Aveva 91 anni e ci aveva inviato il suo ultimo pezzo pochi giorni fa. Storica firma de L'Espresso, è stato il primo a illuminare il "dietro le quinte" della politica, a strappare la velina dell'informazione ufficiale

Guido Quaranta, storica firma parlamentare dell'Espresso, è morto questa mattina all'ospedale Gemelli di Roma dove era ricoverato dopo essere stato colpito da un ictus lunedì scorso. Aveva 91 anni: era nato a San Francesco al Campo (Torino) il 18 giugno 1927. Non aveva mai smesso di scrivere per L'Espresso: l'ultimo suo pezzo era arrivato in redazione poco prima che si sentisse male. Di due mesi fa, invece, lo straordinario “come eravamo” di vita parlamentare che Guido ha scritto in occasione del centesimo anniversario dell’Aula di Montecitorio, e che ripubblichiamo qui.
Come eravamo
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Guido Quaranta è stato resocontista parlamentare, già con “Paese Sera”, fino dal 1959 e per dieci anni. Poi, passò “Panorama” quindi a “L'Espresso”. Lui si definiva “informatore del Palazzo” , le sue vittime l'hanno chiamato in altri modi: "spione", "supposta" e peggio. Più di tutto Quaranta è stato il primo a illuminare il dietro le quinte della politica, a strappare la velina dell'informazione ufficiale.

Il retroscena di Quaranta era allo stato genuino la rivelazione di qualcosa che doveva restare segreto. Un fine che giustificava i mezzi: i travestimenti, gli appostamenti, i pedinamenti, i nascondimenti. Una volta Aldo Moro riunì la sua corrente nell'istituto femminile Maria Rimoldi in via Teulada e prima di cominciare a parlare chiese di accertarsi che Quaranta non fosse nascosto in sala. Ma Quaranta c'era, naturalmente.
 
Guido è stato anche il primo a raccontare il fattore umano dei politici oscurato dalle grandi strategie: abitudini, passatempi, pietanze preferite, manie, odi e amori.

Quaranta ha dato voce anche ai militi ignoti del Transatlantico, i deputati comuni, i peones immancabilmente calpestati dalla volontà delle segreterie che li sovrastano, eppure pronti a colpire per certificare la loro esistenza. Una galleria composta da Guido in “Tutti gli uomini del Parlamento”, un libro di oltre quarant'anni fa, e in tutti i suoi articoli. Altro che casta, è la rappresentazione di un'umanità dolente, febbrile, rassegnata, frustrata nelle sue ambizioni troppo smisurate per essere soddisfatte (come il dc Adolfo Sarti, di cui Quaranta raccolse lo sfogo al Quirinale dopo la nomina a ministro del Turismo: «Lascia perdere le congratulazioni: non vedi che mi hanno dato un ministero di merda?»).
 
I parlamentari da lui fotografati sono piccoli uomini piombati nelle stanze e nei corridoi in cui si tessono e si disfano i destini della nazione, o almeno così si crede. Cercano di partecipare alla Comédie humaine della politica da protagonisti, ma restano quasi sempre comprimari. E più provano a elevarsi più restano inchiodati al ruolo di macchiette, con battute, esibizioni, indiscrezioni, prima di finire accasciati su un divanetto in Transatlantico.

Come i politici da lui convinti che accettarono di cantare in tv per “Cipria”. Era il 1983, la politica-spettacolo era allo stato nascente, c'era l'innocenza dei pionieri. Poi abbiamo visto di tutto: leader che cucinano, che giocano a ping pong, che si versano secchiate di acqua gelida in testa, con la pretesa, per di più, di essere considerati grandi comunicatori. Circondati dai professionisti, gli spin doctor che «si piccano», come scriveva Quaranta, di essere esperti e geni del settore. Non come gli uomini di fiducia di una volta: Franco Evangelisti che prese a schiaffi Quaranta alla buvette, ceffoni resstituiti nell'atrio, e il factotum di Fanfani Giampaolo Cresci che regalò a Guido una confidenza indimenticabile. Si inchinava ogni volta che vedeva passare un'auto blù ministeriale perché «ogni uomo politico ha piacere di essere riconosciuto per strada, e io lo accontento. A volte la macchina è vuota e io mi scappello per lo chaffeur. Pazienza, sono gli incerti del mestiere».
 
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Buffi ometti che pensano di essere nel cuore dei giochi. Una vita infernale. Debolezze, vanità, avvicinate da Quaranta con ferocia di scrittura e con simpatia personale, benevolenza, direi perfino compassione.

L'ho osservato affilare il pezzo nella stanza al secondo piano di via Po che ho condiviso con lui dopo essere stato assunto a “L'Espresso”. Per me, un mito. Lui con una sigarettina in bocca, una risata improvvisa, l'ironia, la sdrammatizzazione, la gag dell'amnesia sul nome di un politico che prepara la battuta. La cura maniacale del dettaglio che dà sapore a un personaggio.
 
Del potere Quaranta ha raccontato il volto misero, più che quello demoniaco. E l'ha demistificato, l'ha riportato per terra, nella sua fatica insensata, la lotta per la sopravvivenza quotidiana in una selva di belve affamate, ma anche sempre più disorientate. Anticipando di decenni quello che è diventata la politica oggi: un guscio vuoto, lo specchio di un'assenza. Il potere non c'è più e pensa ancora di contare qualcosa, ridicolmente.

Negli ultimi anni Quaranta i politici li descriveva nelle loro comparsate televisive, laddove il nulla si manifesta in modo compiuto. Con gli ultimi arrivati nel Palazzo che sembrano aver capito pochissimo della loro reale condizione. Si atteggiano a nuovi, nuovissimi. E invece assomigliano ai cavalieri antiqui dorotei, andreottiani. Sono solo meno rappresentativi e più antipatici.

Un maestro per tutti noi, che possiamo al massimo aspirare a seguire il tsuuo modello, figli e nipoti di Guido Quaranta.

La direzione e la redazione dell'Espresso si stringono attorno alla moglie Maria Luisa e a tutta la sua famiglia.

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