velocemente il rendimento del capitale impegnato nei 16 anni di concessione. Aspi nel primo biennio di nuova vita, partita lenta per la pandemia, ha agevolmente segnato 2 miliardi di utili netti (e anche il debito galoppa). Lo scorso anno, mentre stava per essere staccata la prima cedola agli azionisti, nel governo di Giorgia Meloni più di un ministro, certamente Matteo Salvini (Trasporti), caldeggiava l’ipotesi di espellere i fondi da Autostrade per l’Italia, a loro parere troppo prudenti sugli investimenti e poco parsimoniosi sui dividendi. Cassa Depositi e Prestiti, che ha la sua porzione di responsabilità in questa vicenda, ha preso talmente sul serio la collera salviniana che ha designato per il consiglio di amministrazione di Aspi nientemeno che Fabio Barchiesi, una sorta di generale von Clausewitz per l’amministratore delegato Dario Scannapieco.
A dicembre è arrivato un gesto magnanimo da parte dei fondi: hanno accettato di ridurre l’utile netto per i dividendi dal 100 per cento al 75 per cento e pure in due rate. Non è mai scontato approvare in corsa modifiche alle regole. Sarà che i fondi hanno cambiato struttura cromosomica? Macché. Non fanno mica beneficenza. A quasi sei anni dal ponte Morandi, siamo ancora al ministero dei Trasporti, quindi lo Stato, che deve valutare il piano economico finanziario di Aspi. Insomma i fondi Blackstone, Macquarie più Cassa Depositi e Prestiti confermano la disponibilità a investire 35,9 miliardi di euro – di cui 19,3 per le grandi opere, 14,1 per manutenzione e sicurezza, 2,5 per migliorie tecnologiche – ma se la concessione verrà prolungata al 2044 e dunque di sei anni. Questo per consentire, è evidente, di non alterare le aspettative di Blackstone e Macquarie: 8 anni per riprendersi il capitale, 8 anni per raccoglierne i succosi frutti. Con questa soluzione l’aumento dei pedaggi sarà in linea con l’inflazione. Se il governo rifiuta o tratta al ribasso, Aspi si rifà con gli investimenti, tagliando perciò la manutenzione, la sicurezza, le grandi opere. Ricorda qualcosa. Salvini è riuscito a creare la società Autostrade dello Stato, già prevista col governo Draghi, per riconsegnare allo Stato le concessioni. Al momento ci sono una manciata di chilometri di tratte a pedaggio gestite da Anas. Il governo Meloni con Salvini da ariete potrebbe cacciare per la seconda volta in due anni i privati da Aspi, ma che credibilità ha uno Stato che ogni due anni ripete gli stessi errori e cerca di uscirne indenne da accordi sottoscritti? Blackstone e Macquarie fanno sapere a L’Espresso che sono più che concilianti col ministero e che, nonostante le recenti modifiche statutarie che permettono la fuga, non hanno intenzione di lasciare Autostrade per l’Italia. Ci sarà da divertirsi.
Invece il fondo americano Kkr non può temere il futuro: deve solo capire se farà profitti abbondanti o stratosferici con la rete telefonica comprata da Tim sborsando una cifra – che L’Espresso ha verificato con autorevoli fonti – da saldi di vecchia stagione. A luglio è giunta al traguardo una operazione finanziaria destinata a fare scuola nei manuali del perfetto “fondista”. Il gruppo Tim, primo azionista disarmato Vivendi (23,75 per cento), secondo azionista silente Cassa Depositi e Prestiti (9,81 per cento), amministratore delegato Pietro Labriola, ha ceduto la rete primaria in rame e la sua quota di maggioranza in Fibercop. Così è venuta alla luce Fibercop Newco che dovrebbe cablare con le connessioni veloci l’Italia. Non proprio l’Italia montagne e periferie incluse poiché esiste ancora, respirando a fatica, la pubblica Open Fiber. Questo è un altro discorso, e lo mettiamo da parte. Fibercop Newco presenta un elenco soci parecchio affollato: 37,8 per cento riconducibili a Kkr; 17,5 per cento a un fondo pensionistico canadese; 17,5 per cento agli emiratini di Adia; 16 per cento al ministero del Tesoro; 11,2 per cento al fondo infrastrutturale italiano F2i. Questa operazione finanziaria destinata a fare scuola nei manuali del perfetto “fondista”, da leggere d’un fiato, e da ripetere, difatti lo riscriviamo, al fondo americano Kkr è costata in denaro (cash) 2,4 miliardi di euro. Perché il contratto da 18,8 miliardi è diviso in 8,8 di debito ereditato da Tim (il senso di tutto), 10 miliardi di capitale (equity), più o meno l’equivalente del valore attualizzato di Fibercop (9,748 miliardi). Siccome il fondo Kkr deteneva già il 37,5 per cento di Fibercop, pagato 1,8 miliardi di euro appena tre anni fa col contributo di mezzo miliardo degli emiratini di Adia, per accaparrarsi la rete di Tim e con dentro Fibercop ci ha messo la differenza di circa 2,4 miliardi di euro. Con meno di 4 miliardi – 1,3 tre anni fa e 2,4 adesso – gli americani di Kkr hanno la maggioranza relativa della rete telefonica italiana. E lo Stato ha recuperato chissà dove e chissà come 1,6 miliardi per non rimanere fuori. Kkr ha comprato a prezzi di saldo un bene di alto pregio com’è illustrato nelle perizie e come ha spiegato Carlo Di Foggia sul Fatto Quotidiano.
