Sono una xuniana, ora posso dirlo. E quello che segue è ben più che la cronaca di un inganno sventato: è la ricostruzione di un’affascinante operazione culturale; una geniale dimostrazione di come si costruisce la verità nell’era dell’intelligenza artificiale; una simulazione di come i sistemi di Ia possano diventare coautori di cultura. E un allarme rosso per l’informazione. All’inizio di gennaio ho scritto alla casa editrice Tlon chiedendo un’anticipazione del libro “Ipnocrazia”. Un saggio sui meccanismi del potere nell’era digitale, che più che sull’oppressione puntano sulla manipolazione della realtà e su narrazioni ipnotiche, con Donald Trump ed Elon Musk come nuovi ministri. Mi incuriosiva l’idea di un giovane filosofo di Hong Kong, Jianwei Xun, tradotto dall’editore stesso, il filosofo Andrea Colamedici, e inscritto sulla scia di Jean Baudrillard e di un altro nome irresistibile, Byung-Chul Han. “Ipnocrazia” si annunciava non come l’ennesimo libro sulla postverità. Ma un testo originale su come si governa la “percezione della verità”.
Avevo accettato con riluttanza un dialogo con Xun per email, ma la sera del 9 gennaio ho inviato un messaggio all’ufficio stampa: «Voglio parlare con l’editore». Letto il libro tutto d’un fiato; impigliata in piccole spie linguistiche, qualcosa non quadrava. Non filava la scrittura, con quel fraseggio che sembrava fatto apposta per dimostrare l’enunciato: ipnotizzare. Non mi convinceva quella scansione dei concetti così suggestivi ma anche così reiterati, a intervalli quasi regolari. E cos’erano quel batticuore e la sensazione di trovarmi dentro un sogno guidato, che mi mettevano in guardia? Così, mentre leggevo di nuovi laboratori di potere, di come abitare il limen con consapevolezza sia l’unica resistenza al potere digitale, su quella soglia mi sentivo sbalzata anch’io: su una linea di confine come quella dei Romani, che delimitava il loro territorio da quello dei barbari. Zona più facile da depredare, esposta alle razzie. Ma anche porosa e permeabile, resa ricca dall’incontro di popoli e di culture, di usi e lingue diversi. E quel libro di 124 pagine non stava invitando alla stessa cosa: abitare con consapevolezza - dei rischi, delle possibilità - il futuro?
E poi è arrivato Luther Blissett, che Xun chiamava in causa come protoesempio di trance lucida e critica. Che diamine ci faceva quello pseudonimo collettivo, che ho visto agire da vicino a metà degli anni Novanta, seminando il panico tra i giornali e il mondo dell’arte? Come faceva Xun a sapere persino della trasmissione “Chi l’ha visto?” che aveva ricostruito la storia di un artista inglese, completamente inventata? Ho dato la caccia a Xun. A Sarah Horowitz, l’agente: chi altro rappresentava? Ho incrociato ricerche su Google, ho verificato le informazioni su Wikipedia, ho cercato pubblicazioni su academia.edu. E se veramente il filosofo aveva contribuito alla diffusione del pensiero di Mark Fisher o Félix Guattari, perché non ne trovavo le prove? Il seguito è una telefonata tesa ed emozionata. Un link su WhatsApp. Una mano cliccabile nascosta in una pagina web, un universo invisibile che svelava la verità: «Juanwei Xun non esiste. “Ipnocrazia” nasce come un esperimento sulla costruzione della realtà nell’era digitale. Al centro del progetto c'è un libro che analizza i meccanismi della manipolazione percettiva contemporanea, scritto da un autore inesistente. O quantomeno: inventato. Il libro stesso è una dimostrazione pratica dei meccanismi che analizza».
Colamedici, un inganno, una beffa, dentro cosa mi ha trascinato quella sera?
