Addio Papa Francesco, "genio y figura hasta la sepultura"

Un ritratto del pontefice "venuto dalla fine del mondo"

«Genio y figura hasta la sepultura» si usa dire in Argentina per descrivere una personalità inossidabile. E Papa Francesco lo è stato fino alla fine, anche quando una seria infezione respiratoria, l’ennesima dopo numerose bronchiti, lo ha costretto in ospedale a lungo, a inizio 2025. È stato il quarto ricovero dal 2021, se si considera l’operazione al colon. Poi, però, Papa Francesco è uscito dall'ospedale e ha anche partecipato alle celebrazioni pasquali di questi giorni. Si è mostrato al pubblico, il recupero sembrava procedere bene. Invece, la mattina del 21 aprile, è morto.

«Nei confronti della mia morte ho un atteggiamento molto pragmatico» disse a Carlo Musso nella sua autobiografia Spera, tanto da aver semplificato il rito funebre e aver disposto già in vita il suo luogo di sepoltura, nella basilica di Santa Maria Maggiore. A casa Santa Marta aveva invece scelto di vivere, facendo di un ospizio di anziani cardinali una casa: la risposta alla tentazione di una chiesa vista come un centro benessere. Non per lui, che aveva scelto di farsi gesuita dopo la «sofferenza forte» di un’asportazione parziale del polmone destro in gioventù. Una patologia polmonare legata alla sua vocazione quasi come un destino, fedele a un’idea di missione che coincide con lo stare scomodi: «La sofferenza non era scomparsa, ma assumeva un valore diverso, un significato» ricordava di quegli anni.

Da Plaza De Mayo a Piazza San Pietro

Quando il 13 marzo 2013 è stato eletto 266esimo pontefice della chiesa cattolica romana al quinto scrutinio, Francesco si è presentato come il «Papa venuto dalla fine del mondo». Poi la fine del mondo l’avrebbe trovata lì, nel centro millenario della cristianità divenuto il cuore in affanno di un’Europa che «non genera più nulla», come disse il suo caro amico, l’uruguyano Guzmán Carriquiry Lecour. Quando era arcivescovo di Buenos Aires aveva sempre mantenuto le distanze dalla curia, visitandola lo stretto necessario per poi ritornare nella sua diocesi, che chiamava «esposa». Ma congedarsi dalla megacity per la città eterna fu il primo pezzo da pagare ai 115 cardinali che lo avevano eletto in quel tardo pomeriggio del 2013 contro ogni pronostico esterno, che lo dava sfavorito persino rispetto a un altro argentino, il cardinale italoamericano Leonardo Sandri. Quando era un giovane gesuita ansioso di andare in Giappone, era stata la sua salute cagionevole a spegnergli ogni ambizione missionaria. Ci sarebbe tornato nel corso del suo 32esimo viaggio apostolico nel 2019, nelle vesti del papa più contemporaneo del cattolicesimo, alla guida di una chiesa votata all’insuccesso, com’era quella di Paolo, l’Apostolo che, dopo il discorso all’Aeropago di Atene, riesce a convertire solo pochissimi ateniesi. Per capire che papa è stato Francesco è sufficiente andare alle sue prime battute, il teologo Ghislain Lafont riflette sulla sua prima benedizione urbi et orbi quando, chiedendo di essere benedetto appena uscito dalla Cappella Sistina, «aveva rovesciato l’ordine. Loro prima, lui dopo». Sembra esser trascorso un tempo siderale fra il primo Bergoglio, gli occhiali austeri dell’ex provinciale dei gesuiti che aveva trascorso i suoi migliori anni al Colegio Máximo di San Miguel di Córdoba, e l’ultimo Francesco, il papa di tutti, anche dei non cattolici. Da Plaza de Mayo, e i suoi 30mila desaparecidos della dittatura argentina di Jorge Rafael Videla, a piazza San Pietro avrebbe dato voce ai cosiddetti nadies dell’intellettuale uruguayano Eduardo Galeano, i sobrantes disprezzati e dimenticati nell’indifferenza del mondo. Francesco ha preso questo tema sociale impregnandolo di un’urgenza cristiana che bastava da sola a condannare l’Occidente del believing without belonging, come ha fatto in tutti i suoi viaggi in Oriente, fra tutti quello in Iraq nel 2021, davanti alla Ziqqurat di Ur, luogo di partenza da cui partire per «guardare il cielo». 

