Inchieste
16 ottobre, 2025Condizioni disumane, orari insostenibili, lavoratori costretti a mangiare il cibo dei maiali. Nel settore della pastorizia, i maltrattamenti sono frequenti e spesso ignorati
Tra le colline toscane, l’azienda agricola dove lavora Andrei (nome di fantasia) è recintata e circondata da videocamere di sorveglianza. Ogni mattina intorno alle 5:30, Andrei esce dal container dove dorme per occuparsi del gregge di pecore e dei maiali fino alle otto di sera. Sette giorni su sette, senza pause, nemmeno per il pranzo. Lavora 64 giornate totali pagate 500 euro in contanti per una media di 98 ore lavorative a settimana. Per lui è l’ennesimo episodio di sfruttamento: nel 2022 sfugge ai maltrattamenti di un altro allevatore in Toscana e inizia a lavorare per un pastore. Ma «quando le sue condizioni di salute si aggravano, lo cede. Così senza trattativa, senza contratto, senza consenso», spiega il suo avvocato. «Non era nemmeno a conoscenza del nome dell’azienda, di chi fosse la gestione o dove lo stessero trasferendo». Andrei viene così consegnato ai suoi nuovi aguzzini.
Dopo due mesi riesce a chiedere aiuto a una parente in Romania, nonostante il datore di lavoro gli abbia precedentemente fatto cancellare tutti i numeri dalla memoria del telefono. «Non resisto più, ho chiesto di darmi qualche soldo per mangiare e mi stava per menare, ho caricato dieci rimorchi con la carriola, ho l’ernia». Queste sono le parole riportate nella sentenza di primo grado che a giugno 2025 ha condannato uno dei membri della famiglia titolare dell’azienda per concorso nello sfruttamento lavorativo di manodopera in stato di bisogno. Dalla sentenza emergono le condizioni di vita degradanti a cui Andrei è stato sottoposto – come il fatto che fosse costretto a mangiare il cibo dei cani e dei maiali – e le minacce ripetute dai titolari dell’azienda che «non avrebbero trovato mai pace fino a quando un rumeno non fosse morto all’interno della loro abitazione».
Un caso estremo che racconta di un fenomeno diffuso su tutto il territorio italiano. Nella sede di Cagliari del progetto Elen Joy, parte della rete antitratta nazionale la coordinatrice, Francesca Pitzalis, e la responsabile dell’area emersione e contatto, Valentina Sanna, raccontano che i centri di accoglienza stanno diventando un luogo di reclutamento della manodopera straniera. Il passaparola è lo strumento più efficace, sia per trovare lavoro, sia per contattare l’antitratta.
Tra il marzo del 2024 e l’agosto del 2025, Elen Joy ha accolto tre persone vittime di grave sfruttamento nella pastorizia: Amin, dal Camerun, una persona dalla Guinea e una dall’India. «La persona è presente nell’allevamento 24 ore su 24. Facendo domande scopriamo che la casa dove ci dicono che vivono è in realtà una baracca, senza riscaldamento, e magari non ha il bagno. A volte è costruita con l’eternit di scarto». Sanna specifica che è nei “luoghi di vita”, dove si recano dopo il lavoro per svago, che si possono intercettare le persone vulnerabili e informarle del progetto. Ma per la pastorizia, l’isolamento è in assoluto ciò che rende più complesso identificare i casi. Le persone non sono autonome nello spostarsi dal campo del pastore, spesso non hanno un telefono funzionante, il che rende quasi impossibile l’emersione dello sfruttamento.
Dalla porta della sede del progetto, qualche ora dopo arriva Amin. Ha 26 anni, viene dal Camerun e parla francese. Un giorno del 2023 ha chiesto a un ragazzo per strada se sapeva dove potesse trovare lavoro. È finito nelle campagne vicino a Nuoro, a dormire in una camera senza bagno. Il suo compito era gestire un gregge di un centinaio di pecore del pastore e irrigare le piante di olive. Il lavoro continuava tutto il giorno: dalle 6 del mattino, quando arrivava il pastore, alle 6 di sera, quando tornava. Sempre da solo in 15 ettari di terreno, con un telefono senza scheda telefonica e sotto minaccia: «Mi diceva: se non fai questo, chiamo mio fratello per picchiarti». Amin non poteva uscire, senza documenti e senza mezzi per raggiungere un centro abitato, viveva chiuso tra cani e filo spinato. È durato due mesi: poi ha chiesto di andare via: «Mi ha lasciato alla stazione del pullman, mi ha dato 200 euro e mi ha detto “Vattene”». Degli 800 euro al mese pattuiti, neanche l’ombra.
