Con la fine dell’era di Angela Merkel addio leadership

Senza la Cancelliera l’Europa resta priva di una guida forte. A Roma la stabilità del governo Draghi si appoggi sulle debolezze e divisioni dei partiti. Riforme senza partecipazione

Quando fu eletta cancelliera della Repubblica federale tedesca, il 22 novembre 2005, alla Casa Bianca regnava George W. Bush, in Italia governava Silvio Berlusconi, i principali partiti italiani si chiamavano Forza Italia e Alleanza nazionale, Ds e Margherita, nel frattempo quasi tutti estinti. Sedici anni dopo Angela Merkel si prepara a lasciare la guida della Germania, ha raggiunto il record del suo mentore (poi ripudiato) Helmut Kohl, è rimasta al potere per tre mandati su quattro alla guida di una grande coalizione di centro-sinistra, i democristiani della Cdu-Csu con l'alleato minore, i socialdemocratici della Spd.
Ha incontrato quattro presidenti americani, quattro presidenti francesi e ha visto sfilare a Berlino otto presidenti del Consiglio italiani di dieci governi diversi, di ogni colore politico: centrodestra, centrosinistra, tecnici, di larghe intese, gialloverdi, giallorossi, di unità nazionale. Un tourbillon che da solo testimonia la tormentata instabilità italiana e la marmorea stabilità tedesca, nel cuore dell'Europa, nel segno di questa donna venuta dall'Est, figlia di un pastore luterano, laureata in fisica e ricercatrice di chimica quantistica, ribattezzata Mutti (mammina) e Merkiavelli, per la spregiudicatezza nell'uso del potere, considerata un camaleonte per la tattica e uno scorpione per la brutalità con cui ha eliminato amici, nemici e il maestro Kohl.


Dieci anni fa, di questi tempi, la cancelliera era contestata nelle piazze di mezza Europa, rappresentava il volto cinico del continente che aveva trascinato la Grecia nella miseria e stretto il cappio del rigore finanziario attorno al collo delle economie nazionali, a partire da quella italiana.
Il 3 agosto 2011, dieci anni fa, Berlusconi fu costretto a spostare l'orario del suo intervento alla Camera dopo la chiusura delle borse, per evitare di parlare con le borse in picchiata e lo spread in ascesa. «Non dobbiamo inseguire i nervosismi del mercato finendo per aumentarli», avvertì stravolto, lui che aveva cominciato la sua carriera da politico offrendosi al Paese come il thatcheriano a colori che era sempre mancato. Il giorno dopo il premier si presentò nella sala stampa di Palazzo Chigi con il ministro dell'Economia Giulio Tremonti per presentare una manovra economica di emergenza che avrebbe costretto il Parlamento a lavorare anche a ferragosto e a sorpresa battibeccò davanti ai giornalisti con Tremonti sul ruolo della Banca centrale europea. Quel giorno era arrivata la lettera della Bce che imponeva al governo italiano alcune misure urgenti per salvare l'economia, firmata dal presidente uscente, il francese Jean-Claude Trichet, e da quello entrante, l'italiano Mario Draghi. Fu poi il sorrisino della Merkel, insieme a Nicolas Sarkozy, a seppellire qualche mese dopo il governo Berlusconi.


Nel 2015 la Merkel ha saltato oltre la propria ombra, come recita un proverbio tedesco, ha superato se stessa quando ha spalancato le frontiere della Germania a ottocentomila rifugiati siriani, salvo poi volare un anno dopo ad Ankara per chiudere l'accordo dell'Unione europea da sei miliardi di euro con il presidente Recep Tayyip Erdogan che tratteneva i migranti in Turchia. Un modello che ora si vorrebbe replicare con un fondo di otto miliardi da stanziare nei paesi del Nord Africa. «La pace è fragile», disse la cancelliera ad Assisi il 12 maggio 2018 ricevendo la lampada della pace dal superiore del Sacro Convento frate Mauro Gambetti, nominato cardinale da papa Francesco. Nella fragilità della pace e della costruzione europea la Merkel ha attraversato tutte le emergenze di questi anni: la recessione, la crisi dei debiti sovrani, le ondate migratorie, la pandemia del Covid-19. In alcuni casi riuscendo a guidare i processi, in altri subendoli, o addirittura provocandoli.


Gli storici studieranno a lungo la relazione tra le scelte della Merkel sull'austerità e l'esplosione dopo il 2010 dei movimenti populisti, in gran parte ostili all'Europa, dunque a lei, e il rapporto tra l'apertura ai migranti nel 2015 e il consenso incassato dai partiti della destra sovranista e xenofoba in Germania ma anche in Italia. Due paesi dal destino introciato: di recente unità nazionale, meno di due secoli fa, incubatori della peste fascista e nazista nella tragedia del Novecento, distrutti durante il secondo conflitto mondiale e poi protagonisti della ricostruzione e del miracolo economico, portatori di un modello originale di welfare, l'economia sociale di mercato, divisi al loro interno dalla guerra fredda, da un muro di mattoni e da due stati diversi la Germania, dal fattore K e da un sistema bloccato l'Italia, protagonisti e artefici delle nuove istituzioni europee, volute dai cattolici Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi.


