Inchieste
30 luglio, 2025L’uso di mezzi di contenzione per anziani e fragili nelle residenze di cura provoca conseguenze gravi, a volte letali. Ma le strutture, a corto di personale, spesso ne abusano
A ldo Rebagliati aveva sempre avuto una certa manualità. A 30 anni era entrato in una ditta metalmeccanica di Savona, dove contribuiva alla produzione di materiali per l’industria ferroviaria e aeronautica. Dopo essere andato in pensione anticipata, si era dedicato al restauro di attrezzi antichi e alla cura di un terreno. Qualcosa cambiò quando Aldo raggiunse i 70 anni. «Non sapeva più aggiustare nulla», racconta Tania Rebagliati, sua figlia. Poco dopo arrivò la diagnosi: Alzheimer in fase iniziale. Perse presto l’orientamento, non riusciva più a scrivere, e diventò pericoloso farlo uscire da solo o lasciarlo guidare. Per garantirgli le cure, nel 2019 la famiglia decise di ricoverarlo per un mese in una casa di riposo. Dopo averne visitate più di dieci, scelsero una struttura privata chiamata La Villa: un edificio alto, con facciate color albicocca e una vista sul mare. Il costo era elevato, quasi tremila euro per un mese. «Sembrava quasi un hotel», dice Lorenzo Rebagliati, figlio di Aldo. «E ce l’hanno venduta così: un posto aperto ai visitatori, aperto ai residenti, liberi di fare più o meno ciò che volevano». Appena tre giorni dopo il suo ingresso, la famiglia trovò Aldo in una stanza con le finestre sbarrate, legato a una sedia con stracci annodati attorno alle braccia e alla vita.
«Me lo ricordo come se fosse ieri» dice Tania. «Abbiamo chiesto spiegazioni, ci hanno risposto che era per la sua sicurezza». Tania scoprì che Aldo veniva legato sia di giorno che di notte, al punto da perdere gran parte della sua mobilità. Gli veniva somministrato anche un antipsicotico senza il consenso della famiglia, portandolo a uno stato di torpore costante. «Il mio papà era diventato una larva in una settimana, non mangiava neanche più». La famiglia voleva riportarlo a casa, ma dovette aspettare dieci giorni che i medici della struttura concedessero l’autorizzazione. Poco dopo, Aldo morì in ospedale. «Affidi qualcuno che ami alle cure di altri, pensandolo al sicuro», dice Tania. «Scoprire cosa era successo è stato terribile».
In Italia e in molti Paesi del Mediterraneo, l’uso di lenzuola, fasce, sponde del letto e altri strumenti che limitano i movimenti – note come “contenzioni fisiche” – è ancora ampiamente diffuso. Anche se le famiglie restano il pilastro dell’assistenza, molte persone si rivolgono alle Rsa per conciliare lavoro e cura, o ricevere supporto specialistico. In Italia, oltre 300.000 anziani sono stati ricoverati almeno una volta in una Rsa e, come dimostra questa inchiesta frutto di un’indagine di cinque mesi basata su richieste di accesso agli atti, documenti giudiziari, analisi della stampa locale e letteratura scientifica – realizzata in collaborazione con Expresso (Portogallo), elDiario (Spagna) e Undark Magazine (Stati Uniti) – troppi sono gli abusi.
Con l’invecchiamento della popolazione e l’aumento delle demenze, aumenta anche il rischio che le contenzioni vengano utilizzate sempre più spesso, spiega Sezer Kisa, docente di global health nursing presso l’Università Metropolitana di Oslo. Il rischio è alto in Italia, che dopo Giappone e Corea del Sud è il Paese in cui l’invecchiamento procede più rapidamente.
Molti operatori sanitari sostengono che queste pratiche servono a prevenire cadute, vagabondaggio, autolesionismo o comportamenti aggressivi. Ricordano anche che l’uso delle contenzioni è regolato da norme e codici, tra cui il Codice Deontologico degli Infermieri, il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica e la Costituzione stessa, che stabiliscono che tali strumenti debbano essere usati solo come ultima risorsa, con il consenso del paziente o del tutore legale e su prescrizione medica. «L’uso delle contenzioni è estremamente controllato e solo in casi di reale necessità e per il tempo strettamente necessario», afferma Averardo Orta, presidente della Confederazione Europea delle Case di Cura, che rappresenta strutture private in tutta Europa. Questa è la linea ufficiale.
Ma un’analisi di casi in Italia suggerisce una realtà ben diversa. In decine di articoli di cronaca emergono episodi in cui anziani sono stati legati con lenzuola, cinture o vecchi indumenti. Nel 2022, a Palermo, dei video mostravano pazienti legati per ore a sedie o letti, alcuni insultati o picchiati in una casa di riposo. Un caso simile del 2021 a Salerno mostrava persone legate in carrozzina, coperte con maglioni e lasciate in letti intrisi di urina. Casi analoghi sono stati documentati a Torino, Napoli, Caltanissetta, Catania, Oristano, Civitavecchia e altrove. Abbiamo inviato richieste di accesso ai dati sul ricorso alle contenzioni a tutte le Regioni italiane. I risultati? Frammentari, in molti casi assenti, e raramente monitorati a livello nazionale.
Dove esistono, i dati suggeriscono un uso ordinario, non eccezionale. In Lombardia, ad esempio, circa 42mila pazienti sono stati sottoposti ad almeno una forma di contenzione nel 2024, su circa 66mila posti letto nelle Rsa private nell’anno precedente. In Trentino, con 4.900 posti letto, quasi 4.200 residenti hanno ricevuto una prescrizione di contenzione. In Veneto, la quota di persone sottoposte a contenzione è in diminuzione, ma nel 2024 sono ancora quasi 17mila i soggetti contenuti. E per oltre il 20 per cento di loro la contenzione è continua, sia di giorno che di notte. In Piemonte, il difensore civico regionale dell’epoca, Augusto Fierro, ha rilevato nel 2019 che oltre il 90 per cento delle strutture utilizzava contenzioni.
