L’aplomb di Togliatti. Gli zoccoli della Bonino. I congiuntivi di Bossi. Le stagioni di Montecitorio viste da un giornalista in prima fila. «Ricordo l’abilità dialettica di Saragat e quella calma di Moro, che ti parlava come a un paziente. A porre fine all’era dell’abito scuro fu Oscar Mammì, con un maglioncino.  Poi arrivarono i jeans. E infine Cicciolina»

Quando, un pomeriggio della primavera del 1959, mi sporsi per la prima volta dal parapetto della tribuna della stampa, affacciata sull’aula affollata della Camera dei deputati, mi colpì soprattutto l’immagine di due personaggi. La prima era quella di un signore tozzo, dalle tempie imbiancate, le orecchie a sventola e un naso a becco così prominente da sembrare posticcio. Appollaiato lassù, su quell’alto scranno, in un ampio salone illuminato a giorno, assistito da commessi in divisa e al cospetto di centinaia di persone sedute nei loro banchi disposti ad anfiteatro, pareva quasi una divinità: era il presidente Giovanni Leone, un notabile democristiano di lungo corso e di mezza età. L’altro personaggio era una signora dai capelli grigi e l’aria un po’ arcigna, in piedi nel settore di sinistra: era la famosa deputata socialista Lina Merlin, di cui allora si parlava molto perché, l’anno prima , era riuscita a imporre la chiusura delle case di tolleranza nel Paese.

Da quel pomeriggio della primavera del ’59 sono stati molti i primattori, le primedonne, i comprimari e le comparse della politica che ho potuto vedere da vicino e che ho ascoltato da quella privilegiata veranda di Montecitorio riservata ai cronisti come me e che ho frequentato per parecchi anni della prima Repubblica. Eh sì, da Almirante a Berlusconi, passando per Nilde Iotti, sono stati proprio tanti.
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Ricordo che Palmiro Togliatti, il capo del Pci, aveva uno sguardo severo e l’oratoria elegante: di solito compariva nell’emiciclo quando era prevista una votazione delicata e importante o se doveva pronunciare un discorso. Il segretario socialista Pietro Nenni, il volto solcato da mille rughe sottili, era un parlatore impetuoso: con la sua foga tribunizia trascinava sempre l’assemblea. Il leader dei liberali, Giovanni Malagodi, perennemente in doppiopetto blu, aveva, invece, il tono secco e uniforme dell’amministratore delegato che illustra la relazione di bilancio ai soci: quando interveniva non faceva quasi mai una pausa. E il repubblicano Ugo La Malfa, infine, era talmente preso dal suo amour fou per la politica che, quando ne discuteva nei dibattiti, si scuoteva tutto, agitando testa, torso, spalle, braccia e gambe.
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Non dimenticherò l’aspetto massiccio e incombente del socialista Riccardo Lombardi che improvvisava i suoi aspri, frequenti, astrusi e torrenziali discorsi lì per lì, senza badare al foglietto di appunti che lasciava regolarmente riposto sulla tavoletta del suo seggio; come rammento, altrettanto nitidamente, gli interventi asciutti, rari e meditati dello scrittore Leonardo Sciascia, un deputato molto riservato del partito radicale: una volta, durante un’ accesa ed estenuante discussione sul terrorismo, si limitò a parlare soltanto per nove minuti.
Diversi onorevoli erano colti e preparati. Uno di loro, per esempio, era Giuseppe Saragat, leader dei socialdemocratici, che entrava nell’aula della Camera sempre con il Times e il Figaro sotto il braccio: più che un grande tribuno, era un abile argomentatore. Un altro è stato il segretario comunista Enrico Berlinguer: aveva un sorriso luminoso e triste, la voce assai pacata e lievemente rauca per le molte sigarette che fumava; e pure lui giungeva reggendo, sotto il braccio, un voluminoso fascio di giornali. E poi c’era il leader democristiano Aldo Moro, con quella sua frezza bianca sulla fronte, la voce calma, distaccata, distante e quell’eloquio da soave anestesista.
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Molti, invece, erano alquanto diversi. Alcuni usavano un linguaggio ampolloso, infarcito di “altresì ”, ”pertanto” e “qualsivoglia”. Altri tendevano alla retorica, con polverose citazioni in latino. Altri ancora si esprimevano con il gergo oscuro, involuto, allusivo, il cosiddetto politichese, in uso soprattutto nelle stanze dei partiti della sinistra. Certuni, poi, cedevano al tono professorale, scantinavano nel dottrinario, se ne uscivano con espressioni care agli avvocati di pretura, tipo “ Bene ha fatto!” o ”Come non ricordare?” . Parecchi, infine, discettavano sul nulla: un giorno gli onorevoli battibeccarono sull’eventualità di abbassare l’Iva sul basilico, la salvia, il rosmarino, lasciandola però intatta sul prezzemolo.
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C’era chi offendeva la sintassi o non rispettava la grammatica e, se graziava l’una era difficile che avesse pietà dell’altra. Rammento il capo della Lega Nord, Umberto Bossi, camicia verde, modi bruschi e, soprattutto, lessico sgangherato. Una volta, mentre pronunciava un suo colorito discorso, il presidente di turno, Alfredo Biondi, lo interruppe bruscamente e gli disse: «Onorevole, largheggi pure quanto vuole con gli aggettivi ma, per favore, sui congiuntivi, si controlli!».
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E c’era persino chi sembrava ignorare il significato delle parole. Un giorno, per esempio, un sottosegretario all’Interno, il socialista Aldo Venturini, chiamato a rispondere in Parlamento delle violente cariche della polizia durante una manifestazione studentesca a Roma, lesse un rapporto compilato dai funzionari del suo Ministero e concluse con tono rassicurante: «Onorevoli colleghi, posso, comunque, garantire la Camera che tutti i feriti sono stati portati al Politecnico». Mi hanno raccontato che un leghista del Trentino, Rolando Fontan, distratto dall’incessante chiacchiericcio dei colleghi seduti alle sue spalle, osservò, irritato, che non poteva continuare il suo intervento con quel ”ronzino” sulla testa. Quante ne hanno sentite, poveretti, i due stenografi che, ogni cinque minuti, si davano il cambio a un tavolino posto al centro dell’emiciclo, fornito di un altoparlante, appuntavano tutti gli interventi alla velocità di 160 parole al minuto.

