Pubblichiamo alcune pagine di “Cattiva fede”, in uscita per le Edizioni Dehoniane di Bologna. Lo scrittore racconta la sua adolescenza in una famiglia aderente ?a una setta protestante gallese. Oggi si considera un “ateo non praticante” che frequenta la chiesa

Mio padre e suo fratello avevano sposato due ragazze che erano cugine tra loro, così da congiungere tre famiglie già abbastanza ampie. Quasi tutti i membri del clan che ne risultava appartenevano alla Congregazione, compresi i miei quattro nonni. Erano proibite le nozze con persone che venivano dall’esterno.

Ogni setta ha bisogno di un suo gergo. Noi non avevamo chiese ma «sale», le funzioni si chiamavano «incontri», la congregazione era «l’assemblea» e gli anziani prendevano il nome di «sovrintendenti». Di domenica si andava all’incontro per tre volte, e in alcuni casi anche di sabato pomeriggio. Gli adulti partecipavano ad almeno un’altra serata durante la settimana. Avrei anche potuto farcela, ma da una certa età cominciai a non sopportare più il rigido puritanesimo della setta.

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In casa non avevamo televisore, né radio o giradischi. Erano tutte cose «mondane», termine che per noi rivestiva grande importanza. Mi sentivo spesso dire: «Non siamo cittadini di questo mondo», un’espressione che riprende la Lettera ?di Paolo ai Filippesi, dove si legge: «La nostra cittadinanza infatti è nei cieli». La frase era interpretata nel senso che non dovessimo iscriverci a partiti politici o sindacati, né arruolarci nell’esercito o entrare in associazioni di qualsiasi tipo. La Congregazione prestava più attenzione alle futili regole di Paolo che non alla magnanima saggezza di Gesù.

Un’altra brutta parola era «piacere». ?Non si frequentavano teatri, concerti o eventi sportivi. Ricordo ancora di quando mi fu spiegato che era più che giusto andare alla fiera dell’auto per acquistare un pullmino per l’evangelizzazione, ma sarebbe stato sbagliato passare una giornata là dentro solo per ammirare le macchine, perché in quel caso non sarebbe stato altro che «piacere».

Anche andare nella chiesa di un’altra denominazione era un peccato bell’e buono, specie se si trattava di un altro ramo dei Fratelli. La ribellione adolescenziale di mio padre aveva preso proprio questa forma, come venni a sapere molto tempo dopo. All’età di quindici anni papà partecipò a un incontro degli Open Brethren, gli Aperti. Ora, la distanza tra le loro convinzioni e le nostre era pressoché impercettibile. Un confratello proveniente da un’altra città era ammesso al nostro incontro solo ?se esibiva una lettera di presentazione firmata dai sovrintendenti della sua assemblea. Gli Aperti, al contrario, avrebbero accolto chiunque affermasse ?di appartenere alla Congregazione, senza praticare alcun controllo: da qui il loro appellativo. Non sono a conoscenza di ulteriori differenze. Nonostante questo, mio padre finì seriamente nei guai. (…)

Ero un adolescente e fui molto consolato dallo scoprire di non essere il primo a patire i tormenti della coscienza. La crisi fu scatenata dall’affermazione dottrinale secondo cui non siamo cittadini di questo mondo. Un’altra versione del medesimo editto viene dalla Seconda lettera di Paolo ai Corinzi: «Non v’accoppiate con gl’infedeli». Il riferimento è al giogo, l’attrezzo di legno che, sistemato sulla nuca di una coppia di animali da tiro, permette loro di arare insieme. Paolo, a sua volta, riprende una disposizione del Deuteronomio: «Non arar con un bue, e con un asino, insieme». ?I Fratelli erano troppo importanti per mescolarsi con il resto dell’umanità, ?che vaga nell’errore.

Guidati da un sovrintendente, un gruppo ?di adolescenti della nostra assemblea cominciò a visitare un ricovero per anziani una volta alla settimana, il mercoledì sera. Giocavamo a scacchi con i residenti, li ascoltavamo raccontare dei vecchi tempi. Gli anziani ci aprivano la mente e noi forse portavamo un po’ di luce nelle loro vite. Incredibilmente, questa attività fu ritenuta dagli altri sovrintendenti un esempio di «giogo ineguale» e venne perciò proibita. All’epoca avevo sedici anni ed ero perfettamente in grado di capire che si trattava di una totale assurdità. Lasciai la Congregazione e non tornai mai più.

Ero ancora cristiano: un cristiano tormentato. In quel periodo dovevo decidere che cosa studiare all’università. Scelsi filosofia, nella speranza che potesse aiutarmi a superare i miei dubbi sull’esistenza di Dio.
Lo fece senz’altro. All’University College ?di Londra la luce spietata della filosofia ?del linguaggio prese a splendere sulle idee di Platone, Cartesio, Marx e Wittgenstein. Non si discuteva molto di religione, ma in privato mi misi a esaminare le convinzioni religiose sulla base di criteri logici. Nessun dato di fede superò mai la prova. Al momento della laurea ero diventato ateo. Anzi, un ateo arrabbiato.

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