La fine del vecchio mondo

Primo pontefice non europeo dopo 1.200 anni, Papa Francesco ha messo le missioni in cima alle priorità della chiesa romana. Praedicate Evangelium, la costituzione sulla Curia da lui promulgata nel 2022, col Dicastero per l’Evangelizzazione al vertice, ha soppiantato la chiesa di massa del passato fatta di tanta farina e poco lievito: «Per molti anni abbiamo avuto la tentazione di credere, e in tanti siamo cresciuti con l’idea che le famiglie religiose dovessero occupare spazi più che avviare processi, e questa è una tentazione […]. Ma io non ho mai visto un pizzaiolo che per fare la pizza prenda mezzo chilo di lievito e 100 grammi di farina, no. È al contrario. Il lievito, poco, per far crescere la farina» disse davanti al clero riunito nel Duomo di Milano nel 2017. Una visione che, però, non lasciava spazio al disfattismo. Neppure nel periodo più buio della pandemia, quando il 27 marzo 2020 portò in mondovisione le preghiere di un’umanità insidiata dal coronavirus. Nel momento più difficile a livello mondiale, quell’uomo vestito di bianco tenne accesa la speranza «la virtù teologale più sottovalutata» ebbe a dire una volta. Fu un un’intuizione anche mediatica, quel kolossal religioso, con un record di streaming di oltre 5 milioni. A differenza dei suoi due immediati predecessori, che all’Apocalisse avevano trovato un tempo – per Ratzinger fu il movimento di liberazione sessuale del Sessantotto – e uno spazio – per Wojtyła era il blocco dei paesi comunisti -, Francesco ha interpretato la fine del mondo come l’avvento di un nuovo mondo. Non è un caso che la sua prima enciclica dopo la pandemia, la Fratelli Tutti, suonava come un manifesto laico alla fraternità universale.

Il Papa hashtag

Lo aveva intuito il Time che, nella sua prima copertina, lo aveva dipinto come il «Papa del nuovo mondo». Un’altra copertina, quella di Rolling Stone, lo definì il «Papa pop», l’immagine del pollice alzato a imitare un meme virale di Gesù. È stato il primo cambiamento di una metamorfosi: prima c’era il papa nero, l’arcivescovo di Buenos Aires solitario su un tram, l’austero provinciale dei gesuiti che non aveva remore nel definire i britannici che sottrassero agli argentini le isole Malvinas «usurpatori». C’era il moralista, che condannò pubblicamente la proposta di legge argentina sulla legalizzazione del matrimonio e delle adozioni omosessuali. Tracce di questa retorica, che non erano certo il regno della misura, sono rimaste nelle conferenze stampa a braccio, negli strali negli al clero di Roma, nella freddezza con cui ha definito i medici pro-aborto «sicari». Le conferenze stampa tenute di ritorno dai suoi viaggi apostolici hanno sempre mostrato questa sua incontinenza delle parole, ma anche il modo gesuitico di glissare su questioni spinose, tanto da far parlare di «magistero in volo» del papa. Francesco non ha avuto bisogno di spin doctor, malgrado le persone satellite che hanno orbitato attorno alla sua aura. Le sue frasi sono diventate slogan prima che lui ne cogliesse il potenziale, come quando nel 2013 sdoganò la parola gay nella dirompente domanda: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?» fino alla chiesa che ha posto per «Todos, todos, todos» pronunciato alla Gmg a Lisbona dieci anni dopo, anafora di un’inclusività della porta socchiusa.

