Inchiesta
Così stiamo abbandonando i migranti alla violenza della Libia
Tra poco dovrebbe entrare in funzione il Centro di Tripoli che coordinerà i soccorsi in mare. Nonostante i rilievi dell’Unione europea. E le denunce delle organizzazioni umanitarie
Entro la fine di ottobre, la Guardia costiera libica promette di rendere operativo il sistema attraverso cui potrà gestire in autonomia tutti i soccorsi che avvengono nell’area di Mediterraneo di cui è responsabile di fronte all’autorità marittima delle Nazioni Unite, l’Imo.
Il percorso per costruire il Centro di coordinamento per la ricerca e il soccorso in mare (Mrcc) a Tripoli è cominciato nel 2017 con un finanziamento complessivo di circa 60 milioni di euro. Il progetto, il cui acronimo è Sibmmil, ha l’obiettivo di costruire un sistema per gestire le frontiere di terra e di mare in Libia. Capofila è il ministero dell’Interno italiano che a febbraio 2017 ha firmato il Memorandum d’intesa con la Libia. Da allora, grazie all’aiuto dell’Italia, la Libia ha prima dichiarato, nel 2018, una Srr, regione di ricerca e soccorso, ovvero una parte di mare per la quale è prima (ma non esclusiva) responsabile per il salvataggio di qualunque imbarcazione in difficoltà, e poi ha costruito una flotta che solo per la Guardia costiera conta otto navi. I fondi complessivi per gestire i confini libici di mare e di terra, solo dall’Italia, ammontano a circa125 milioni di euro tra il 2017 e il 2022, secondo quanto calcolato da IrpiMedia e ActionAid per l’osservatorio The Big Wall.
Un progetto cominciato con Minniti
La consegna dell’Mrcc di Tripoli segnerà la completa legittimazione della Guardia costiera libica nel contesto di chi gestisce le operazioni di salvataggio dei migranti e inserisce Tripoli in un sistema di scambio di informazioni «alla pari» con gli altri Mrcc affacciati sul Mediterraneo centrale.
Eppure le relazioni tra Unione europea e Guardia costiera libica continuano a essere complicate: a gennaio 2022 la missione della Marina militare europea Irini, tra le responsabili della formazione della Guardia costiera libica e del pattugliamento delle acque antistanti il Paese in cerca di armi e prodotti petroliferi di contrabbando, scriveva in un report che riconosceva «un uso eccessivo della forza» da parte delle autorità libiche, aggiungendo che il percorso di formazione della Guardia costiera «non è più pienamente svolto (followed)», riporta Ap. La seconda puntata della saga a marzo dell’anno scorso: in una conferenza stampa un portavoce della Commissione europea ammette che fino a ora, l’addestramento della Guardia costiera «non è stato preso in considerazione da parte libica», come ha riferito Euractiv.
Il progetto dell’Mrcc libico è cominciato anni fa. «L’Europa costruirà un centro di coordinamento per il soccorso marittimo a Tripoli», diceva già nel 2017 l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti in un’informativa urgente al Parlamento. Lo definiva «uno strumento fondamentale, decisivo per poter affrontare lì il tema dei flussi migratori». Nell’idea di Minniti, partendo dalla blindatura delle frontiere si sarebbe stabilizzata la Libia. La sua narrazione oggi è adottata dal governo di Tripoli, che avrebbe dovuto essere ad interim e invece dura in carica dal 2021. Il Paese, nei fatti, è ancora una polveriera: l’Ovest è frammentato (la città di Zawiya, per esempio, è fuori dal controllo del governo di Tripoli), l’Est è unificato a forza dal generale Khalifa Haftar sostenuto soprattutto dagli alleati russi, il Sud è un luogo dove non esiste autorità.
Le due Libie
Anche i progressi della Guardia costiera dall’inizio del processo della sua creazione sono da rivedere. Secondo i libici, nel 2024 le operazioni di salvataggio hanno coinvolto oltre 9.300 migranti. Nel 2017 la stessa cifra. Il Paese, sulla carta, è attrezzato per gestire le operazioni di soccorso e alla fine dell’estate attende una visita dell’Imo per la verifica delle caratteristiche idonee al coordinamento di una zona di salvataggio (Sar), ma è dal 2021 che si attende la costituzione del Mrcc, che ogni volta per motivi di conflitti interni viene posticipata.
