Mario Nobile, lei è direttore generale di Agid, l’Agenzia per l'Italia digitale, quale strategia deve adottare l’Italia per sviluppare un ecosistema Ia che rafforzi la competitività del Paese?
«Una strategia basata su quattro assi: formazione, ricerca, pubblica amministrazione e imprese. Siamo il 7º Paese esportatore al mondo, le nostre Pmi esportano soprattutto in settori come la manifattura, i farmaci, la moda. Qualunque servizio digitale, Ia compresa, può essere rappresentato con una catena del valore formata da tre strati: il più basso, che genera più valore, è quello degli abilitanti; poi c’è quello, con valore minore, che riguarda componenti e infrastrutture; infine, c’è lo strato applicativo, con valore simile ai componenti e alle infrastrutture. Le barriere all’ingresso per entrare nel mercato degli abilitanti (per la GenAI sono i Large language models) sono enormi, perché servono tempo, capitali, cervelli, centri di supercalcolo. Noi stiamo cercando di cogliere risultati nel breve termine rispetto allo strato applicativo, con soluzioni concrete per le nostre Pmi e per le pubbliche amministrazioni che servono le Pmi. Insieme a Confindustria, per esempio, abbiamo stabilito di creare spazi di prova di applicazioni in cinque settori: manifattura, turismo, trasporti, salute e pubblica amministrazione. Realizzare e testare queste applicazioni consente di far scegliere agli imprenditori soluzioni concrete adatte a loro, senza imporre l’uso di chatbot che non vedono nel loro processo produttivo o di vendita».
Come valuta il ddl Ia approvato dal Senato e ora all’esame della Camera?
«È stato il primo di un Parlamento di uno Stato membro Ue. Apprezzo alcuni elementi di coraggio come l’articolo 8, che stabilisce per i dati sanitari, ai fini di un interesse pubblico, di non richiedere nuovamente e singolarmente il consenso: se l’obiettivo è quello di migliorare la diagnosi di un tumore, i dati si possono usare, vista l’alta utilità collettiva. Poi ci sono altre parti, che non mi permetto di giudicare perché rispetto il potere legislativo del Parlamento, che denotano un atteggiamento di transizione, un passaggio dalla paura all’opportunità. Mi riferisco anche agli elementi finanziari. Ok il venture capital, come parte degli ingredienti necessari. Si potrebbe pensare, magari, a meccanismi di detassazione: le Pmi che comprano prodotti e servizi di Ia e relativi strumenti di formazione per i dipendenti potrebbero ottenere un vantaggio fiscale. In questi giorni stiamo approfondendo la fattibilità di una proposta di dedurre, dall’imponibile di un F24 per pagamento tasse di un’impresa, l’acquisto di strumenti e formazione. Il tutto sempre in ottica antropocentrica: l’essere umano è e resterà al centro, ma saranno le competenze a fare la differenza, perché ci sarà chi saprà usare meglio queste tecnologie. ll giornalista, l’interprete, l’ingegnere, si confronteranno con colleghi che potrebbero saper maneggiare meglio questi strumenti».
Nell’ambito della strategia nazionale per l’Ia quale sarà il ruolo dell’Agid?
«L’Agid si occuperà di promozione e sviluppo. Il ddl prevede che l’Agenzia debba notificare i soggetti che stanno realizzando l’Ia in Italia. Noi abbiamo due obiettivi principali: arrivare sullo strato applicativo con le nostre imprese e vogliamo inoltre generare quanta più competenza possibile, perché oltre al dottorato di ricerca sull’intelligenza artificiale servono anche forme di addestramento per la popolazione. Fare l’alta formazione è paradossalmente più facile rispetto a realizzare dieci videopillole per una persona che non ha competenze di base».
Dal punto di vista digitale l’Italia è al passo con le altre nazioni industrializzate?
«I numeri del digitale in Italia sono riconosciuti anche all’estero. Parliamo dei mattoncini che, lavorando in sinergia, creano l’infrastruttura digitale di un Paese. Uno è l’identità digitale, un altro è la fatturazione elettronica, un altro ancora è la piattaforma dei pagamenti. Su 59 milioni di abitanti abbiamo 40 milioni di Spid e 50 milioni di Cie (Carta di identità elettronica). Nel mese di gennaio PagoPA, la nostra piattaforma dei pagamenti verso la pubblica amministrazione, ha gestito 40 milioni di transazioni per un controvalore di 9 miliardi di euro. La quasi totalità dei pagamenti dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione. Questi numeri sono lusinghieri. Mancano invece le competenze diffuse».
I data center sono fondamentali per la competitività e la sicurezza nazionale e rappresentano un asset strategico per la protezione e la gestione dei dati. Una forte presenza a livello territoriale di queste infrastrutture sarebbe utile? Potrebbe anche attrarre investimenti esteri?
«Sicuramente. Parliamo di datacenter ragionando di cloud computing. La capacità di calcolo deve arrivare anche alla prossimità (edge), perché il cloud potrebbe non funzionare in un certo momento. Un applicativo per i trasporti o la salute deve avere un backup locale. Non vedo soltanto una prospettiva di grandi datacenter, ma una diffusione della capacità di calcolo. Sicuramente servono, come denotano gli investimenti delle BigTech. Chi diversifica la propria economia sta investendo in datacenter che genereranno in ogni caso introiti futuri. Oggi investire di più in data center e facilitare il procedimento autorizzatorio è sicuramente un bene».
