Parla il grande attore e regista italo-americano. Racconta degli eroi morti, di un suo compagno di infanzia, del suo lavoro da volontario tra le macerie. Riflette sulle guerre sbagliate. E critica i piani per la ricostruzione di Ground Zero

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Alle 8 e 46 della mattina dell'11 settembre del 2001 John Turturro era a Prospect Park, a Brooklyn, a due passi dalla casa brownstone dove viveva e dove vive ancora con sua moglie Katherine, incontrata alla scuola di recitazione di Yale, e i due figli. Aveva da poco lasciato a scuola Amedeo, dieci anni e quel nome dato in onore di Modigliani, ed era andato a portare a giocare Diego, neanche un anno, quando venne avvicinato da uno sconosciuto.

Hai sentito cosa è successo? Ma sì, al World Trade Center, pare un aereo lo abbia colpito, ma non dovrebbe essere niente di grave. Gli bastò spostarsi di un centinaio di metri, andare all'angolo del parco più esposto verso la punta di Lower Manhattan al di là del fiume, per realizzare che forse non era così. E arrivato a casa assistè attonito, come il resto dell'America e del mondo, all'orribile visione prima delle sagome di uomini e donne che si lanciavano nel vuoto dal novantaduesimo piano, poi delle torri che definivano lo skyline di New York che si sgretolavano come sabbia.

Una strage che ha cambiato la sua città e con un effetto domino il resto della nazione e poi le relazioni tra gli Stati e anche tra individui nel mondo intero. E che per Turturro ha avuto echi anche molto personali, perché tra gli oltre 3 mila morti c'erano anche suoi amici. E perché due giorni dopo, fra i volontari accorsi a Ground Zero tra brandelli di pelle che bruciavano ancora e gli odori della morte c'era anche lui, non come una celebrity con paparazzi appresso ma come il figlio di un carpentiere siciliano che da giovane aveva lavorato col padre. "Volevo fare qualcosa, qualunque cosa", ricorda.

Turturro è un attore che se c'è da fare una parte nel numero tre di "Transformers" non la rifiuta, ma i suoi fan lo ammirano soprattutto per gli spesso eccentrici e sempre originali personaggi che ha saputo creare con registi come i fratelli Coen (con i quali ha vinto una Palma d'Oro a Cannes nel 1991 con "Barton Fink" e ha fatto il ruolo iconico di Jesus, calzini rosa e retina sui capelli, in "Il grande Lebowski") e Spike Lee (con cui ha girato tra gli altri "Do the Right Thing" e "Jungle Fever").

Quarantotto anni, da una ventina ha riscoperto le sue radici italiane, perdendo 15 chili per entrare nel personaggio di Primo Levi in "La Tregua" di Francesco Rosi o poi portando in scena come regista "Fiabe Italiane", liberamente adattato dalle favole di Italo Calvino. In questi giorni è impegnato su due fronti: a spingere "Passione", il suo documentario sulla musica e l'anima musicale di Napoli che è già uno dei favoriti nella corsa all'Oscar; e nelle prove per "Relatively Speaking", tre commedie di un atto scritte da Ethan Coen, Elaine May e Woody Allen che lui dirigerà da settembre al Brooks Atkinsons Theater sulla 47ma strada. È appunto durante una pausa delle prove che rievoca con "l'Espresso" quella tragica e limpida mattina di settembre, e racconta delle sue conseguenze.

Lei ha detto di avere perso nelle Torri alcuni tra i suoi più cari amici. Vogliamo partire da qui?
"Ho perso vari amici e conoscenti ma chi mi ha colpito di più è stato Stephen Siller, un pompiere cresciuto con me, uno dei migliori amici di mio fratello. Quella mattina Steve stava andando a giocare a golf, ma quando venne a sapere quello che era successo puntò il suo pick-up verso Manhattan per andare a unirsi al suo battaglione. Scoprì che il Battery Tunnel era stato chiuso e così, con 30 chili di equipaggiamento sulle spalle, si fece la galleria a piedi per andare a raggiungere i suoi colleghi, e per poi morire con loro. È in suo onore che abbiamo organizzato una corsa di beneficenza che si tiene ogni anno a settembre, il "Tunnel to Towers Run"".