«Non ho mai voluto costruire un falso, né mettere in atto una beffa per dimostrare che i giornali non sono in grado di controllare le informazioni. Mi interessava una performance narrativa con cui costruire la stessa realtà che il libro analizzava teoricamente: realizzare un ecosistema narrativo che permettesse alle persone di mettere subito alla prova i concetti che leggevano. Volevo un libro che funzionasse come supporto tecnico ma anche come strumento pratico, analisi e dimostrazione. Mi chiedevo: in che modo posso raccontare qualcosa per cui ancora non c’è il nome, e costruire da zero tutto? Oggi possiamo inventare nuovi modi di fare filosofia. Uno è quello di far vivere un’esperienza; un altro è co-creare assieme all’intelligenza artificiale».
E dunque, se Xun non esiste, chi ha scritto il libro?
«Non si può dire nettamente chi ha scritto cosa: io ho elaborato un percorso in vari passaggi a partire dalle parole. La mia riflessione è cominciata da un’analisi di Nadia Urbinati su Domani che diceva: Trump sta catalizzando qualcosa di nuovo, però non abbiamo ancora il nome col quale chiamarlo. Ho ragionato; insieme alla piattaforma di intelligenza artificiale Claude ho costruito la parola e un progetto, un altro progetto l’ho costruito in ChatGPT. Li ho messi in dialogo tra loro e ho sviluppato una modalità di cocreazione con l’intelligenza artificiale. Io insegno Prompt Thinking all’Istituto Europeo di design di Roma, alla 24Ore Business School e ho un assegno di ricerca in Intelligenza artificiale e Sistemi di pensiero all’Università di Foggia. Noto di continuo che la maggior parte delle persone usa gli strumenti di Ia delegando l’esercizio del pensiero. È orribile: perché se invece l’intelligenza artificiale è usata bene è un ottimo strumento per imparare a pensare. Tutto è nato da qui, dalla costruzione di un concetto, poi di una teoria, e da lì l’idea del libro».
“Ipnocrazia” è un esperimento di costruzione narrativa per un progetto accademico di ricerca. Però, sin dall’uscita, il 15 gennaio, si è mosso con le dinamiche di un libro vero, e di successo: tre ristampe in due mesi, tra i primi venti saggi più venduti, recensito e citato dappertutto. Nonostante le trappole seminate qua e là.
«Ho disseminato, come ha notato, il libro di cose stranianti, briciole come in Hӓnsel e Gretel. Una parte dello spaesamento provato è dettato dalla ricorsività, una struttura intrinseca alla produzione dell'intelligenza artificiale, che spesso ritorna sui concetti. Ma tornare sugli stessi concetti voleva dire aumentarne la complessità. Ho inserito un pezzo riscritto di Hegel, che in realtà è una reinterpretazione che passa da Marx; ho messo dentro un pezzo di Borges; ho lasciato tracce divertenti. Come un finto esperimento».
Per prima cosa ha nutrito l’intelligenza artificiale di testi?
«Prima ho costruito i concetti. Poi ho detto: “Adesso raccontiamo questa storia”, sapendo che servivano da una parte parole nuove, dall’altra forme nuove per accogliere concetti novecenteschi. Il lavoro non è stato quello di copiare il pensiero di qualcuno, non mi interessava, ma vedere in che maniera potevo co-creare con un altro ente che mi mettesse nelle condizioni non di impigrirmi, ma di desiderare di andare a fondo. Ho creato il contesto, l’ecosistema, l’ho affinato, ho capito che volevo occuparmi di qualcosa di utile. Ho pensato ai miei studenti, disperati quando arrivano all’università: non c’è niente di peggio che avere tra le mani uno strumento che potenzialmente può dirti tutto ma a cui non sai chiedere le cose».
E a quel punto ha caricato contenuti e riflessioni.
«Sì, testi di Byung-Chul Han, di Jean Baudrillard, di Guy Debord, nomi che probabilmente ne hanno decretato il successo in Francia: Xun ha beccato un lignaggio. Si è posto alla fine di un’eredità».
