Ci sono voluti mesi per recuperare tutti i resti, di pochi si è riusciti a risalire all’identità. Il rapporto degli esperti dell'Onu e dell'Oim, di cui L’Espresso è venuto in possesso, rivela questo e molto altro sulla scoperta delle sepolture di massa nel Paese nordafricano

Ci sono voluti mesi per recuperare tutti i resti, di pochi si è riusciti a risalire all’identità. Erano migranti. Il rapporto degli esperti delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni, di cui L’Espresso è venuto in possesso, rivela questo e molto altro sulla scoperta di alcune fosse comuni in Libia. La prima, con almeno 65 corpi, è stata individuata nel marzo del 2024 nella valle di al-Jahriya, sud-ovest libico, a circa 420 km a sud di Tripoli; l’ultima con 20 cadaveri, lo scorso febbraio a Jakharrah, 400 km a sud della città costiera di Bengasi. Altri 30 sono stati trovati in un sito rinvenuto nel deserto di Alkufra, nel sud-est del Paese. Ma si continua a scavare: si ritiene possa contenere almeno 70 corpi, presumibilmente vittime di trafficanti di esseri umani o di gruppi armati dediti al contrabbando di organi. Molti presentavano ferite di armi da fuoco.

 

La crudezza di queste notizie colpisce non solo per l’intrinseca ferocia, ma anche per ciò che rappresenta in termini pratici: la gestione illegale dei migranti è saldamente nelle mani di organizzazioni criminali senza scrupoli. «Per le statistiche sono solo numeri, per i parenti ogni persona scomparsa o morta rappresenta un dolore che si diffonde all’interno di migliaia di famiglie alla ricerca incessante di risposte sui propri cari. La desertificazione delle speranze di coloro che cercano un futuro migliore ha reso il Sahara un immenso cimitero a cielo aperto» è la considerazione amara di Amelie, “alias” di una funzionaria da anni impegnata nell’Organizzazione mondiale delle migrazioni. Chiede l’anonimato perché far filtrare informazioni su quanto accade in Libia può costare la vita.

 

Eventi denunciati apertamente anche dal segretario generale dell’Onu António Guterres, che lo scorso 11 aprile ha presentato al Consiglio di Sicurezza la relazione annuale sulla “Missione di Sostegno delle Nazioni Unite in Libia”, un report dettagliato sul deterioramento della situazione nel Paese che evidenzia l’intensificarsi delle tensioni armate, la profonda frammentazione politica e l’aumento delle violazioni dei diritti umani.

 

Tra gli episodi più gravi di repressioni nei confronti dei migranti, l’espulsione di massa di oltre 600 persone di nazionalità nigerina, deportate in condizioni disumane con un viaggio nel deserto del Niger, fino alle porte della città di Dirkou, definito “pericoloso e traumatizzante” dalle organizzazioni per i diritti umani: in centinaia stipati su camion, senza acqua né cibo. L’Oim ha denunciato questo episodio definendolo «la più grande deportazione mai avvenuta in Libia».

 

Un’operazione voluta e gestita dalle autorità libiche che tra febbraio e marzo del 2025 hanno avviato innumerevoli violazioni, a testimonianza di una violenza sistematica che sembra inarrestabile. «Quel che è iniziato nei mesi scorsi è qualcosa di nuovo» sostiene Azizou Chehou, dell’organizzazione “Alarm Phone Sahara”, mettendo in luce un’inedita brutalità nei confronti dei migranti. «Questo non è solo un cambio di strategia, ma un profondo passo indietro in materia di diritti umani, un insulto a quella dignità che dovrebbe essere garantita a ogni individuo. Alla base di queste tragedie vi è una strategia di esternalizzazione delle frontiere dell’Unione Europea» conclude Chehou.

 

In particolare l’Italia, attraverso il Piano Mattei, ha stretto accordi con Libia e Tunisia per limitare i flussi migratori verso l’Europa. Dietro queste politiche, si cela la volontà di evitare le scene degli sbarchi sulle coste italiane. Il tutto a fronte di un cinico silenzio rispetto alle sofferenze inflitte a questi esseri umani. «La politica di frontiera dell’Europa ormai è messa a nudo. L’Ue paga per cancellare i migranti, rendendo invisibile la sofferenza» denuncia David Yambio, portavoce dell’organizzazione non-profit Refugees in Libya.

 

Parole che risuonano come un potente atto d’accusa, evidenziando una logica che pone i costi della sicurezza oltre i diritti umani. Mentre Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, riporta una diminuzione degli sbarchi nel Mediterraneo del 59 per cento, quel “calo” non racconta l’intera verità.

 

Ogni vita non salvata in mare si aggiunge al tragico bilancio dei morti del deserto. Tanto il Sahara, quanto le politiche europee non fanno distinzioni: uomini, donne e bambini continuano a scomparire, cancellati dall’indifferenza. «La politica di esternalizzazione delle frontiere non è una novità, ma sta diventando una macchina sempre più efficiente nel realizzare muri invisibili» conferma la funzionaria dell’Om.

 

Che l’Unione Europea finanzi governi che non solo non rispettano i diritti umani, ma attuano torture e violenze, è stato accertato sia da organismi internazionali, come le Nazioni Unite, che da innumerevoli Ong. Le deportazioni sono ormai parte di una strategia di gestione dei flussi migratori, in cui le vite umane e le loro storie diventano merce di scambio.

 

Dirkou, oggi, non è solo una città nel deserto. È il simbolo di un fallimento collettivo, il testimone di un’era in cui i corpi diventano statistiche e i sogni illusioni spazzate via da politiche disumane. Fino a quando queste misure non verranno riviste, il Sahara continuerà a seppellire corpi e silenzi. Un monito della disumanità di un sistema che usa il deserto come sacco dell’umido. Le parole di chi vive il dramma delle migrazioni rimangono sospese nell’aria: è necessario ricordare che dietro ogni numero, ogni deportazione e ogni corpo dimenticato, c’è una vita, una storia, un sogno infranto.

 

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