L’era dei due papi

Con Papa Francesco è iniziata l’era dei due papi. Nel presente c’erano lui e Benedetto XVI, l’emerito, sempre meno loquace e sempre più antimodernista. Bergoglio ne ha scardinato i lucchetti dottrinali, come nel caso della comunione ai divorziati in Amoris Laetitia o la spinta a includere nella vita della chiesa anche i credenti Lgbtqia+. Ha spogliato la messa di quel lessico liturgico che per Ratzinger era espressione stessa di fede, attraverso la lettera apostolica Traditionis custodes. Francesco e Benedetto hanno mostrato come una manciata di chilometri quadrati possa riflettere mentalità ben più distanti. Ma Francesco ha anche mostrato che il tempo dei due papi era già iniziato prima di lui: da una parte Giovanni Paolo II, il «santo subito», dall’altra Giovanni XXIII, il «papa buono», che non esitò a canonizzare nello stesso giorno. Per poterlo fare, Francesco rinunciò al secondo miracolo per papa Roncalli legando così, nella santificazione collettiva, le due anime giustapposte della chiesa contemporanea: la profezia del Vaticano II di Roncalli e la pulsione a frenarne la portata di Wojtyła. Jason Berry, autore di Render unto Rome ha scritto che «Papa Francesco ha preso una decisione politica calcolata nel canonizzare i due papi, cercando di portare una certa unità in una chiesa fratturata». Bergoglio ha cercato il dialogo, rispettando le diverse facce della chiesa. Nel suo primo testo magisteriale, la Evangelii Gaudium, scrisse: «Il modello non è la sfera, che non è superiore alle parti, dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro. Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità». È la più autentica immagine della chiesa universale di Paolo che riconosce la dignità dell’imperfezione. In questo, Bergoglio raccoglie il testimone della giovannea Pacem in Terris che distingueva l’errore dall’errante. La guerra il suo grande nemico, genitrice di quello che chiamerà cainismo con un neologismo efficace, bastante a descrivere la lotta tra fratelli, come lo era stato Giuda, l’apostolo di Cristo. Lui, che la guerra l’aveva vista durante il golpe militare, quando Giuda aveva le sembianze di l’ufficiale della marina militare argentina Gustavo Niño, «l’angelo biondo», la spia che marchiava col bacio i dissidenti.

Francesco, umanesimo e Vangelo

Nei discorsi di Papa Francesco tornava il concetto di umanesimo condiviso e anche in questo c’è un punto di contatto con Giovanni XXIII. Come ha scritto il cardinale Víctor Manuel Fernández in Teologia espiritual incarnada: «Spirito non è l’anima immateriale, ma l’azione divina nel mondo». Bergoglio, come Roncalli, ha favorito il disgelo diplomatico fra gli Usa e Cuba. Nell’isola caraibica, il pontefice latinoamericano ha offerto un sogno alternativo a due simboli in crisi, quelli del capitalismo e del comunismo. Sempre lì, nell’aeroporto de La Havana, gettò l’acqua sul fuoco del patriarca di Mosca Kirill e su tutta la chiesa russa ortodossa: non avrebbe mai immaginato che quello storico abbraccio sarebbe diventato un gesto di distensione inefficace alla luce dell’invasione russa dell’Ucraina, quando la croce ortodossa venne usata come grimaldello verso un Occidente visto come la tomba dei valori. Per Papa Francesco l’immaginazione era profezia, tanto da aver conferito praticità a una parola confinata nell’etere delle buone intenzioni: sogno, tanto quanto lo era stato per pastore battista Martin Luther King, peraltro menzionato nel suo discorso davanti al Congresso degli Stati Uniti d’America nel 2015. Querida Amazonia, la sua esortazione sulla regione panamazzonica, era un tutto un periplo dei sogni del sogno culturale, ecologico e sociale del mondo, tanto da fondersi in quell’espressione tanto francescana come ecologia integrale. Nell’enciclica Fratelli Tutti, «sogno» chiosa l’invocazione a Dio finale: «Ispiraci il sogno di un nuovo incontro, di dialogo, di giustizia e di pace. Stimolaci a creare società più sane e un mondo più degno».