La Francia è impazzita per Xun: il lemma “hypnocratie” è entrato su Wikipedia. E quando la rivista di geopolitica Le Grand Continent ha tradotto un suo testo, Le Figaro lo ha intervistato, Gallimard ha chiesto i diritti del libro, L’Opinion ha scritto che persino Macron aveva apprezzato.
«Sì, in Francia la cosa ha assunto una dimensione importante. In pochi giorni eravamo pieni di richieste di traduzione».
Sarah Horowitz, intende...
«Sì. Anche l’agente di Xun rispondeva alle linee guida che mi ero dato: creare qualcosa di solido alla vista, ma malleabile, che potesse franare a uno sguardo ulteriore».
Il libro esce in Francia per Philosophie il 4 aprile con una postfazione sul senso dell’operazione. In Spagna sarà pubblicato da Editorial Rosamerón il 20, e già la parola “hipnocracia” circola: su La Vanguardia, su El Pais. Come se lo spiega?
«Lo smarrimento in cui ci troviamo ha aiutato a rendere più pervasivo il concetto di “ipnocrazia”. Siamo in cerca di parole, che ci aiutino a orientarci nel caos».
E “ipnocrazia” è suggestiva e potente.
«Lo è di suo. Ma a volte abbiamo proprio bisogno di parole nuove per raccontare stati d’animo e momenti storici. Perché ci smarriamo. Le parole possono fungere o da scalini o da maniglie a cui aggrapparsi. Di fronte alle dichiarazioni di Trump, ai gesti di Musk, a quella parola ci si è aggrappati. I concetti collegati aiutano a comprendere».
A cosa si riferisce?
«Ai concetti di trans-algoritmica, di hedging, di sovranità anche percettiva: al fatto che viviamo in una sovraproduzione di realtà e quindi l’idea di fare fact-checking alle tesi di Musk o di Trump serve a poco. Tu smonti i fatti tuoi, non puoi smontare quelli di una realtà diversa. Viviamo in un regime che manipola la percezione».
E che Trump, e i suoi tecnoplutocrati, rendono plateale.
«Spaventano. La mia intenzione è stata quella di fornire strumenti per capire. Ho messo insieme i miei studi su Steve Bannon, lo stesso Bannon che racconta l’urgenza di “flooding the zone with shit”, allagare la zona con la merda. Da editore ho pubblicato un libro molto interessante, “La stella nera. Magia e potere nell’era di Trump” di Gery Luckman. Era il mio pensiero fisso: come interpretare ciò che sta accadendo attraverso la filosofia. E mettere in guardia le persone su che cosa può fare l’intelligenza artificiale».
In guardia da cosa?
«L’intelligenza artificiale per me è il corrispettivo di ciò che per Platone era la scrittura, cioè un pharmakon, contemporaneamente cura e veleno. Questa idea per me è importantissima, l’ho anche scritta nel libro “L’alba dei nuovi dei”. Così come per Platone la scrittura causava in realtà non un aumento della memoria, ma un indebolimento della memoria, e non rendeva più sapienti ma più stolti, eppure la usava - e la usava per pagine che sono tra le più belle mai scritte nella storia della letteratura, non solo della filosofia - allo stesso modo dobbiamo imparare a usare bene l’intelligenza artificiale. Io l’ho fatto per scopi accademici. Ma c’è chi può usarla a scapito della nostra libertà».
È soddisfatto del lavoro di Xun?
«Molto. Della qualità del libro e della portata inimmaginabile che ha raggiunto».
Colamedici come Rabbi Loew.
«Il Golem, la sensazione era quella. All’inizio volevo solo fare un esperimento, pensavo che avrei riportato i risultati nel mio lavoro scientifico. Poi ho cominciato a vedere che questo testo suscitava cose incredibili».
Me ne racconti una.
