La Fondazione Corrado Alvaro ha due record. Il suo cda è il primo di un ente culturale a essere sciolto per mafia. E il provvedimento del prefetto di Reggio Calabria, Clara Vaccaro, è il numero quattrocento nell’elenco dei commissariamenti per infiltrazioni del crimine organizzato da quando è stata varata la legge.
Meridionalista e antifascista nato a San Luca d’Aspromonte, Corrado Alvaro non avrebbe potuto festeggiare peggio i 130 anni dalla nascita. Il 15 aprile 2025 allo scrittore calabrese sono state dedicate ben due commemorazioni. Non era un eccesso di affetto ma il segno di una spaccatura fra la componente istituzionale e l’altra che contesta il commissariamento ordinato il 21 marzo 2025. La contro-manifestazione è stata guidata da Tonino Perna, vicepresidente sciolto della Fondazione e profondo conoscitore dei luoghi per gli anni passati alla guida del Parco nazionale dell’Aspromonte. Fra i presenti c’era il presidente della Fondazione, Aldo Maria Morace, ordinario di Letteratura all’Università di Sassari. A lui la relazione prefettizia dedica un passaggio contorto, ma velenoso. «Il Prof. Morace riferisce: “Il sottoscritto presidente, concordemente ritenuto il massimo studioso di Alvaro, ha pubblicato sull’autore 16 saggi e 12 volumi”. Non si comprende come un’attività che appare riferibile esclusivamente all’opera del suo autore, in quanto letterato, debba essere considerata un’iniziativa della Fondazione volta al perseguimento del suo scopo».
Fra i contro-manifestanti, in disparte addossato a un muro, si è visto Mimmo Lucano, eletto al Parlamento europeo l’anno scorso e rieletto al Comune di Riace nonostante una possibile revoca pendente in base alla legge Severino. A entrambe le manifestazioni ha partecipato la collega di Lucano a Strasburgo, Giuseppina Princi, aderente al Ppe. Il fronte istituzionalista ha il suo riferimento nel commissario Luciano Gerardis, magistrato molto stimato, andato in pensione come presidente della Corte d’Appello di Reggio. Fra i sostenitori del commissario incaricato dal prefetto Vaccaro, c’è il sindaco metropolitano Giuseppe Falcomatà che ha avuto come vice Perna, prima di una rottura chiassosa a novembre del 2021.
«Il cda», sostiene Perna, «è stato sciolto per ragioni di bilancio con un’appendice di due pagine legata alla presenza di amministratori contigui alla ’ndrangheta. Ma dal 2020 la Fondazione riceve finanziamenti pubblici con il contagocce. Per questo ha rallentato la sua attività. E come non avere parenti mafiosi in un paese di tremila abitanti? San Luca è consegnato all’abbandono, anche dalla borghesia mafiosa che si è trasferita al Nord». Morace e Perna hanno presentato ricorso al Tar della Calabria attraverso gli studi legali Saitta di Messina e Verdirame di Reggio. Il tribunale amministrativo ha fissato l’udienza cautelare al 16 luglio. In attesa del verdetto, si cerca di capire quali potessero essere gli interessi dei male intenzionati intorno a una fondazione culturale dove, al massimo del fulgore contributivo, giravano alcune decine di migliaia di euro l’anno, una cifra da provocare crisi di autostima in un narcotrafficante di quarta categoria. Il deficit aggregato della Fondazione per i sei anni dal 2019 al 2024 è di circa 30 mila euro, il costo di una sagra del peperoncino. Nel frattempo gli abitanti di Bovalino, la San Luca-sur-Mer, sono abituati ai preadolescenti calati dal monte che pagano la granita con rotoli di banconote da duecento euro.
Si afferma con ottime ragioni che la ’ndrangheta non sa che farsene di San Luca. Dunque il dilemma sarebbe fra la modernità del riciclaggio e l’arcaismo dei capibastone con coppola e gambali. Ma la stessa grecità genetica della Locride si oppone alla semplicità dell’aut aut. Qui gli estremi non sono opposti, coincidono. Lo dimostra la strage di Duisburg, una vampata di faida in pieno Eldorado del business ’ndranghetista anno domini 2007.
L’interesse degli emissari mafiosi sulla Fondazione potrebbe essere la versione locale del greenwashing con il quale le industrie inquinanti si mostrano le più interessate alla riduzione di emissioni. Sull’antimafia-washing esiste una letteratura ormai vasta, nella saggistica e nella giurisprudenza penale. Qua si tratterebbe piuttosto di un culture-washing per tramite di tre amministratori messi all’indice dalla prefettura. Il più noto è don Pino Strangio, ex parroco del santuario della Madonna di Polsi, luogo di culto popolare, ma anche riferimento rituale per le ’ndrine di tutto il mondo. Don Strangio si era già dimesso da vicepresidente della Fondazione dopo una condanna in primo grado per mafia e gli era subentrato Perna. Ma, secondo la prefettura, continuava a influenzare le scarse decisioni attraverso Domenico Vottari. Gli altri due amministratori all’indice del prefetto erano un Giuseppe Strangio, omonimo del prete e fratello di Francesco detto “Ciccio boutique”, condannato in via definitiva per mafia, e Francesca Giampaolo, «legata per vincoli di affinità alla famiglia di ’ndrangheta Pelle alias “Gambazza”».
Il caso della piccola Fondazione aspromontana porta alla questione più generale: gli scioglimenti per mafia funzionano? Le statistiche dicono che la Calabria, una Regione con 1,8 milioni di residenti, guida la classifica sia in numeri assoluti sia in proporzione. Inclusi i 25 provvedimenti annullati per ricorsi, dallo Stretto al Pollino sono stati sciolti 136 consigli comunali. Bisogna aggiungere cinque delle sette aziende sanitarie commissariate a livello nazionale (Reggio due volte, Catanzaro, Vibo Valentia e Locri). Al secondo posto, la Campania ha subìto 123 commissariamenti con oltre il triplo degli abitanti. Al terzo posto c’è la Sicilia, che ha due volte e mezzo i residenti della Calabria, con 94.