Il Monastero e Santa Marta

Molti hanno accusato Francesco poca teologia. Sin dagli anni alla guida della Conferenza episcopale argentina, Bergoglio era stato soprattutto «el pastor», ripeteva spesso che all’arroganza dei teologi corrisponde la presunzione dei pastori: la sua era la fede dei piccoli, del less talk e del more walk, della vecchia che lo redarguisce al confessionale, del prete confessore a cui ruba, dal cadavere esposto per le esequie, la croce come una reliquia. Come già scriveva la Commissione Teologica Internazionale: «Vescovi e teologi hanno una chiamata diversa, e devono rispettare le rispettive competenze, per evitare che il magistero riduca la teologia a mera scienza ripetitiva, o che i teologi presumano di sostituirsi all’ufficio di insegnamento dei pastori della Chiesa». Papa Francesco ha concepito una chiesa dallo sguardo evangelico, opposta a quello che Romano Guardini aveva chiamato «soggetto anonimo», che discuteva di cose astratte, lontane dalla vita della gente. Tra lui e Ratzinger, il papa teologo, la distanza era evidente, lo stile di Benedetto XVI era stato la prosa, quello di Francesco era poesia: a chi lo accusava di ignoranza teologica, Bergoglio rispondeva citando il pensiero di Romano Guardini, il filosofo tedesco a cui dedicò una tesi di dottorato mai terminata: «Da Guardini ho imparato a non pretendere certezze assolute su tutto, sintomo di uno spirito ansioso» rispondeva, come se il pensiero fosse la premessa all’azione: «Un orecchio per ascoltare la Parola di Dio e un orecchio per ascoltare il popolo» gli ripeteva monsignor Enrique Angelelli, ucciso brutalmente il 4 agosto 1976 in quel ventre insorgente che era l’America Latina, dove imparò la teologia del popolo, alla scuola del gesuita Juan Carlos Scannone: «Nei miei viaggi apostolici a Te- muco, tra il popolo Mapuche, e a Puerto Maldonado, tra quelli dell’Amazzonia, o in Chapas, e alla conferen- za di Aparecida, ho respirato la saggezza, le conoscenze e anche le profonde ferite di quegli uomini e di quelle donne. Eppure troppe volte, e in modo sistematico e strutturale, quei po- poli sono stati incompresi ed esclusi dalla società». In Bergoglio già c’era Francesco nel 2007, durante la Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano e dei Caraibi (Celam) nella città brasiliana di Aparecida. Lì il cardinale Bergoglio, chiamato a redigere il documento finale, fa conoscere ai cardinali la sua visione profetica, che prende forma nella Teologia del popolo, dove gli abbandonati non sono più visti come oppressi, ma come «sobrantes», scarti, «eccedenti». Bergoglio è Francesco nell’omelia del 16 maggio 2007, l’unica applaudita in quei venti giorni di ritiro: all’incendiaria Teologia della Liberazione lui opponeva la distensione.

Contro devozioni e bigotti

Dopo gli anni della dittatura argentina, Bergoglio è stato circondato da un’aura politica: prima peronista, poi comunista, negli anni precedenti la vocazione non nascose di leggere il giornale dei comunisti argentini, Nuestra Palabra, sebbene non condividesse tutto. In lui c’era un interesse per le persone, come fu prima la sua mentore Esther Ballestrino de Careaga, catturata dalle guardie e scomparsa nel 1977, e poi Giorgio Napolitano, che Henry Kissinger chiamava «il mio comunista preferito» nel pieno della guerra fredda. Quando il 22 settembre 2023 fece visita alla camera ardente dell’ex presidente della Repubblica, il suo gesto spiazzò tutti. Della sua politica dei gesti, non passò inosservato il regalo donatogli dal presidente Evo Morales nel 2015, la famosa croce a forma di falce e martello. Quel crocifisso era una riproduzione – realizzata dal sacerdote gesuita Xavier Albo - di quello che teneva accanto al proprio letto Luis Espinal, il gesuita spagnolo ucciso in Bolivia dai paramilitari nel 1980. Ma tanto bastò per cucire addosso al papa argentino la prima delle tante, innumerevoli contro-narrazioni. Gli hanno dato la colpa di tutto, delle chiese sempre più vuote, dell’eccessivo secolarismo, di non aver detto chiaramente da che parte stare nel conflitto russo-ucraino o in quello israelo-palestinese. Al lento collasso del mondo, ritratto con efficacia nell’immagine della «terza guerra mondiale a pezzettini», Francesco oppose una fiducia cieca nel mistero di Dio. Ma non ha fatto della religione la benzina di un misticismo geopolitico, come fece Giovanni Paolo II con la Madonna di Częstochowa prima e di Fatima poi: «Quale Maria? La Vergine Maria del Vangelo, venerata dalla Chiesa orante, o invece una Maria abbozzata da sensibilità soggettive che La vedono tener fermo il braccio giustiziere di Dio pronto a punire?» si domandava nel pellegrinaggio a Fatima nel 2017. In rottura con il devozionismo mariano di stampo nazionalista che aveva del «Rosario della frontiera» avvallato dai vescovi polacchi nell’ottobre 2017, ne proponeva una visione socio-ecologica: Maria «madre dell’Amazzonia», Maria «Conforto dei migranti»

