Innovazione
26 agosto, 2025Il gigante asiatico vuole portare i suoi taikonauti sul suolo lunare entro il 2030. Il culmine di un progetto supportato da stazioni orbitanti, reti satellitari e da un’abile diplomazia che ha esteso la sfera di influenza di Xi. E gli Stati Uniti sono costretti a rilanciare per non perdere il loro vantaggio
Il Polo sud lunare è il primo obiettivo nella nuova competizione spaziale e la Cina è già in vantaggio su diversi fronti. Potrebbe essere questo il vero motivo per cui l’America ha spostato i suoi “obiettivi spaziali” alla volta di Marte. Sarebbe forse complicato per l’amministrazione Trump dire: «Ragazzi, ci siamo sbagliati. I cinesi stanno realizzando quello che noi avevamo immaginato di fare, quindi lasciamo perdere il satellite e cominciamo a sognare Marte». La Cina sta infatti segnando diverse leghe di distacco rispetto al programma Artemis della Nasa che avrebbe dovuto riportare l’uomo – e la donna – sulla Luna entro il 2027, forse.
È la China Manned Space Agency (Cmsa) a rivelare le sue priorità, in primis lo sviluppo della stazione spaziale orbitante Tiangong – il “Palazzo Celeste” in orbita già dal 2022 a 450 km dalla Terra – che può contenere fino a 3 taikonauti e ne ha già ospitati quindici, con oltre 180 progetti di ricerca, in vista dell’obiettivo più sfidante: l’allunaggio entro il 2030.
Fulcro della strategia del Dragone è il lander Lanyue, progettato per la discesa controllata, la permanenza e il rientro sicuro di almeno due taikonauti per e dal suolo lunare.
A completare l’infrastruttura – utile alla conquista della Luna – c’è la rete di telecomunicazioni Queqiao, già attiva. Un “ponte di gazze ladre” progettato per le comunicazioni fra la Terra e il Polo sud del satellite che si trova nella “Luna nera”, la faccia sempre esposta verso lo Spazio e nascosta alla vista da Terra a causa della rotazione sincrona del satellite rispetto al pianeta che orbita.
La Cina è avanti, dicevamo, e risale al 2019 il primo satellite della costellazione di telecomunicazione – sarà completa entro il 2030 – e che a marzo 2024 ha lanciato Queqiao-2 con l’antenna parabolica più grande inviata dalla Terra, del diametro di 4,2 metri, come annunciato all’agenzia di stampa di Stato dal responsabile del progetto Deep Space cinese, Wu Yanhua.
Se guardiamo alla diplomazia spaziale di Pechino, poi, vedremo che non si limita ai partner tradizionali come la Russia, ma si espande in Africa e Medio Oriente con accordi tecnologici che includono stazioni di tracciamento e satelliti “dual use”, a rafforzare le alleanze a sostegno dell’influenza politica e scientifica della Cina.
La domanda nasce spontanea: e l’America che fa? La Nasa, consapevole del ritmo incalzante del programma cinese, prova a riaggiornare i suoi obiettivi strategici e anticipa al 2026 la data di sbarco prevista sulla Luna. Ma dietro l’annuncio di facciata c’è una chiara mossa difensiva pianificata dall’agenzia americana: un reattore nucleare da 100 kilowatt da installare sulla Luna entro il 2030. Ufficialmente si tratta di una sfida tecnica e della risposta a una necessità oggettiva: dare energia agli avamposti fissi lunari. Ogni “notte lunare” dura due settimane terrestri e l’assenza del Sole impedisce il funzionamento delle strumentazioni, così come avviene nelle importanti zone in ombra perenne della Luna Nera al Polo sud che sono quelle in cui, secondo gli studi realizzati, si trova il ghiaccio d’acqua. Con il nucleare si potrebbe garantire una fonte energetica costante al fine di supportare operazioni, estrazione di risorse e vita quotidiana anche in assenza di luce solare.
L’amministratore ad interim della Nasa, Sean Duffy – già Segretario dei Trasporti e nominato a sorpresa da Donald Trump il 15 luglio per sostituire Jared Isaacman, miliardario della cerchia di Elon Musk e “scartato” a pochi giorni dalla votazione del Senato – lancia la notizia “nucleare” e dimentica i pesanti tagli di bilancio imposti dalla Casa Bianca all’Agenzia spaziale, budget che sarà di 21 miliardi di dollari, segnando un -24 per cento sui 28 miliardi del 2024. Duffy forse non ci pensa e con grande determinazione punta l’attenzione sul fatto che l’America vuole fare sue le aree “migliori” della Luna.
Ecco le carte scoperte sul tavolo: non importa se le missioni scientifiche soffrono per i tagli, qui si parla di strategie geopolitiche. Quella di Artemis vs Lanyue è dunque una corsa a tappe forzate, appesantita da un chiaro confronto diretto e senza sconti fra Usa e Cina.