«Risultati che purtroppo conclamano una situazione di generalizzato utilizzo delle pratiche di coercizione della persona nelle residenze per anziani» si legge nel rapporto. Alcuni esperti sostengono che queste percentuali sono gonfiate, includendo sponde del letto e carrozzine con tavolini bloccanti. «Onestamente, queste percentuali mi sembrano molto alte» dice Dario Leosco, presidente della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria. Ma anche il Comitato Nazionale per la Bioetica, in una relazione del 2015, riconosce la diffusione del fenomeno: «La pratica di legare i pazienti e le pazienti contro la loro volontà risulta tuttora applicata, in forma non eccezionale, senza che vi sia un’adeguata attenzione alla gravità del problema, né da parte dell’opinione pubblica né delle istituzioni».
Le ragioni citate più spesso per giustificare l’uso delle contenzioni sono legate alla sicurezza: evitare cadute, contenere l’aggressività, impedire l’autolesionismo. Alcuni operatori raccontano casi in cui i pazienti si strappavano flebo, cercavano di camminare con rischio di cadute, o si comportavano in modo aggressivo. «In alcuni casi è assolutamente necessaria e va condivisa con i familiari», afferma Leosco. Ma altri esperti accusano le strutture di abusarne per comodità, invece di capire le reali esigenze dei pazienti. Chi soffre di demenza può agitarsi perché ha fame, dolore, o semplicemente bisogno di muoversi.
Legarli non risolve le cause. «Le contenzioni non trattano il problema alla radice», afferma Mustafa Atee, docente alla Curtin University in Australia, autore di un articolo di opinione in cui, rappresentando l’International Psychogeriatric Association, mette in guardia contro il loro utilizzo. Le prove scientifiche a favore delle contenzioni sono scarse. Per una revisione sistematica del 2023 è possibile ridurre l’uso di contenzioni senza aumentare il rischio di cadute. Inoltre, diversi studi ne dimostrano gli effetti nocivi: uno del 2018 ha rilevato che quasi il 40 per cento dei pazienti in terapia intensiva sottoposti a contenzioni sviluppa delirio. Una revisione del 2014 le ha associate a un peggioramento del benessere psicologico, mentre un altro studio ha rilevato un possibile legame con il disturbo post-traumatico da stress.
«C’è un totale scollamento tra ciò che la scienza ci dice e ciò che accade nella pratica», dice Claudia Mahler, esperta indipendente Onu sui diritti degli anziani. Anche per il Ministero della Salute, in un documento sulla gestione delle cadute del paziente nelle strutture sanitarie, «non vi è evidenza scientifica che l’uso della contenzione fisica o farmacologica protegga i pazienti dalle cadute» e anzi possono provocare «effetti indesiderati psicologici nonché fisici».
Le sponde del letto sono lo strumento più diffuso, ma tutt’altro che innocuo. In realtà, aumentano il rischio che i pazienti con disturbi cognitivi cerchino di scavalcare e cadano da un’altezza maggiore. «La persona intende scendere dal letto, comunque, e con le sponde lo fa da una posizione più alta», spiega Orta. Per questo alcuni esperti chiedono il divieto assoluto delle contenzioni. «È come una pistola», dice Livia Bicego, già direttrice infermieristica dell’Ass1 di Trieste. «Se ce l’hai, prima o poi la userai».
Trieste è pioniera nell’abolizione delle contenzioni psichiatriche, ispirandosi al modello di Franco Basaglia. Bicego e altri ora cercano di estendere questo approccio anche alle Rsa, un ambito ancora poco discusso. Secondo Mahler, la tutela in Europa «si concentra tutta sulla sicurezza del paziente, ma non sul maltratamento». Le Rsa dovrebbero invece preoccuparsi dei bisogni delle persone. Un altro nodo è la carenza di personale. In Italia ci sono 6,4 infermieri ogni mille abitanti, contro una media Ue di 9,5. Mancano oggi circa 65-70mila infermieri. «Mancanza di personale. Il problema è questo» afferma Leosco. Il quadro normativo può inoltre portare a conseguenze opposte: da un lato la Costituzione tutela la libertà personale, dall’altro il personale sanitario può essere ritenuto penalmente responsabile se non ha fatto tutto il possibile per prevenire un infortunio. «Se non vengono prese tutte le precauzioni, a quel punto si incorre nella violazione opposta della legge» spiega Alba Marala, presidente della Fondazione Anaste Humanitas. Secondo lei, gli abusi avvengono soprattutto nelle strutture non accreditate.
Ma diversi casi documentati – tra cui La Villa – hanno coinvolto Rsa e ospedali sottoposti a controlli. Dopo il 2019, La Villa è finita sotto indagine e alcuni Oss sono a processo per maltrattamenti. La struttura, oggi ribattezzata “L’Alba”, continua a operare sotto la gestione di una società che risulta controllata dallo stesso gruppo francese almeno dal 2019. I precedenti responsabili non hanno risposto alla nostra richiesta di replica, mentre il gruppo attualmente al controllo ha dichiarato di non essere nella posizione di commentare su quanto accaduto in passato. «È come lavarsi la faccia e ricominciare da capo» dice Tania. «Spero solo che non tornino a fare quello che facevano prima».
La realizzazione di questa inchiesta è stata supportata da un finanziamento del fondo IJ4EU
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