Tornato da quei giorni da volontario a Ground Zero, che città ha trovato? Che cosa era cambiato?
"Per un po' c'è stata questa strana sensazione di vivere in una piccola comunità. Ci sentivamo molto vulnerabili, sempre all'erta, le nostre giornate passate tra un funerale, una marcia e una funzione. Ma dopo un po', dopo magari tre settimane, ognuno è tornato a occuparsi dei fatti propri, a parlare delle vittorie degli Yankees, a cercare delle forme di svago. E l'arte ha aiutato, ha avuto una funzione catartica, specie la musica".

Ci sono stati anche dei film sull'11 settembre e poi sull'Iraq e l'Afghanistan, ma non hanno riscosso il favore del pubblico.

"Ci sono stati dei bei film, come "La 25esima ora" di Spike Lee che ha affrontato il tema in modo metaforico. Ci sono stati dei buoni film anche tra quelli che lo hanno affrontato di petto, ma il pubblico non era pronto ad andare a vedere al cinema ciò che era nelle news in televisione tutte le sere. Ci vuole del tempo per digerire le cose".
Ha avuto la sensazione del sopravvissuto, il senso di colpa di chi resta?
"Senso di colpa no, ma la sensazione molto comune di stare vivendo dei sentimenti e delle emozioni mai provati prima. E di sentirti impotente".

Si può parlare di perdita dell'innocenza?

"Forse siamo un po' più paranoici, ma non parlerei di perdita dell'innocenza. I nostri figli non crescono sentendosi indifesi come può accadere in altri luoghi dove vivi costantemente in mezzo alla violenza".

Le saranno tornate in mente le parole di un autore italiano che conosce bene, Primo Levi.

"Sì. certo. Non tanto per la condizione di reduci, di sopravvissuti, quanto perché Primo Levi ci ha insegnato a non giudicare i gruppi di persone e i popoli. C'è stato del patriottismo cieco, tentativi di demonizzare tutti i musulmani, ma per fortuna, non sono andati molto lontano. Purtroppo ci sono state anche delle guerre maldestre".

Già, le guerre. Parliamo delle guerre.
"Intervenire in Afghanistan è stato giusto, ma l'avventura in Iraq è stata un errore che ci ha isolato nel mondo. Adesso c'è Obama, la sua elezione è stata una bella cosa. Ma si è ritrovato a fare il presidente in un momento molto complesso. Oltre che con le guerre, ha dovuto far fronte alla crisi economica, con la gente che da noi come da voi in Italia e in altre parti del mondo ha il problema della sopravvivenza. Ora c'è anche la pentola in ebollizione del Medio Oriente, con la caduta dei dittatori, con la gente per la strada che chiede informazione, educazione e le libertà che non ha mai avuto. Ma la macchina politica degli avversari di Obama è molto forte, lo hanno come neutralizzato. Posso solo sperare che qualcosa cambi".

Torniamo a New York, alla ricostruzione di Ground Zero.

"L'intero processo ha preso troppo tempo, è diventato una questione politica e, come sempre, di soldi e di avidità. E alla fine nessuno è contento".

New York nel frattempo è rimasta al centro dell'attenzione del mondo a causa di Wall Street e di quelli che si sono arricchiti mandando milioni di persone in rovina o nelle liste dei disoccupati..
"È ironico, no? Sempre New York. La cosa grave è che nessuno è finito in prigione e che nessuno ha pagato, che anzi quelli che hanno creato i problemi adesso sono stati chiamati ad aggiustarli. Non c'è stata chiusura delle ferite, solo dei cerotti".

Finiamo con "Passione", il suo film su Napoli e la sua musica.
"Sta andando molto bene, abbiamo avuto ottime recensioni, a New York è nelle sale da ben undici settimane e sembra raccogliere molto entusiasmo. Più che un documentario, è un aneddoto, un racconto su una città piena di problemi ma anche molto stimolante e originale e con una grande anima. E sono orgoglioso di aver potuto dare il mio piccolo contributo per portare in America e nel mondo la profondità e la diversità della cultura italiana".

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