Rinuncio a definirti, allora. Pensaci tu.
«Resocontista parlamentare, con Paese Sera, dal 1959, per dieci anni. Poi informatore dal Palazzo, con Panorama e dal 1978 con L’Espresso. Qualcuno diceva: spione. Il monarchico Alfredo Covelli mi chiamava “la supposta”. Sono stato ministro: ho firmato per qualche mese una rubrica con lo pseudonimo Minister. Organizzatore di eventi: ho fatto cantare gli onorevoli davanti alle telecamere e ho convinto Vittorio Sgarbi a denudarsi per una copertina. Candidato alla presidenza della Repubblica. Stefano Rodotà che presiedeva lesse per due volte il mio nome nell’aula di Montecitorio durante le votazioni del 1992. La prima volta ci fu un brusio generale, la seconda una risata».
Ora te li ritrovi anche in casa di giorno e di notte, ma all’epoca i politici erano inavvicinabili.
«Io li andavo a cercare fuori dal Palazzo. Aspettavo Giulio Andreotti alle 6 e 30 del mattino al portone del suo studio, davanti a Montecitorio, con il taccuino in mano. “Che fai, sembri un pizzardone: mi vuoi fare la contravvenzione?”, mi prese in giro la prima volta. Mi raccontò che non era vero che fosse così imperturbabile. “Anch’io ogni tanto perdo qualche colpo”, mi disse. “Al Senato durante un dibattito le sinistre lanciavano contro i banchi del governo libri, carte, aste dei microfoni. Io vidi un cestino di vimini per i rifiuti e per proteggermi me lo misi in testa”. Il massimo della scompostezza, per lui».
A differenza di un altro capo della Dc, Amintore Fanfani.
«Avevo scritto di un suo giro in Italia, definendolo misterioso. E mi presentai al Senato per strappargli qualche notizia. Quando mi vide restò pietrificato, poi cominciò a urlare: “Lei osa venire qui, al mio cospetto?”. Mi disse di seguirlo in ascensore. Nella sua stanza da presidente del Senato mi fece una sfuriata: “Io la mando in galera!”. Aveva la bava alla bocca. All’improvviso si calmò e mi spiegò il motivo del viaggio. Gli feci una domanda, poi un’altra ancora e mi misi a scrivere. Alla fine mi chiese: “Lei ha mai visto un mio quadro?”. E ordinò a un commesso di portarne uno: una barchetta verde, con la vela gialla, in mezzo al mare blu. Io dissi che era bellissimo, con toni un po’ eccessivi, e lui lo fece incartare. L’ho portato nella casa in campagna, nella camera da letto».

Con Aldo Moro hai fatto una storica intervista.
«In Transatlantico non parlava con nessuno. Scoprii la chiesa dove andava ogni mattina e gli chiesi un’intervista. Mi promise un appuntamento e qualche tempo dopo mi disse di andarlo a trovare a Terracina, sul litorale laziale. Camminava vestito in giacca, cravatta e soprabito sotto braccio tra i passanti in costume; mi raccontò che faceva pochi bagni e che durante le vacanze aveva visto al cinema due volte “Un uomo da marciapiede”. Poi rispose alle mie domande. Mi voleva bene. Una mattina due carabinieri bussarono alla porta di casa chiedendo le mie generalità. Temevo che volessero arrestarmi. Invece mi consegnarono la nomina a commendatore della Repubblica firmata da Moro».
I più irascibili?
«Sandro Pertini. Scrissi che aspirava a essere rieletto al Quirinale e mi gridò tre volte: “serva!” davanti a tutti, alla Camera. Bettino Craxi: “Devi ringraziare il cielo che non sono diventato presidente del Consiglio”, mi disse minaccioso nel 1979, dopo aver rinunciato all’incarico. Quando riuscì ad arrivare a Palazzo Chigi per L’Espresso gli strappai un colloquio dove attaccava i giornalisti e la stampa a suo dire ostile: “Sto per rompermi i coglioni”. Scrissi tutto e successe un putiferio. Massimo D’Alema si offese perché avevo scritto del suo carattere difficile e mi rivolse una cattiva espressione che non ricordo».
I più permalosi?
«Il presidente Giovanni Leone. Lo seguii nelle sue visite all’estero e scrissi delle sue gaffe. A Tbilisi, in Georgia, si mise a dirigere un coro che in suo onore aveva intonato “Funiculì Funiculà”. In Iran, a Persepoli, di fronte alla tomba di Ciro il Grande, esclamò: “Anche a Napoli abbiamo il nostro Ciro, Ciro a Mergellina”. Quando mi incontrò mi disse: “Ecco l’ambasciatore delle male parole”. Franco Evangelisti, il braccio destro di Andreotti, sottosegretario e ministro. Mi affrontò alla buvette: “Mi hai chiamato Tigellino e hai scritto che ghigno” e mi diede tre schiaffi. Io lo aspettai di fuori, nell’androne della Camera. Lui mi venne incontro, forse voleva scusarsi, ma non gli diedi il tempo perché gli restituii i ceffoni. Ci fu un parapiglia, ci divise Carlo Donat Cattin, per mettere pace intervenne il presidente della Camera».