Si parla di Twin Transition per spiegare che la transizione energetica e quella digitale devono essere integrate. Come possiamo garantire sufficiente apporto energetico alle infrastrutture e renderle in grado di supportare la transizione digitale, anche per l’attrazione di nuovi investimenti?
«Jeremy Rifkin per primo analizzò la convergenza tra energia, telecomunicazioni e trasporti. Abbiamo un tema di energia che dobbiamo risolvere adesso. Per mia formazione, vedo con favore l’uso del nucleare di nuova generazione. So che ci sono paure e alcune criticità di processo, ma mantenendo l’attuale mix energetico non ci potremo permettere i datacenter di cui parlavamo prima, e attività industriali competitive. E questo ci obbliga all’import che, cinque anni fa, in un mondo globalizzato, era sotto alcuni punti di vista anche una consuetudine positiva. Oggi il mondo sta cambiando e questo diventa anche un tema di protezione del nostro Sistema e quindi anche delle nostre imprese».
Lei quindi è a favore del nucleare?
«Assolutamente sì. Ritengo che oggi, nonostante le ottime performance ed efficienza con l’uso del gas naturale o di altre fonti, rinnovabili, ci deve essere una stabilità, soprattutto per l’industria. Oggi usiamo infrastrutture digitali con poca consapevolezza; una domanda banale a un chatbot genera impatti, un consumo d’acqua e un consumo energetico notevole. Facciamo un uso compulsivo dei social senza avere chiaro l’impatto sulla transizione energetica e sulla transizione digitale».
Quali competenze dobbiamo sviluppare per supportare a tutti i livelli il nostro sistema Paese in questa fase di digitalizzazione?
«La competenza del pensiero critico. La parte specialistica del digitale è abbastanza coperta, abbiamo incredibili professori, una ricerca di base citata in numerosi lavori scientifici, giovani bravissimi. Questo è un livello altissimo di formazione, ma è fondamentale arrivare a tutti, avere una popolazione che sia consapevole».
Come possiamo garantirci un ruolo di rilievo nella costruzione di un ecosistema digitale europeo più integrato e per rafforzare l’interoperabilità tra sistemi informatici?
«Abbiamo tre necessità, secondo me. La prima è ridurre l’overregulation europea, con un approccio a silos (cybersecurity, privacy, media, ecc.) che rende l’Europa poco competitiva. Nel suo ultimo rapporto Mario Draghi suggerisce forme di semplificazione regolatoria, senza rinunciare ai nostri principi. Come cittadino europeo sono terrorizzato all’idea di recarmi in Paesi che fanno scansioni facciali o social scoring. Ma il principio inserito in una direttiva non basta, se non produciamo applicazioni siamo poi costretti a utilizzare software altrui, e ci affanniamo a regolarli. La seconda sono gli investimenti e qui parliamo di un’Italia con 3mila miliardi di debito pubblico, 5.400 miliardi di risparmio privato e un flusso annuale di investimenti privati pari a 400 miliardi. È arrivato il momento di proporre un modo più funzionale di investire, in Italia ed Europa e non in isole caraibiche, con rendimenti garantiti o plusvalenze meno tassate. Il terzo punto è dare una facilitazione alle imprese italiane ed europee nel rendere appetibile l’investimento in queste tecnologie. Se l’investimento viene detassato o incentivato secondo me noi possiamo competere: abbiamo i cervelli, abbiamo la possibilità di drenare questi investimenti. Ecco, io vorrei un’Europa che produca applicativi europei visti nel mondo come prodotti tecnologici in linea con i principi e i valori che abbiamo. E subito dopo potremmo giocare la partita dei sistemi abilitanti, ed entrare da europei in quel mercato».
Ha parlato di cyber security. Cosa dovrebbe fare l’Italia per migliorare la cyber security?
«È anche qui un tema di consapevolezza. Gli ultimi episodi che hanno interessato il nostro Paese – e non solo – hanno dimostrato che magari i sistemi funzionavano alla perfezione, però le criticità derivavano da un uso distorto che ne veniva fatto o da accessi non autorizzati da parte di soggetti infedeli. Faccio un esempio: non era necessario saper lavorare il legno per costruire il cavallo di Troia, ma bisognava avere la consapevolezza che un regalo, a volte, può contenere un’insidia. Tante delle truffe che registriamo ogni giorno, come il phishing, promettono un premio. La piccola e media impresa italiana quanto è consapevole che magari c’è un tentativo di truffa? Ma non solo quella piccola. Abbiamo avuto casi di Ceo fraud dove persone importanti sono state attaccate con tecniche di ingegneria sociale e sono cadute. Non dobbiamo assolutamente condannarle, perché potrebbe succedere anche a noi. Mi reputo una persona tecnologicamente avanzata, ma anche io posso cadere in queste insidie e quindi cerco di pormi sempre delle domande, sviluppare un pensiero critico, informarmi, aggiornarmi e confrontarmi con i colleghi. Solo così riusciremo a governare le nuove tecnologie senza subirle».