Nota a margine: l’Italia e l’Asi, la nostra Agenzia spaziale, giocano un ruolo di primo piano su questo scacchiere. Un esempio fra tutti è il modulo abitativo lunare Mph – Multi purpose habitat – che è in realizzazione a Torino. Sarà adattabile alle condizioni estreme del suolo lunare: escursioni termiche drastiche, radiazioni cosmiche e polvere lunare fortemente abrasiva, senza contare l’eventuale impatto di micrometeoriti.
Gli astronauti “casa e lavoro” nell’Mph potranno abitare e svolgere attività scientifica avanzata, asset fondamentale nell’infrastruttura lunare prevista dal programma Artemis della Nasa. Prime contractor del programma è Thales Alenia Space Italia che coordina un gruppo di lavoro tutto made in Italy. Una strategia di lungo periodo voluta dal governo per rafforzare la posizione del Paese in tema di Space economy.
E sui progetti “long lasting” si attestano anche le altre pedine di questa scacchiera spaziale, in cui ricerca scientifica, obiettivi militari e interessi commerciali procedono in parallelo, sostenuti – in tutti i Paesi coinvolti – da un forte intervento statale nella politica industriale.
Ma sono le alleanze a giocare il ruolo più importante. Guardando ad esempio agli Stati Uniti, questi provano con gli “Artemis Accords” a federare un gruppo di nazioni che condivida standard e principi operativi nello Spazio: l’Europa, il Canada e il Giappone hanno già aderito, ma resta il nodo della governance internazionale in un contesto in cui lo sfruttamento delle risorse extraterrestri non è ancora regolato in modo chiaro.
Il Polo sud della Luna, lo abbiamo capito, è diventato il vero campo di battaglia della diplomazia spaziale. Le sue riserve di ghiaccio rappresentano una risorsa strategica per produrre acqua potabile, ossigeno e carburante, in vista della “colonizzazione del Satellite”. La competizione internazionale per stabilire una presenza permanente in quest’area si intreccia con il diritto: risale al 1967 l’Outer Space Treaty – noto come Magna Charta dello Spazio – accordo sottoscritto dalle potenze spaziali dell’epoca che vietava la sovranità nazionale sul suolo extraterrestre, lasciando però ampi margini d’interpretazione sull’uso esclusivo di infrastrutture e risorse. In pratica chi primo arriva meglio alloggia: lo Stato che per primo dovesse installare una sua base su una zona particolare della Luna potrebbe garantirsi un vantaggio di fatto. Negli anni ’60 nessuno avrebbe potuto immaginare lo scenario attuale, in cui la corsa alla Luna non è più solo simbolico ma vero gioco di potere per il controllo delle risorse lunari e lo sviluppo di nuove tecnologie spaziali.
Resta però una diversa sensibilità, dei vari schieramenti, rispetto all’importanza dell’allunaggio: per la Cina potrebbe trattarsi di una mera catena logistica verso Marte, mentre gli Usa sembrano guardare alla Luna come a un perno utile a mantenere leadership scientifica e industriale globale.
In questo gioco di giganti c’è anche l’Italia, che mette in campo scelte mirate per ritagliarsi spazi di valore nella “big picture” di esplorazione interplanetaria.
L’Agenzia Spaziale Italiana, ad esempio, ha firmato un accordo con SpaceX per portare esperimenti scientifici nazionali sulle prime missioni Starship che saranno dirette su Marte, con tre payload principali: esperimenti sulla crescita delle piante in ambiente spaziale, una stazione di monitoraggio meteorologico e un sensore di radiazioni. Nel corso dei sei mesi di viaggio interplanetario verso Marte, e nelle prime fasi di permanenza sul Pianeta rosso, saranno raccolti dati utili a valutare lo sviluppo di un’agricoltura autonoma marziana, oltre ai rischi sanitari per gli astronauti esposti a radiazioni cosmiche e solari.
Il quadro che ne emerge è quindi quello di una competizione multilivello, in cui la Luna è il primo teatro operativo e Marte il prossimo orizzonte. La Cina avanza con un programma metodico e una rete diplomatica in espansione e gli Stati Uniti rispondono con accelerazioni tecnologiche e alleanze regolamentate. Dal canto suo, l’Italia agisce nel contesto europeo ritagliandosi spazi di autonomia e mettendo in campo partnership mirate.
E si intravedono le trame strategiche della diplomazia spaziale: questa nuova corsa allo Spazio ci fa dimenticare quella che fu la Guerra Fredda. Oggi non si gioca più sul singolo “primo passo” ma sulla capacità di operare stabilmente in ambienti extraterrestri ostili. In questo quadro ogni missione, ogni test e ogni accordo internazionale non sono solo un progresso tecnico, ma il tassello di una partita geopolitica destinata a durare decenni.

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