Una volta hai catalogato i giornalisti che scrivono di politica.
«Li ho divisi in tonni, quelli che si muovono in branco e sono innocui. I pesci azzurri, gli squaletti da passeggio che si limitano a qualche morso indolore. E gli squali, che addentano senza timore. I tonni sono sempre stati numerosi. Oggi forse più di ieri».
Come sono cambiati i rapporti tra giornalisti e politici?
«Allora c’era un’informazione molto paludata. Veline e comunicati ufficiali. I retroscena non esistevano, i politici si infuriavano perché non erano abituati a veder pubblicato ciò che doveva restare riservato. Non mi hanno mai chiamato bugiardo; si arrabbiavano perché scrivevo cose che non dovevano uscire, ma mai cose false. Oggi invece mi sembra che i retroscena siano dettati dai politici, sui giornali finiscono le frasi che loro hanno interesse a far uscire, per scambiarsi qualche messaggio in codice».
Oggi si sa tutto, c’è la trasparenza, le riunioni si fanno in streaming.
«Non è vero, non è cambiato nulla. Mi è capitato di travestirmi per captare qualche riunione segreta. Una volta chiusero un armadio in cui mi ero infilato per ascoltare un vertice del Psiup e rischiai di morire soffocato. A una riunione della Dc alla Camera io e Augusto Minzolini ci infilammo il grembiule nero degli inservienti e ci mettemmo a pulire le finestre. Dopo un po’ fummo individuati e buttati fuori».
È cambiato, forse, che la politica si fa in tv.
«Nel 1983 Enzo Tortora mi chiese di arruolare i politici per il suo nuovo programma, “Cipria”. Dovevo convincerli a cantare davanti alle telecamere per la rubrica “L’ugola del Palazzo”. In molti mi dissero di no: Alessandro Natta si offese, Craxi mi buttò giù il telefono, Andreotti mi disse che aveva la raucedine. Altri abboccarono: il segretario del Pri Oddo Biasini cantò “Signorinella”; il dc Claudio Vitalone “Tu non mi lascerai mai” sul balcone di casa, mano nella mano con la moglie; il missino Tommaso Staiti di Cuddia intonò “Nel blu dipinto di blu” gettandosi con un paracadute da un bimotore. Il meglio lo diede il dc Calogero Mannino, che si esibì sulla “Turandot” e steccò sul “Vincerò”. Per la messa in onda aveva invitato a casa sua parenti e autorità e ci restò male».
Che tenerezza! Dopo abbiamo visto di tutto: chi cucina il risotto, chi gioca a ping pong, chi si butta in testa un secchio di acqua gelida...
«In tv i politici si considerano indispensabili e parlano di tutto. Maurizio Gasparri e Andrea Romano entrano negli studi tv fin dal mattino presto, con la donna delle pulizie, e parlano di Trump e delle buche di Roma con uguale autorevolezza. Una compagnia di giro».
Li racconti per L’Espresso nella rubrica "Banana Republic". Che ti sembrano i nuovi leader?
«Renzi è politicamente spietato: un uomo indifferente, basta vedere come stringe sbadatamente le mani. Di Maio? Un figurino della Rinascente. Salvini ha la faccia familiare di un commensale del vagone ristorante. Bersani sembra lo zio di un film di Pupi Avati. Giorgia Meloni è una Le Pen a cacio e pepe...».
Non salvi nessuno?
«Mi piace Mario Monti: una persona seria che ha salvato l’Italia. E uno come Mario Draghi. Quelli che non ti predono in giro».
Tra i tuoi direttori chi ricordi con piacere?
«Livio Zanetti. Che mi assunse all’Espresso. E Claudio Rinaldi: nessuno sapeva annusare i pezzi come lui. Nel 1993 vide una foto di Luciano Benetton nudo per una pubblicità e decise di ripetere la copertina con un politico. Mi urlò: “Portami Sgarbi!”. Alla fine Vittorio accettò, interamente nudo fronte e retro, con lo slogan. “Meglio di tanti altri ben vestiti ma scandalosi”. Era l’anno di Tangentopoli. Ci costò quindici milioni di lire».
Oggi la politica si è rivestita? O è ancora nuda?
«La politica è sempre la stessa: insulti, baruffe, riappacificazioni finte. Di nuovo ci sono i trolley che scorrono sui pavimenti di marmo di Montecitorio, quando i deputati tornano a casa».