Negli incontri dei prossimi giorni tra il governo di Matteo Renzi, i partiti e i sindacati dove si deciderà la sorte dei Tfr, dovrà essere sciolto un nodo delicato: se coinvolgere o meno nella riforma quei lavoratori che, oggi, versano la liquidazione nei fondi di previdenza complementare.
Si tratta di un numero molto importante di persone: gli iscritti ai cosiddetti fondi negoziali, in gran parte istituti all'interno delle categorie professionali, sono quasi 2 milioni. A questo numero, tuttavia, va aggiunto quello dei lavoratori che versano il Tfr in un fondo pensione aperto o in un piano pensionistico individuale. La Covip, la speciale commissione di vigilanza, calcola che la quota di Tfr versata ai fondi sia molto importante, pari a 5,2 miliardi di euro l'anno. I lavoratori che vi aderiscono non hanno piena libertà d'azione sui soldi accantonati.
Dopo un certo numero di anni possono ottenerne una quota importante se comprano casa o se affrontano delle spese sanitarie, ma in misura limitata è possibile ottenere un anticipo anche senza motivazioni così importanti. Molto cambierebbe se Renzi decidesse di dar loro la possibilità di sospendere le trattenute e uscire dal fondo, incassando direttamente in busta paga i quattrini che oggi vengono messi da parte per alimentare quella rendita futura che era stata pensata, al momento dell'introduzione dei fondi complementari, per attutire il taglio delle pensioni causato dalla riforma Dini.
Se davvero Renzi darà ai lavoratori la possibilità di scegliere se continuare ad accumulare il Tfr in azienda o, al contrario, di farselo pagare mese dopo mese, dovrà dunque decidere se concedere questa libertà anche ai lavoratori che lo versano nei fondi complementari. Indicazioni certe, finora, non ne sono giunte. È vero però che la materia è scottante: per molti lavoratori potrebbe non avere senso lasciare nei fondi le quote della liquidazione versate finora, se da oggi smettessero di alimentare la loro posizione con le trattenute mensili. Allo stesso tempo, però, rinunciare potrebbe essere una scelta non molto intelligente. I fondi di categoria, negli ultimi anni, non si sono mal comportati: la performance media è stata negativa solo nel tragico anno 2008 (meno 6,3 per cento), mentre è stata migliore della rivalutazione garantita dal Tfr nel 2005, nel 2006, nel 2009, nel 2010, nel 2012 e nel 2013.
In più c'è un fattore fiscale: i rendimenti del Tfr versato nei fondi sono tassati all'11,5 per cento, un'aliquota più bassa rispetto agli altri rendimenti finanziari e molto più ridotta, naturalmente, a quella che grava sui redditi da lavoro. Dove invece il Tfr “alla Renzi” finirebbe se fosse messo in busta paga.
Giuliano Cazzola, un noto esperto di previdenza ed ex parlamentare del Pdl, ritiene che sarebbe meglio proseguire con le regole attuali: «Grazie al meccanismo delle anticipazioni, i lavoratori hanno già la possibilità di avere i loro risparmi quando ne hanno bisogno, e la trappola della tassazione aumentata sarebbe davvero micidiale», dice. Cazzola boccia l'intera manovra sul Tfr pensata da Renzi, rilevando che la liquidazione resta in azienda solo nelle imprese più piccole, che rischiano di pagare il costo della manovra.
Marco Causi, deputato del Pd e membro della Commissione Finanze della Camera, dice invece di essere «a favore della libertà di scelta», a patto che venga trovato un meccanismo di parità che minimizzi lo svantaggio fiscale per chi decidesse di abbandonare il fondo pensione. «Va tuttavia detto», aggiunge Causi, «che la tassazione ridotta ha senso proprio per incentivare il risparmio: sarebbe dunque difficile ottenere un trattamento del tutto uguale tra fondi e soldi in busta paga». Della questione, oltre che nell'incontro di domani fra governo e sindacati, il Pd si occuperà nella riunione del proprio Comitato di economia e finanza, che si riunirà mercoledì sera.
Resta però un dato, a cui governo, sindacati e esperti dovranno dare una risposta. Se il meccanismo dei fondi pensione negli ultimi anni ha iniziato a funzionare, va detto che anche in questo caso il crollo del numero di lavoratori stabili, in grado di alimentare le pensioni future con i loro contributi, inizia a pesare anche qui. Nell'ultimo anno hanno sospeso i pagamenti ai fondi complementari circa 200 mila lavoratori, evidentemente restati senza reddito. E se si guarda la diffusione degli iscritti, si vede che sono sempre più rari proprio fra i giovani, quelli per i quali erano stati pensati originariamente pensati. Gran parte degli iscritti ha infatti più di 40 anni: solo il 27,1 per cento ha un'età inferiore. Il motivo è semplice: troppi pochi giovani, oggi, hanno un lavoro.