Per affrontare casi come questo, la Cgil di Cagliari punta sulle vertenze sindacali, mettendo in atto una mediazione tra lavoratore e pastore in modo da garantire almeno che il contratto di lavoro venga rispettato. A causa della difficoltà a muoversi autonomamente, proprio chi è sottopagato si presenta nella sede del sindacato accompagnato dallo stesso pastore che lo sfrutta, spesso per il calcolo della disoccupazione. Funziona così: «Il datore di lavoro ti assume a tempo determinato e vieni pagato come se avessi lavorato in modo saltuario nell’intero arco dell’anno, anche se poi lavori tutti i giorni». Altre volte i lavoratori si presentano per la liquidazione. Ma con ogni probabilità emerge solo una parte del fenomeno. «E non denunciano. Quando il contratto a tempo determinato scade e non ti riassumono, hai perso tutto. Ma siccome si tratta di persone che spesso hanno il permesso di soggiorno per lavoro, è una vera condizione di sfruttamento», dicono dal sindacato.
L’esperta di sviluppo rurale, Erika Sois afferma che «in agricoltura non si generano livelli di reddito tali da poter remunerare in maniera adeguata la risorsa umana». Proprio per questo aspetto nella pastorizia è stato storicamente conveniente ricorrere alla manodopera interna, quindi al nucleo familiare. Ma oggi il ricambio generazionale manca e molte aziende cercano manodopera esterna, soprattutto straniera.
Con l’obiettivo di rafforzare la sostenibilità economica delle zone rurali, la Politica agricola comune (Pac) dell’Unione europea offre contributi diretti e indiretti ad agricoltori e allevatori per un totale di 387 miliardi per il periodo 2021-2027. In Italia questi fondi vengono distribuiti dall’Agenzia Agea sulla base di diversi criteri, tra cui il numero dei capi di bestiame e l’ettaraggio. Il presidente dell’Associazione rurale italiana, Antonio Onorati, spiega però che «se sei piccolo e hai pochi animali, prendi pochi contributi della Pac». La necessità di una presenza costante sul luogo di lavoro e la poca redditività del settore portano a una contraddizione economica: «Per pagare regolarmente un lavoratore a tempo pieno servirebbero circa 250 pecore, ma da solo non è possibile seguirne 250».
Michele Nori, agronomo e ricercatore specializzato in pastorizia, evidenzia poi la criticità nel settore ovi-caprino dell’indicatore legato al numero di ettari, poiché «nella pastorizia estensiva si utilizzano i terreni abbandonati che non hanno un gran valore agricolo e quindi non c’è interesse a essere proprietari». Vengono in tal modo favorite le aziende proprietarie di terreni, che spesso prediligono una forma di allevamento più intensiva a cui consegue una manutenzione minore del territorio. Per questo, secondo Nori «la pastorizia dovrebbe essere remunerata per i servizi che offre, non per i prodotti».
A favorire le grandi aziende, si aggiunge il forte incentivo alla meccanizzazione e innovazione. Un ammodernamento pensato in chiave tecnologica e coperto solo in parte dai contributi della Pac, che agevola le aree più predisposte e le aziende con un capitale necessario ad ottenere un prestito bancario. Per Sois, l’innovazione «è sempre vista in accezione tecnologica. Ma può essere anche fare un formaggio a latte crudo in un mercato saturo di formaggio a latte pastorizzato». Seppur avvantaggiate nella ricezione dei contributi Pac, le grandi aziende non sono immuni a episodi di sfruttamento. Proprio nella consapevolezza che tutto il settore agricolo può essere soggetto al fenomeno, la politica agricola comune 2023-2027 ha introdotto lo strumento della condizionalità sociale, che vincola i sussidi al rispetto delle norme dell’Ue in materia di lavoro.
Con questo dispositivo, le aziende che violano la normativa sul lavoro, possono subire sanzioni, oltre che esclusione e riduzione dei contributi Pac. Le modalità di applicazione però sono a discrezione dei singoli Stati. «In Italia» spiega Onorati, «la condizionalità sociale è praticata attraverso le leggi di lotta al caporalato e non c’è nessun legame tra queste leggi e il ricevimento dei contributi. Quindi», conclude, «non c’è nessuna vera condizionalità che lega i soldi Pac alle modalità con cui i lavoratori vengono trattati».
Questa inchiesta fa parte di un progetto di giornalismo investigativo finanziato dal Journalism Fund
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