Il pianeta ha sempre più sete e gli studiosi cercano nuove soluzioni per dare acqua a tutti. Ad esempio, trasportando dal Polo ai Tropici i blocchi di ghiaccio galleggianti. Senza farli sciogliere durante il viaggio, naturalmente

Domani ci berremo un iceberg

Bere l'acqua degli iceberg per dare sollievo alla sete del pianeta è l'ultima trovata dell'ecomanager Georges Mougin. Ecco di cosa si tratta: ogni anno circa 15 mila iceberg si staccano dalla costa della Groenlandia, complice anche il cambiamento climatico. E allora perché non trainarli con rimorchiatori fino ai tropici per immetterli nelle reti idriche dei Paesi più assetati? Finora il progetto si scontrava col fatto che l'iceberg si scioglie durante il lungo viaggio. Tuttavia, ricoprendo la parte emersa delle masse di ghiaccio con un nuovo materiale isolante geotessile e sfruttando il gioco delle correnti, la cosa è diventata possibile, addirittura conveniente. Secondo i calcoli effettuati dalla società Dassault, per trasportare un iceberg di 6,5 milioni di tonnellate da Newfoundland alle Canarie alla velocità media di un nodo si impiegano 141 giorni, e solo il 38 per cento del ghiaccio si scioglie lungo il tragitto. Il resto si può bere. Acqua pura, quella dell'iceberg, formatasi nell'arco di 10 mila anni. Un po' povera di sali, d'accordo. Ma acqua. La società di Mougin - la Wpi (Water and Power from Iceberg) - tenterà il primo viaggio verso la fine dell'anno.

Un esercito di assetati
Staremo a vedere se funziona o meno. Certo è che da anni gli ecoingegneri pensano a soluzioni hi-tech per dare da bere al miliardo di assetati della Terra: dai dissalatori al riciclo dei reflui urbani, ai sistemi di raccolta dell'acqua piovana. Il paradosso è che viviamo circondati dall'acqua, che costituisce il 70 per cento del pianeta. Ma solo il 3 per cento è dolce, e solo l'1 per cento è potabile. Poca, ma sufficiente per garantire a ciascuno la sua razione giornaliera di sopravvivenza, pari a 50 litri. In teoria, perché nei fatti le cose vanno diversamente.

Lo scorso 28 luglio l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato che l'accesso all'acqua è il diritto umano per eccellenza. Eppure di questo diritto ancora non beneficia un sesto della popolazione mondiale, perché l'acqua ha il difetto di essere distribuita in modo molto diseguale. Se si compila un bilancio dello "stress idrico", fra i Paesi più a corto d'acqua figurano lo Yemen, la Somalia, Gibuti e in generale i Paesi dell'Africa subsahariana, dove in questi giorni l'allarme siccità sta spingendo migliaia di profughi a concentrarsi in campi come quello di Dadaab, in Kenya. Inoltre, nell'ultimo decennio gli aiuti internazionali sulla sicurezza idrica sono passati, secondo i dati diffusi da AidWater, dall'8 al 5 per cento del totale delle donazioni. Piace investire in scuole, farmaci e ospedali, meno in rubinetti e wc.

Ma non è solo l'Africa che ha sete. Sotto stress idrico (che si ha quando la domanda supera almeno del 40 per cento le riserve naturali d'acqua di un Paese) sono anche i ricchi Paesi del Golfo, che spendono un quinto dei proventi della vendita del greggio per produrre acqua pura con i dissalatori o succhiando l'acqua fossile dalle riserve sotterranee. Per bere, ma soprattutto per sostenere l'agricoltura locale e anche per irrigare campi da golf e giardini. Infatti, se il 10 per cento dell'acqua va per i consumi domestici, il 60 per cento serve per irrigare i campi e il 30 per turismo, energia e produzioni industriali.

Attività che necessitano di milioni di litri d'acqua. E che, unite ai cambiamenti climatici non risparmiano il Nord del mondo: la costa ovest degli Stati Uniti, l'Australia e l'Europa meridionale innanzitutto. "In questo secolo il cambiamento climatico potrebbe portare a un aumento della temperatura media dei paesi del Sud Europa e del Nord Africa da 2 a 4 gradi centigradi, e a una diminuzione delle piogge dal 10 al 30 per cento", spiega Anna Iglesias, economista agraria della Università politecnica di Madrid: "In questo modo il fabbisogno di acqua di paesi come l'Italia e la Spagna potrebbe intaccare il patrimonio di risorse idriche, come già adesso succede in paesi come Egitto, Libano e Israele". Che fare, allora? Fino a oggi le nazioni hanno risposto con soluzioni costosissime come desalinizzare il mare o comunque hard, come deviare i fiumi o prosciugare i laghi. Ma le conseguenze si pagano in termini di salute, crisi agricole che portano a pericolose fluttuazioni dei prezzi delle derrate alimentari, emergenze umanitarie ed ecologiche. Come quelle del lago d'Aral, prosciugato dall'impiego pressoché esclusivo dei fiumi che lo alimentavano per la coltivazione del cotone; del lago Ciad e del Mar Morto, che dal 1960 a oggi è sceso di 30 metri per la maggiore evaporazione ma anche per i prelievi. Mentre in India e in Cina le falde sotterranee supersfruttate scendono a livelli allarmanti.