«Un collettivo di artisti aveva prodotto un messaggio contro Sora, l’Ia text-to-video di OpenAI. Lamentavano di essere sfruttati e di lavorare gratis. Una persona che aveva letto il libro ha chiesto a Xun un commento. Che è on line, insieme alle riflessioni di grandi intellettuali. Xun è partito subito in compagnia di alcuni dei più importanti studiosi di Ia, che commentavano il suo scritto, dicendo che era straordinario».
Amy Karle, artista che lavora sul rapporto tra tecnologia e umanità, ha scritto: “Sofisticata meta-analisi della resistenza, eccellente inquadramento filosofico. Forse un po’ troppo accademico?”. E poi i giornali, tanti.
«Il Foglio, l’Huffington Post, Milano Finanza, Artribune, MowMag, Nazione Indiana, newsletter di giornalisti...».
Il suo è un esperimento da studioso. Ma costringe il sistema dell’informazione all’autocritica. Nessuno ha chiesto di conoscere Xun? Nessuno ha dubitato della sua faccia, creata a partire da un umano con “Consistent Character”?
«È vero, per quanto il mio scopo non sia stato quello di mostrare la debolezza del giornalismo, la fragilità del meccanismo dell'informazione si è resa palese. Lei è stata l’unica che si è resa conto, ha voluto sapere di più, mi ha voluto chiamare. Devo riconoscere che Pino Corrias sul Fatto Quotidiano ha fatto grandi lodi al libro e ha ipotizzato che dietro potesse esserci un gruppo di autori, ma non lo ha ritenuto un problema. È stato interessante che si riconoscesse la validità dell’idea, a prescindere dall’autore. Felice Cimatti su Doppiozero ha scoperto che l’esperimento di Berlino era un falso: e mi è piaciuto moltissimo, perché per me quel caso riportato come esempio di costruzione della realtà, dove tutto era falso, era la migliore mise en abyme, la traccia più forte che con un minimo di curiosità potevi verificare. Ma ha creduto all’esistenza di Xun: anzi proprio il finto esperimento è stato ritenuto un modo per chiedere al lettore di non fidarsi neanche degli autori e delle loro tesi».
Significa qualcosa il nome Xun?
«Xun significa “cercare”, ma anche “velocità” e “informazione”».
Il suo libro è una gran bella performance.
«Sono anni che ci rifletto, ho pubblicato anche “La società della performance”. Ma la performance è qualcosa che si deve imparare a fare o lo scadimento è inevitabile. Se è di qualità, nasce da un’esigenza reale e incontra un’esigenza reale, è una soglia che stai creando, un’opportunità nuova».
Chi ha condiviso con lei quest’avventura?
«Maura Gancitano dall’inizio, mi ha aiutato anche dal punto di vista teorico. L’unica giornalista è stata lei, ma ci sono alcuni docenti e studiosi a cui ho rivelato la cosa. Gli xuniani della prima ora sono Giorgiomaria Cornelio, Alessandro Fusacchia, Francesco Marino e Nicola Zamperini».
Molti festival hanno invitato Xun. E ora?
«Adesso dovrò rispondere. Qualcuno mi aveva proposto di portare avanti l’esperimento. Ma ho avuto la sensazione che potesse diventare una cosa disonesta, rischiava di abusare del tempo e della cura di tante persone, mi sembrava di entrare in un inganno che non faceva per me».
Cosa si aspetta adesso che il mistero Xun, nome collettivo di intelligenze umane e artificiali, è svelato?
«Che ne nasca una riflessione pubblica. Ragioniamo sui rischi e sulle opportunità dell’intelligenza artificiale e su quanto siamo disposti a credere a teorie che provengono da una cocreazione. Riflettiamo su quanto ci sentiamo traditi all’idea di aver creduto in qualcuno in carne e ossa oppure quanto ci sentiamo affascinati. Questo è tutto da scoprire».