Innovazione
30 ottobre, 2025Da novembre 2024, i testi scritti sul web da persone reali sono in minoranza rispetto a quelli generati dall’Ia. Sempre più efficaci e irriconoscibili. Così la scrittura, da atto culturale, diventa output industriale
E se l’ultimo articolo che hai letto non fosse stato scritto da nessuno? Oggi il web è popolato da milioni di testi generati da intelligenze artificiali: notizie, recensioni, guide, post che imitano perfettamente il tono umano, ma dietro quella voce non c’è più una persona. C’è un algoritmo addestrato a scrivere come noi — e, in molti casi, meglio di noi. Da novembre 2024, il numero di articoli prodotti dall’Ia ha superato per la prima volta quelli scritti da esseri umani. Il punto di non ritorno è passato quasi inosservato, se non per gli esperti che da mesi osservavano la curva crescere. Dopo l’esplosione di ChatGPT nel 2022, la quantità di contenuti generati dai modelli linguistici ha avuto una crescita verticale, fino a rappresentare il 39 per cento di tutti gli articoli pubblicati nel giro di un solo anno. Da allora, la linea si è appiattita: il dominio numerico è stato raggiunto e ora l’intelligenza artificiale sembra essersi stabilmente insediata come principale “penna” della rete.
Il dato arriva da uno studio indipendente basato sull’analisi di 65mila articoli in lingua inglese raccolti da CommonCrawl, uno dei più grandi archivi pubblici del web. Ogni testo è stato analizzato da un algoritmo di riconoscimento che distingue il contenuto scritto da esseri umani da quello generato da macchine. Il risultato non lascia spazio a dubbi: da un anno, la rete parla più “macchinese” che umano e la cosa più sorprendente è che pochi se ne sono accorti. Il fenomeno, in sé, non è difficile da spiegare. Scrivere costa. Far scrivere a un’intelligenza artificiale costa pochissimo. Così le aziende hanno trovato un modo per popolare blog, riviste digitali e siti di e-commerce con testi infiniti, ottimizzati per i motori di ricerca e prodotti in pochi minuti. La promessa iniziale era irresistibile: risparmiare tempo, risorse e personale, senza sacrificare la qualità e, in molti casi, gli esperimenti hanno funzionato. Uno studio del Mit ha mostrato che, in diversi contesti, i testi generati dall’Ia sono valutati come uguali o migliori di quelli umani e un’altra ricerca, firmata da Originality AI, ha rivelato che la maggior parte dei lettori non è in grado di distinguere tra un contenuto scritto da un autore e uno prodotto da un modello linguistico.
Eppure qualcosa non torna. Perché se è vero che le macchine scrivono più di noi, non è affatto detto che qualcuno le legga. Un’analisi parallela mostra infatti che la maggior parte degli articoli generati dall’Ia non compare su Google né nei risultati proposti da ChatGPT stesso. In altre parole: esistono, ma non hanno voce. Restano sepolti tra miliardi di pagine che l’algoritmo dei motori di ricerca tende a penalizzare, forse perché troppo simili, troppo uniformi, troppo perfette. È come se l’ecosistema digitale avesse sviluppato un’autoimmunità: produce contenuti a velocità industriale, ma poi li rifiuta, li isola, li rende invisibili. Questo paradosso apre una domanda più ampia: che cosa succede a un mondo dove la parola perde la sua origine umana? Finché a scrivere è una persona, ogni testo è un atto di scelta: un punto di vista, una responsabilità. Quando scrive una macchina, invece, il senso si sposta. L’obiettivo non è comunicare ma produrre; non convincere ma riempire; non pensare ma performare. E così la scrittura, da atto culturale, diventa output industriale. Continuiamo a immaginare internet come uno spazio collettivo, un grande archivio di pensieri e opinioni. In realtà, sta diventando un ambiente dove la maggior parte dei testi non è più frutto dell’esperienza, ma di un algoritmo addestrato a imitarla. Non è difficile intuire dove porterà questa tendenza. Se ogni sito può produrre migliaia di articoli al giorno, il rumore di fondo diventerà assordante. La distinzione tra contenuto di valore e “riempitivo” si farà sempre più sottile, e gli stessi sistemi di ricerca dovranno imparare a riconoscere non più le parole giuste, ma le parole vere. Quando il fenomeno è cominciato, avevo scritto provocatoriamente che avremmo dovuto invertire la logica delle etichette: non segnalare i contenuti Ia ma quelli scritti da esseri umani. E in effetti ci stiamo arrivando. Presto tutto sarà prodotto, raffinato e ottimizzato da sistemi automatici, e ciò che davvero conterà non sarà distinguere l’Ia, ma riconoscere l’impronta umana. Forse, nel futuro dei social media, accanto al bollino blu di “verified”, ne apparirà uno nuovo: “human verified”. Non per garantire l’identità, ma per certificare che dietro a quelle parole, a quel pensiero, a quella voce, c’è ancora qualcuno.
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