In parte le grandi opere di canalizzazione e sbarramento vengono ritenute indispensabili per non lasciar morire di siccità intere regioni, ma su di esse è in corso anche un ripensamento. La Banca Mondiale, per esempio, che per anni le ha finanziate, sta riconvertendo parte delle risorse (1,1 miliardi di dollari l'anno) verso progetti di ecosotenibilità e maggiore efficienza nella gestione delle acque. La stessa Cina ha riconosciuto nel nuovo piano quinquennale la priorità assoluta alla conservazione delle risorse idriche attraverso la riduzione degli sprechi e il miglioramento delle tecniche di irrigazione, a cui ha destinato investimenti per 400 miliardi di dollari. Si apre insomma una nuova stagione, a caccia di un hi-tech ecosostenibile. E se l'idea di trascinare gli iceberg funzionasse, sarebbe senz'altro una di queste. Ma non è la sola.

Benedetta pioggia
Perché non farsi ispirare dai bushmen del deserto del Kalahari? La proposta arriva dall'ecologista statunitense Jackson Workman, che l'anno scorso si è aggiudicato il premio ambientale "Rachel Carson" con il besteseller "Heart of Dryness". Nel libro si descrive come le popolazioni autoctone del deserto sudafricano riescano a vivere in un ambiente praticamente privo d'acqua. "Dal Mekong al Columbia, dall'Indo al Volta al Limpopo, i grandi cambiamenti nel modo di gestire l'acqua dei fiumi scaturiscono dalle esperienze di pescatori analfabeti, di poveri agricoltori delle piane alluvionali e di profughi ambientali che non avendo più nulla da perdere si inventano soluzioni innovative per adoperare l'acqua senza far collassare interi ecosistemi", spiega Workman. Un po' alla volta, nelle pieghe dei progetti di aiuto internazionale, si diffondono nelle periferie del pianeta semplici metodi di raccolta dell'acqua piovana. Ogni giorno cadono dal cielo mille chilometri cubi d'acqua, perché non sfruttarla meglio? "Raccogliere la pioggia è diventato vitale per il futuro dell'agricoltura. Ogni contadino dovrebbe farlo attraverso pozze e cisterne", annota David Molden del'International Water Mangement Institute.
Anche l'irrigazione, che interessa il 18 per cento delle colture agricole nel mondo, può essere resa più efficiente con sistemi a goccia. Nel Punjab del Sud (Pakistan), ad esempio, la Better Cotton Initiative promossa da Wwf, Ikea e H&M ha consentito di ridurre del 15-30 per cento l'uso d'acqua per l'irrigazione nelle colture di cotone, fra le più avide.

Riciclare gli scarichi
Riciclare l'acqua è un altro obiettivo importante. In quasi tutti i Paesi in via di sviluppo l'uso di scarichi per irrigare i campi sta aumentando, talvolta anche con rischi per la salubrità dei raccolti. Meglio sarebbe impiegare le acque reflue per colture non alimentari. Oppure, come suggerisce l'Organizzazione mondiale della sanità, prevedere semplici metodi di filtraggio delle acque con sabbie e ghiaie, oppure con il tessuto del sari, come ha proposto Rita Calwell dell'Università Johns Hopkins, vincitrice del Water Prize di Stoccolma, una sorta di Nobel dell'acqua. Con questo semplice sistema di filtraggio è possibile, secondo la Calwell, ripulire le acque contaminate dal batterio del colera e da altri microrganismi. Più difficilmente accettata è invece la clorinazione delle acque, che se da un lato elimina alla radice buona parte del rischio di trasmissione di malattie infettive, dall'altra viene respinta per via del sapore sgradevole del cloro. Un altro sistema che sta prendendo piede in molte campagne africane e asiatiche è la "disinfezione solare", messa a punto nel 1991 dall'Istituto federale svizzero di tecnologia e scienze ambientali. Basta infatti esporre al sole l'acqua in bottiglie di plastica per 48 ore per ridurre in modo consistente la carica batterica.

L'acqua virtuale
Contro la penuria d'acqua, secondo Tony Allan, economista dell'acqua del King's College di Londra, la partita cruciale si gioca nel campo dell'acqua virtuale. Con questo termine, impiegato per la prima volta proprio da Allan, si intende il contenuto di acqua necessario a produrre qualsiasi merce considerando l'intero processo, dalla maglietta di cotone (2 mila litri) alla bistecca di manzo (10 mila litri per un chilo). Il segreto sta nel far sì che ogni paese produca ciò che riesce in base alle proprie riserve. Spiega Allan: "I paesi a bassa efficienza, o poveri d'acqua, devono importare acqua virtuale sotto forma di beni che a loro richiederebbero un dispendio eccessivo di risorse idriche interne".
Perché, ad esempio, l'arida Giordania si ostina a sprecare tonnellate di acqua per coltivare banane quando potrebbe importarle da paesi tropicali? Alcuni paesi, come la Cina, l'India, la Corea del Sud e gli Emirati del Golfo, hanno imparato la lezione e già oggi non solo importano parte delle derrate, ma acquistano terreni agricoli in altri paesi più ricchi d'acqua per coltivare oltre confine cereali e ortaggi. È il cosidetto "Land grabbing", che ha portato per esempio compagnie straniere ad acquistare già il 10 per cento delle terre fertili del neonato Stato del Sudan del Sud.
Certo la nuova corsa all'oro blu e ai terreni fertili potrebbe prefigurare una nuova forma di colonialismo. Ma già si pensa a possibili correttivi, come quello messo in atto in Etiopia, dove per contratto la Saudi Star Agricultural Investement si tiene il 60 per cento del raccolto, lasciando il resto alla popolazione locale.

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