Il paradosso giudiziario di Enzo Pilò, imprenditore sociale pugliese. Ha puntato l’indice sulle anomalie di alcuni gestione di alcuni centri ed è finito indagato per due disservizi

Negli ultimi anni del sistema di accoglienza straordinario per richiedenti asilo di Taranto si è interessata più volte la Guardia di finanza e, in un caso, anche la Procura distrettuale antimafia di Lecce. I magistrati hanno evidenziato che una cooperativa che gestiva gli appalti per conto della Prefettura era in affari con esponenti storici del clan De Vitis-D’Oronzo. Quelle inchieste si sono concluse poi con un nulla di fatto. Tuttora, tra le cooperative che si sono aggiudicate l’ultima «procedura negoziata di gara per l’affidamento del servizio di accoglienza a favore dei richiedenti asilo», compare una società riconducibile, di fatto, a un uomo arrestato in passato per usura ed estorsione, come rivela una fonte interna alla Prefettura di Taranto. La fonte si riferisce a Daniele Sessa, figlio dell’ex prefetto di Avellino e Taranto, Carlo Sessa, condannato in via definitiva a quattro anni di reclusione per usura (assolto dall’estorsione) e che oggi con la cooperativa sociale Ripro gestisce un centro di accoglienza straordinario a Massafra, Comune del Tarantino. Un particolare, questo, che forse conferma il dato riportato per la provincia pugliese dall’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia: «Nel contesto territoriale si riscontra la cristallizzata presenza di alcuni elementi criminali che dimostrano in modo particolare aspirazioni imprenditoriali finalizzate all’infiltrazione nel tessuto economico e sociale».

 

Ma proprio nella «città dei due mari» si sta svolgendo un processo nei confronti di un imprenditore sociale che le ombre su quel sistema di accoglienza le ha denunciate da anni. Enzo Pilò – un passato da dirigente di Rifondazione Comunista, alla guida dell’associazione Babele – è accusato dalla Procura di Taranto di frode nelle pubbliche forniture. Un’accusa che brucia e un paradosso dal momento che l’associazione che tuttora presiede rappresenta un raro fiore all’occhiello nel sistema di accoglienza italiano, caratterizzato dall’affollarsi di cooperative di dubbia fama che fanno incetta di appalti.

 

«Siamo usciti dal sistema straordinario, ma la riforma avviata dal decreto Minniti ha diminuito i servizi erogati e scelto un modello di contenimento e controllo dei richiedenti asilo poco trasparente e per nulla orientato a garantirne l’autonomia», dice Pilò.

 

Il processo che lo riguarda verte su due episodi. Il primo riguarda la giornata in cui sette richiedenti asilo non avrebbero usufruito di un pasto. In realtà si trattò solo di un ritardo dal momento che, come hanno confermato i testimoni stranieri ospiti della struttura, il cibo fu poi regolarmente consegnato. Il secondo episodio si riferisce alla mancata fornitura di acqua a causa di un guasto idraulico nel centro. Anche in questo caso, però, la situazione fu risolta con la fornitura assicurata dalle autobotti. L’imprenditore si chiede: «Se le carenze evidenziate fossero state così rilevanti, per quale motivo la Prefettura e la Asl non hanno provveduto immediatamente alla chiusura della struttura? Anzi, ci hanno obbligato a fare alloggiare i migranti lì fino alla metà del 2018. La verità è che in vent’anni di lavoro non ho mai ricevuto una contestazione, prima di queste due vicende».

 

Babele, con uno sforzo teso alle attività di inclusione sociale, gestisce i tre piccoli centri Sprar di Carosino, Grottaglie e San Marzano. I bilanci degli ultimi 10 anni, pubblicati in Rete, raccontano una gestione trasparente, confermata da decine di testimoni: richiedenti asilo ospiti dei centri, dipendenti, funzionari dell’ufficio immigrazione di Taranto e della Prefettura, sindaci dei Comuni dove l’associazione opera. Per molti quella nei confronti di Enzo Pilò è una «persecuzione giudiziaria» che richiama la storia che ha avuto per protagonista, suo malgrado, il sindaco di Riace, e neo-europarlamentare, Mimmo Lucano.

 

Su una delle battaglie per la trasparenza del sistema di accoglienza condotte da Pilò, quella relativa all’hotspot che dal 2016 ha sede a Taranto, si è pronunciata il 16 novembre scorso la Corte europea dei Diritti dell’Uomo che ha condannato il governo italiano. La sentenza, chiarisce l’avvocato Gianluca Vitale che ha curato il ricorso alla Cedu punta l’indice «oltre che sui trattamenti inumani e degradanti a cui sono state sottoposte le persone migranti, rastrellate dalla città di Ventimiglia e condotte in bus nella città pugliese, anche sulle carenze igieniche e sanitarie riscontrate nei capannoni dell’hotspot. Lì, le persone trattenute hanno avuto accesso a poco cibo e a poca acqua». E il paradosso delle accuse mosse a Pilò raddoppia.