Il primato calabrese è all’origine. La legge del luglio 1991 che scioglie gli enti infiltrati dalle cosche nasce dalla strage di Taurianova, cittadina della Piana di Gioia Tauro dove il 2 e il 3 maggio 1991 cinque persone furono uccise in una faida fra clan. Restano nella memoria collettiva la decapitazione di Giuseppe Grimaldi e la sua testa lanciata in aria per essere colpita a fucilate.
Trentaquattro anni dopo, la politica si schiera in ordine sparso sull’utilità della norma. Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, si è detto molto scettico, pur facendo parte di un governo che piazza commissari per ogni dove. La sinistra di Avs ha contestato la presa di posizione dell’ex poliziotto che predica forse bene ma di certo razzola male. Il governo Meloni, attraverso i prefetti che dipendono dal Viminale, ha sciolto per mafia 28 consigli comunali. Nell’ultima tornata di provvedimenti, datata 18 aprile 2025, ci sono anche i Comuni calabresi di San Luca, Casabona e Badolato. C’è Caserta, terzo capoluogo di provincia a essere affondato dopo Reggio e Foggia, e c’è Aprilia, 50 chilometri a Sud di Roma.
«Gli scioglimenti per mafia sono sempre andati per cicli», dice Vittorio Mete, ordinario di Sociologia dei fenomeni politici all’Università di Firenze e studioso dei commissariamenti. «Nel primo triennio dopo la legge ce n’erano una trentina all’anno, poi si è passati a quattro, poi si è tornati a salire. Le critiche ci sono state dall’inizio. La legge non risolve i problemi, tanto che alcuni Comuni, come San Luca, raddoppiano o triplicano il provvedimento. Per usare un termine tecnico, lo scioglimento offre alla politica una finestra di opportunità. L’evento fornisce un titolo di merito che il decisore può giocarsi su vari fronti. Per esempio, su quello finanziario. Il commissariamento dell’Asp di Reggio è stato il grimaldello per intervenire sulle centinaia di milioni di debito sanitario maturato nell’area grigia di cui i mafiosi fanno parte. Ma in certe realtà il sindaco si trova stretto fra l’incudine della mafia e il martello dell’antimafia. Si presenta alle elezioni solo chi non ha niente da perdere».
Nel 2019 a San Luca, per eleggere sindaco Bruno Bartolo, si candidò il giornalista Klaus Davi in modo da rispettare la legge che vieta la lista unica nei Comuni con più di tremila abitanti. Nel giugno 2024, senza seconda lista, le elezioni sono saltate.
Eletto sindaco di Reggio dopo lo scioglimento nel 2012 del Comune per «contiguità» con i clan della ’ndrangheta, Falcomatà è fra i sostenitori in sede Anci di una revisione normativa. «Lo scioglimento», dice l’esponente democrat, «colpisce la parte politica dell’amministrazione. Ma se un nuovo sindaco trova lo stesso dirigente colluso, può fare poco. A Bari la commissione di accesso ha circoscritto le infiltrazioni alle partecipate e ha evitato di colpire il consiglio comunale, che è sempre un danno d’immagine per una città. L’altro elemento è di principio. Riporto le parole del procuratore della Repubblica, Giuseppe Lombardo: siamo sicuri che gli interessi dei clan siano a San Luca o a Platì o ad Africo e che gli strumenti di avvicinamento alla politica e di controllo del territorio siano gli stessi?».
Replica alla domanda Alberto Cisterna, ex numero due della Direzione nazionale antimafia e oggi presidente di sezione al Tribunale civile di Roma: «Il controllo del territorio è meno importante di trent’anni fa e il consenso politico si compra. Oggi dobbiamo chiederci dove sono andati i mafiosi. Anni fa a Milano gli imprenditori edili erano tutti falliti. Adesso è una città dove il mattone prospera, anche se al Comune manca un miliardo di euro in oneri di urbanizzazione. Allora perché non sciolgono Milano? La realtà è che i clan si sono spostati e gli strumenti di contrasto, incluse le interdittive antimafia, vanno attualizzati».
Intanto San Luca, come Caivano, resta una passerella per i politici nazionali. A fine maggio è arrivato il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara. Matteo Salvini è quasi un habitué. A giugno del 2024 la presidente della commissione parlamentare antimafia, la meloniana Chiara Colosimo, non ha voluto mancare la photo opportunity sotto il celebre cartello stradale bucato dai pallettoni e posto a mo’ di reliquia in municipio.
Il 24 aprile 2017 una partita fra Nazionale cantanti e Nazionale magistrati, incluso l’allora capo della Procura e attuale senatore grillino, Federico Cafiero de Raho, ha inaugurato il nuovo campo sportivo, la cui agibilità è fra i motivi dell’ultimo scioglimento del Comune. «L’atmosfera era irreale», ricorda il commissario Gerardis. «C’erano decine di macchine blu e tutte le serrande del paese abbassate». Quando nel maggio 2018 si è celebrato il primo compleanno dello stadio intitolato ad Alvaro, c’era sempre de Raho, nel frattempo diventato procuratore nazionale antimafia, con l’allora membro del Csm, Luca Palamara, e con la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi. Sette anni dopo, dove sono i cambiamenti?
Alvaro ha formulato la risposta qualche decennio fa, in una frase che è il simbolo della sua etica: «La disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile». La rettitudine per decreto governativo non ha funzionato.