Due storie parallele che esaltano ancora di più la distanza dei due sistemi politici. Impenetrabile, almeno finora, il sistema tedesco, fondato sul mito della stabilità politica e sui partiti storici rimasti indenni dai cambiamenti epocali: in Germania trent'anni fa la fine della guerra fredda significò la riunificazione, in Italia il collasso della Repubblica dei partiti. Vulnerabile e percorso da qualunque scossa di terremoto il sistema italiano, con l'instabilità di governo, il carosello dei leader e dei partiti.


L'addio della Merkel apre un vuoto di leadership. In Germania potrebbe segnare l'inizio dell'instabilità governativa, in assenza di capi carismatici in grado di prendere il suo posto (Roberto Brunelli, pagina 18). In Europa nel 2015 L'Economist la definì «the indispensable European», in questi sei anni è diventata ancor più necessaria. Gli agiografi di casa nostra sostengono da mesi che sarà sostituita dal presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, ma si tratta di una notizia largamente esagerata.
La leadership di Draghi in Italia è forte, fortissima, e il premier si sta confermando ogni giorno che passa il più raffinato dei politici, divide e impera, accelera e media, come è accaduto sulla riforma della Giustizia, ma la sua centralità poggia su un insieme di debolezze, sull'assenza di un sistema, su una classe dirigente svanita, come dimostrano le candidature nelle principali città italiane per le prossime elezioni amministrative, in larga parte inadeguate, ma anche l'odissea del Monte Paschi di Siena e perfino le grandi manovre per l'elezione del presidente della Repubblica, in cui si torna sempre al punto di partenza, ai due presidenti, Sergio Mattarella e Mario Draghi.


La società resta in gran parte a guardare. Assiste, come si fa alle gare delle Olimpiadi, alla corsa di Marcell Jacobs, al salto di Gimbo Tamberi. La crescita economica sfiora il sei per cento dopo la catastrofe del 2020, ma le reti di connessione si sono quasi spezzate, le filiere vivono nella difficoltà di riorganizzarsi, l'Italia resta un paese fragile, come affermano i ricercatori del Politecnico, nelle sue strutture produttive e nei territori messi alla prova dagli effetti del cambiamento climatico, del dissesto, dei controlli inesistenti e delle mancate manutenzioni, bisogna ripeterlo oggi, a tre anni di distanza dal crollo del ponte Morandi con le sue 43 vittime. I dati Inail segnalano il 2021 come l'anno più drammatico per le morti sul lavoro, più 11 per cento rispetto al 2019, l'ultima è Laila El Harim, operaia morta incastrata nel macchinario a Camposanto (Modena), come Luana D'Orazio in aprile. Sulle coste continuano gli sbarchi, al 3 agosto sono stati 29.968 i migranti arrivati in Italia (14mila nel 2020, meno di 4mila nel 2019), 4762 i minori non accompagnati (in tutto il 2020 furono 4687), 1173 i morti nel Mediterraneo. Non li vediamo perché non se ne occupa più nessuno, nel governo di unità nazionale la polemica politica si è spenta, a tenerla accesa è rimasto solo Matteo Salvini che usa le persone in fuga da Tunisi per trovare uno spazio mediatico, ma i rifugiati e i morti in mare non fanno agenda, su di loro si sono spenti i riflettori. Un silenzio che fa riflettere da ultimo sulla fragilità del sistema dell'informazione italiano, tra crisi industriali, conformismi e faziosità ben distribuite.


Tutto questo trasforma l'emergenza perenne in uno strumento di governo, uno stato di emergenza "costituzionalizzato" come «conseguenza inevitabile di governi deboli e partiti sradicati», lo scrive Massimo Cacciari nelle pagine che seguono. L'Italia è da anni un laboratorio di questo esperimento sul corpo vivo della democrazia, ma senza attori politici in grado di operare davvero, ed è la causa profonda per cui in nessun paese europeo i partiti populisti hanno raccolto una quantità di consensi paragonibile a quella dei nostri. Senza di lei, come scriviamo questa settimana in copertina sono la Germania e l'Europa (e l'Italia). Senza Angela Merkel, ma più in profondità senza la leadership, se per leadership si intende non soltanto la permanenza al potere o la capacità di comando centralizzata, ma la rappresentanza di un paese nelle sue pieghe più profonde. Che nelle società complesse non può essere affidata in modo verticale solo alle virtù del principe (del premier), ma richiede un sistema di partecipazione diffuso e organizzato sui territori. Quando Adenauer morì, nel 1967, Gunther Grass scrisse su Stern «l'orazione funebre per un avversario»: «I suoi avversari non erano all'altezza. I suoi seguaci non sono alla sua altezza. Con la sua morte la Cdu rimane orfana, per quanto ambiziosi siano i patrigni che si sceglierà. Le figure paterne non si lasciano manipolare». Vale anche per una figura femminile come la Merkel. E vale per ogni leadership, anche in questo tempo senza politica.

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