Kofi, un giovane ugandese fuggito dalle persecuzioni nel suo Paese, era a Ellebæk da meno di una settimana quando si è reso conto che la paga giornaliera che guadagnava nel centro di detenzione danese, dove attendeva la deportazione, bastava appena per pochi minuti di telefonata con la famiglia. «Lavoriamo perché non abbiamo scelta. Se non lo facciamo, restiamo seduti tutto il giorno in cella», ci ha detto Kofi (il suo nome, come quello di tutti i migranti citati in questo articolo, è stato modificato per proteggerne l’identità).
Nel centro di detenzione di Ellebæk, in Danimarca, detenuti come Kofi non sono incarcerati per aver commesso reati, bensì per il loro status migratorio. Si tratta di richiedenti asilo, in attesa che le loro domande vengano esaminate o che vengano deportati dopo il rigetto delle stesse. Queste persone, molte delle quali non hanno commesso alcun crimine, sono tuttavia spinte a lavorare con turni fissi e condizioni simili a quelle dei programmi di lavoro carcerario. Una situazione che, secondo gli esperti, rientra nella definizione di lavoro forzato indiretto.
La struttura di Ellebæk era stata concepita come centro di permanenza temporaneo per individui in attesa di deportazione. Nella pratica i detenuti rimangono spesso rinchiusi per periodi molto lunghi, intrappolati in un limbo legale simile a quello vissuto nei Cpr italiani. Lo scorso anno, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha documentato casi di presunti maltrattamenti fisici, uso eccessivo della forza da parte degli agenti di polizia e persino episodi in cui ai detenuti venivano somministrati psicofarmaci non prescritti, diluiti nell’acqua. Ogni anno si registrano decine di tentativi di suicidio.
L’opinione pubblica si è indignata di fronte alle immagini dei migranti privi di documenti deportati dall’amministrazione Trump e detenuti in carceri di massima sicurezza, pur non essendo accusati di alcun crimine. Eppure, ciò che accade in Europa non è così diverso. In questo centro danese sono stati avviati programmi in collaborazione con aziende private che permettono ai detenuti di lavorare all’interno della struttura. Sebbene l’iniziativa venga presentata come un beneficio per i detenuti, in realtà sembra fornire manodopera a basso costo alle aziende coinvolte.
I documenti in nostro possesso mostrano che la paga per questi migranti ammonta a circa 80 centesimi di euro l’ora, ben al di sotto della tariffa media per lavori analoghi (circa 15 euro l’ora). Come se non bastasse, una parte consistente dei guadagni viene trattenuta per coprire i costi associati alla loro stessa deportazione.
«Ci prendono metà del salario dicendo che serve per il biglietto aereo», racconta Jelani, un ex detenuto. «Non ci hanno mai detto quanto avremmo guadagnato finché non abbiamo ricevuto il primo misero stipendio», aggiunge Amadou, un altro ex detenuto. Come lui, molti hanno scoperto solo successivamente che metà del loro guadagno era stato trattenuto. I registri dei detenuti confermano che il 35 per cento del loro salario viene sottratto per coprire le spese di deportazione e il 15 per cento trattenuto forzatamente fino al giorno delle dimissioni, tanto che in alcuni casi i migranti vengono deportati soltanto con questa minima parte di quello che avevano guadagnato durante la detenzione.
Ellebæk ha stipulato accordi di collaborazione con diverse aziende che esternalizzano parte della loro produzione al centro di detenzione. Tra queste figura Premium Acqua, il distributore danese di San Pellegrino, il marchio italiano di acqua minerale di proprietà della multinazionale svizzera Nestlé. Le linee guida di Nestlé sottolineano l’impegno per condizioni di lavoro dignitose e il rispetto dei diritti umani lungo la filiera, con una politica di “tolleranza zero” verso il lavoro minorile, il lavoro forzato e qualsiasi forma di sfruttamento. Questi principi si riflettono anche nel Gruppo Sanpellegrino, che garantisce salari superiori alla soglia minima di sopravvivenza, nonché ambienti di lavoro sicuri e dignitosi. Sanpellegrino dichiara inoltre che tutti i suoi fornitori aderiscono alle politiche di approvvigionamento responsabile del gruppo, sottoponendosi a sessioni formative e audit per prevenire violazioni dei diritti dei lavoratori. Interpellata sulla questione, Sanpellegrino ha comunicato di non essere direttamente presente nel mercato danese, sottolineando che Premium Acqua è una società indipendente non affiliata al loro gruppo. Tuttavia, Premium Acqua appare sul sito ufficiale di Sanpellegrino come distributore autorizzato in Danimarca, e i suoi dirigenti utilizzano domini email con il marchio Sanpellegrino.
Comunicazioni interne del governo danese, ottenute attraverso una richiesta di accesso agli atti, rivelano che alcuni funzionari responsabili della questione avevano discusso se divulgare o no i nomi delle aziende partner di Ellebæk, temendo reazioni negative da parte dell’opinione pubblica e potenziali conseguenze legali. Anche se formalmente la partecipazione ai programmi di lavoro è volontaria, molti detenuti con cui abbiamo parlato hanno dichiarato di non avere una reale possibilità di scelta, poiché lavorare era l’unico modo per ottenere beni di prima necessità.
«Le condizioni a Ellebæk sono talmente estreme che le persone sono obbligate a lavorare, e l’opportunità offerta non costituisce realmente una scelta», spiega Mauro Palma, uno dei massimi esperti sui diritti dei detenuti. «Alla privazione materiale si aggiunge l’ambiente chiuso del centro di espulsione, con una limitazione estrema delle scelte personali e un generale accesso limitato a qualsiasi cosa. Qui si esercita una coercizione indiretta, lasciando agli individui un’unica opzione: accettare il lavoro». Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo), il lavoro forzato è definito come qualsiasi attività lavorativa svolta sotto coercizione, non solo attraverso la forza fisica, ma anche mediante pressioni psicologiche o necessità economica. Amnesty International ha recentemente concluso in un rapporto che la Danimarca sta violando i propri obblighi internazionali, non offrendo ai richiedenti asilo reali alternative alla partecipazione ai programmi di lavoro. «Se non lavori, non hai soldi», spiega Sibusiso, un richiedente asilo congolese di 41 anni. Come altri detenuti, è stato costretto a lavorare per pochi centesimi all’ora per potersi permettere le carte telefoniche per chiamare la sua famiglia. «Siamo come schiavi, come cani. A Ellebæk non sei niente».
Contattata sul caso, Premium Acqua afferma di aver avviato la collaborazione con il servizio penitenziario danese nel 2015, descrivendola come parte di un’iniziativa volta a sostenere il reinserimento dei detenuti. Tuttavia, facciamo notare, tale iniziativa non è rivolta a detenuti, bensì a migranti in attesa di deportazione. Dopo aver sollevato la questione con i suoi dirigenti, l’azienda ha deciso di interrompere la collaborazione con Ellebæk. «Possiamo solo dire: ci dispiace. Abbiamo agito secondo il nostro miglior giudizio. Semplicemente non sapevamo che le condizioni di lavoro fossero queste», ha dichiarato Jens Beyer, direttore di Premium Acqua.
*Realizzato con il sostegno del Journalism Fund