Alcuni parametri sono sorprendenti. Fibercop Newco sarà legata a un accordo di fornitura a Tim fino al 2039 e la stessa Tim, che ha venduto l’altro ieri, sarà il primo cliente con circa 2 miliardi annui. I ricavi di Fibercop Newco, per la perizia depositata, potranno oscillare dai 4,1 miliardi nel 2024 e nel 2025 ai 4,5 miliardi nel 2038 e nel 2039, ma il margine operativo lordo passerà dal 46 al 61 per cento con una crescita esponenziale dal 2029 in poi. Perché in quattro o cinque anni Fibercop Newco sarà chiamata a investire sostituendo la rete in rame con quella in fibra, e sarà pure supportata da 1,6 miliardi di euro di Pnrr, inoltre dovrà retribuire 20.000 dipendenti. Superata questa fase, Fibercop Newco potrà tagliare i costi, anche quelli del personale (da 1,078 miliardi oggi a 880 milioni), e godersi i ricavi con dividendi per Kkr da almeno 500 milioni annui. Uno spasso. Con un esito scontato: quando sarà sazio, il fondo Kkr quoterà l’azienda in Borsa e lascerà la guida allo Stato che, al solito, dovrà pagare caro ciò che era suo. Cattiva sorte è toccata agli australiani di Macquarie. Proprio mentre gli americani di Kkr scelsero di accompagnare la nascita di Fibercop, gli australiani strapagarono 2,2 miliardi il 40 per cento di Open Fiber, conservato in cantina da Enel. Non un azzardo, ma una disamina scorretta: c’è Cassa Depositi e Prestiti, c’è lo Stato, non può andare male. Sta andando malissimo: Open Fiber doveva coprire le zone bianche e grige e ha coperto quelle nere, le più densamente popolate, e si ritrova con un debito di 5,5 miliardi di euro, numerosi investimenti da completare e 582 milioni di ricavi, 292 milioni di perdite.
L’invocazione ai fondi deriva da un assunto sbagliato: l’Italia è squattrinata e deve ricorrere al credito in questo modo. Non è vero. Il credito, quando serve, lo si trova sul mercato. Al contrario, caso unico, in Italia i fondi vengono utilizzati in settori strategici dove la presenza dello Stato è conveniente e inevitabile. (Ottima eccezione il piano del Tesoro, invece, di acquistare da Tim i cavi sottomarini per le comunicazioni di Sparkle con a fianco, in minoranza, il fondo spagnolo Asterion).
I governi di Roma, al plurale, hanno fatto accomodare i fondi stranieri nelle infrastrutture –telefoniche, autostradali, aeroportuali, pagamenti digitali – per risolvere annose questioni che non sanno risolvere. Come per Tim. C’è una carenza di competenze, non soltanto di denaro. I fondi “catturano” anche le competenze: si racconta di offerte a dirigenti di aziende pubbliche o partecipate con stipendi raddoppiati e liquidazioni milionarie dopo quattro o cinque anni. Non dite che l’Italia è in vendita. Così è in svendita.