Mi piace anche ricordare che, qualche anno prima del’59,era d’obbligo, per i deputati, accedere all’aula in abito scuro ed era assolutamente vietato entrarvi senza la cravatta. Ma, a poco a poco, quelle severe regole sull’abbigliamento sono state trasgredite e l’avvio lo diede un ministro, il repubblicano, Oscar Mammì che, tra le occhiate sgomente dei commessi e la sconcertata sorpresa dei colleghi, un bel giorno comparve con una maglietta dolcevita. Poi è stata la volta di un deputato comunista, Antonello Trombadori: reduce da un viaggio a Canton, sfoggiò una giubba di panno blu come quelle dei militari della Repubblica popolare cinese. Quindi fu il turno di un suo collega piacentino, irriducibilmente fascista, Carlo Tassi, che riesumò trionfante la camicia nera. E, infine, un giovane e belloccio democratico di sinistra, il padovano Pietro Folena, si esibì con pantaloni color vinaccia e, addirittura, con un paio di scarpe da tennis ai piedi: quasi un indossatore di Dolce & Gabbana.
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A quel punto, anche diverse onorevoli si affrettarono a imitare i colleghi. La radicale Emma Bonino comparve calzando audacemente gli zoccoli, divisa d’ordinanza delle prime femministe. Alessandra Mussolini, di Alleanza nazionale, optò per i blue-jeans. L’onorevole Cicciolina inaugurò un abito di lamé aderentissimo. E la berlusconiana Mariella Scirea si mostrò con i guanti di pizzo bianco lunghi sino al gomito come quelli che, ai suoi tempi, la soubrette Wanda Osiris metteva andando in scena. L’unica penalizzata dal nuovo corso, ormai accettato da tutti, fu Anna Maria Ciai, comunista, il giorno in cui mise, la prima volta, i pantaloni: erano così attillati che, in aula, al momento di sedersi, si squarciarono. Imbarazzata, raggiunse l’uscita camminando prudentemente all’indietro, un commesso le fece galantemente da scudo e, procedendo passo passo alle sue spalle, la scortò sino al laboratorio della sartoria della Camera per la riparazione.
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Non ho assistito ai frequenti tumulti che, soprattutto nei primi anni Cinquanta, hanno infuocato l’aula: con le parlamentari comuniste che colpivano i deputati democristiani sotto la cintura e con i loro compagni di partito che lanciavano penne, libri, scartoffie e le tavolette scardinate dei seggi contro il banco del governo occupato dai ministri. Giulio Andreotti, allora presidente del Consiglio, mi ha raccontato: «Una volta mi riparai in extremis da quel terribile diluvio di oggetti con un cestino di vimini: stava, per fortuna, sotto il mio banco accanto ai piedi, lo afferrai di colpo e me lo misi in testa».

Finita la storica stagione degli scontri fisici, la contestazione parlamentare ha perduto la spettacolarità di un tempo e spesso si è ridotta a qualche carnevalata: come quando il leghista Luca Leoni Orsenigo, all’epoca buia di Tangentopoli, sventolò dal suo seggio un cappio da forca per indicare la sorte che, secondo lui, meritavano i corrotti. E un altro leghista, il torinese Mario Borghezio, scalmanato sostenitore dell’ avvento della Padania indipendente, pronunciò un discorso in dialetto piemontese esordendo così: «Monsù President, colega parlamentar, ancheuj…». Proseguì affermando che l’italiano era ormai una “lingua da colonia”. E questo è quanto.