Bisogna anche vedere se con la creazione dell’Mrcc i libici agiranno sia in Tripolitania sia in Cirenaica. Il 17 luglio scorso, giorno della visita di capi di Stato e di governo durante il Forum transmediterraneo sulla migrazione, Esercito nazionale libico (fedele ad Haftar) e forze del governo di Tripoli si sono mostrate unite. Ma sembra una messa in scena per gli europei, perché in circostanze più informali, un ufficiale confessa che parlare con le autorità che si trovano nell’Est libico «è complicato». Le Libie sono due.
Troppi irregolari
Prima del Forum, il ministro dell’Interno libico Imad Trabelsi ha diffuso su vari media delle stime sul numero di migranti irregolari nel territorio libico, dai 2,5 ai 3 milioni (l’Organizzazione internazionale delle Migrazioni, l’Oim, ne conta 725 mila nel report di maggio 2024). Ad alcuni giornalisti della stampa internazionale ha detto che «l’Europa deve farsene carico e non trattare la Libia come un Paese di transito». E questo è stato l’unico vero obiettivo del vertice, a cui come leader europei hanno partecipato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni (assieme al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi), il premier maltese Robert Abela e il vicecommissario europeo Margaritis Schinas: dimostrare di essere un Paese sicuro e lanciare un allarme visto che nel 2024 la Libia è tornata il primo porto di partenza di chi si dirige in Europa. A margine della conferenza stampa di fine Forum, a una domanda in merito a quanto chiedesse la Libia all’Europa per far fronte all’emergenza, la risposta del ministro per la Comunicazione e gli Affari politici di Tripoli Walid Al-Lafi è stata questa: «Non è una questione di soldi, vogliamo sederci a discutere con l’Europa». Per dati più concreti rilancia al prossimo vertice di ottobre. La ricetta sembra però sempre la solita: fermare le migrazioni combattendo le «cause profonde», cioè la povertà, con investimenti a lungo termine. Un falso mito: ad alimentare la popolazione di migranti irregolari in Libia, infatti, sono principalmente le guerre, come quella in corso in Sudan.
Minacce da un Paese non sicuro
Tra i poteri che avrà sulla carta l’Mrcc di Tripoli, uno dei più importanti sarà indicare a chi è coinvolto nelle operazioni di salvataggio quale sia il «place of safety». Non esiste una lista di quali siano i luoghi “autorizzati” perché il criterio è soggetto a interpretazioni diverse. Per il caso dell’Italia, la Libia non è un Paese sicuro, come ha deciso la Cassazione con la decisione sul caso Asso Ventotto, risalente al 2018. La nave che opera nelle piattaforme Eni antistanti le acque libiche era intervenuta nella zona Sar libica per salvare e riportare a Tripoli 101 migranti. La pratica, dice la Cassazione, infrange il Codice della navigazione in tema di «abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci, e di sbarco e abbandono arbitrario di persone». Era stata la Guardia costiera libica a gestire l’operazione. «Asso Ventotto ha un permesso di lavoro in Libia e se non l’avesse fatto, permesso di lavoro cancellato», spiega un ufficiale della Guardia costiera libica. In altre parole, Asso Ventotto secondo i libici era sotto ricatto.
Nessuna risposta
Alla domanda su «come funziona il coordinamento con la Guardia costiera libica», la ong Sos Méditerranée spiega sul proprio sito che quando ci sono naufragi resta in contatto con qualunque autorità competente (anche se non sbarcherà mai a Tripoli), ma contattare quelle libiche «è il più delle volte vano». Finora le mancate comunicazioni erano con il Jrcc, ovvero un centro di coordinamento misto utilizzato sia da civili sia da militari, con sede vicino a piazza dei Martiri, il centro di Tripoli. «Credo che nulla cambierà», spiega Valeria Taurino, direttrice di Sos Méditerranée Italia. Definisce la situazione di oggi con la Libia «disastrosa»: «Nel momento in cui le autorità libiche non rispondono teniamo in copia tutti in ogni comunicazione per coordinare l’intervento». E alla fine è spesso l’Mrcc di Roma a gestire le operazioni. «Con l’Mrcc a Tripoli, l’Italia si sentirà meno responsabilizzata?», si chiede Taurino: «Voglio sperare di no».
Di certo il disegno perseguito è lo stesso cominciato da Minniti nel 2017. Alle critiche sulle modalità di intervento dei guardacoste di Tripoli, la risposta sono stati i programmi per la loro formazione. Con risultati ancora pessimi: «Le modalità di intervento sono sempre le stesse – rileva Taurino – aggressività, scorrettezza nelle informazioni che danno, operazioni che si concludono con delle intercettazioni: non cambia mai niente». Eppure sono sette anni che l’Europa cerca di affidare loro un pezzo di responsabilità sul Mediterraneo meridionale