Gli scartati al centro

È ai migranti che Francesco ha dedicato il suo pensiero orante. Nella sua prima visita fuori dalle mura leonine scelse Lampedusa, l’isola dove il 3 ottobre 2013 persero la vita 368 profughi eritrei, per lo più donne e bambini. Portò il loro grido alle coorti d’Europa, nel cuore di un continente sempre più atrofizzato all’umanità e cieco verso i corpi esanimi dei bambini sulla spiaggia: «Sogno un'Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo. Sogno un'Europa, in cui essere migrante non sia delitto bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l'essere umano» disse nel discorso pronunciato dopo aver ricevuto il Premio internazionale Carlo Magno nel 2016. La retorica di Francesco non era solo figlia della sua esperienza di figlio di immigranti italiani. Con acume, parlò con le parole dei padri dell’Europa, come Giorgio La Pira, che parlava del Mediterraneo come il grande «lago di Tiberiade», crocevia di culture, punto di contatto di vite. Ha creato il Dicastero per lo sviluppo umano e integrale, dando un’impronta personale al problema dei profughi, da lui visti come protagonisti di un esodo di cui l’umanità deve farsi carico contro la globalizzazione dell’indifferenza che avrebbe reso tutto l’Occidente colpevole: «Verso dove navigate, Europa e Occidente, con lo scarto dei vecchi, i muri col filo spinato, le stragi in mare e le culle vuote?» disse davanti alle autorità portoghesi in occasione della 37esima Giornata mondiale della gioventù di Lisbona, anno 2023. Francesco si è fatto carico di un’umanità sofferente. Come quando, a pochi mesi dalla sua elezione, celebrò la messa a Tacloban, nelle Filippine, con i sopravvissuti al tifone Yolanda. Davanti a chi aveva perso tutto, vestito di un impermeabile giallo, disse, con la voce flebile rotta dalla pioggia: «Non so cosa dire a voi. Ma il Signore sa cosa dire a voi. Non siamo soli». Parole da servo dei servi, spesso più esplicite dei gesti. Come quando, nel 2019, s’inginocchiò davanti ai leader politici del Sud Sudan baciando loro i piedi per implorare loro la pace dopo gli anni del sanguinoso conflitto civile.

I nemici del nuovo millennio

Papa Francesco è stato molto criticato per la sua posizione in merito alla pace. Ha avuto uscite improvvide, come nell’intervista al Corriere della Sera sull’Europa che abbaia e alla RSI sul coraggio della bandiera bianca. Tuttavia, ha criticato la guerra partendo dalle armi. Lo ha fatto il 13 settembre 2014 recandosi in visita al Sacrario di Redipuglia, quando ha tuonato: «Anche oggi le vittime sono tante… Come è possibile questo? È possibile perché anche oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante! E questi pianificatori del terrore, questi organizzatori dello scontro, come pure gli imprenditori delle armi, hanno scritto nel cuore: “A me che importa?”». Ci è ritornato nel 2025 con la nota Antiqua et nova sull’Intelligenza Artificiale, che lo preoccupava per la facilità di delegare a una macchina la scelta di uccidere un altro essere umano, arrivando a definirla una tecnologia che rischia di far precipitare l’umanità in «spirali di autodistruzione». La sua immagine mediatica è stata vitale. Se Giovanni Paolo II fu il papa delle folle oceaniche e Ratzinger il papa monaco già prima di esserlo dopo la rinuncia, Francesco è stato il papa solo, il mediatore verso un’umanità lacerata da ferite profonde. Ha parlato per la prima volta della psicanalisi sdoganandola nella chiesa che, fino agli anni Cinquanta, la definiva «peccato mortale». Ha accompagnato la chiesa istituzionale in un esame di coscienza collettivo, reso iconico da immagini potenti. Come quella in cui, circondato dalle croci del Sacrario militare a Redipuglia, tuonò contro la vendita delle armi. O alla fine del viaggio apostolico in Giappone quando, piccolo puntino bianco nel buio del memoriale di Hiroshima e Nagasaki, implorò per la non proliferazione delle armi nucleari. Non lo ha fermato la difficoltà di camminare neppure quando, in carrozzina, si è raccolto nel cimitero indiano di Edmonton, tra le salme dei nativi canadesi strappati dalle loro radici in nome di una visione grottesca dell’evangelizzazione, nota come dottrina della scoperta.

Chiedere scusa

Francesco non ha mai temuto di chiedere scusa. Ma a Roma, insieme città eterna e suburra, l’amico del pueblo, acclamato dal popolo di Dio, ha visto insinuarsi lo scetticismo della sua coorte, che ha gradualmente visto in quella fumata bianca un assegno in bianco sul destino della stessa chiesa. Non c’è dubbio che Papa Francesco abbia avuto un rapporto particolare con l’Italia. «Gli argentini sono italiani che parlano spagnolo» disse una volta Jorge Luis Borges. Ha tolto sedi cardinalizie a città che lo erano per tradizione, come Milano e Venezia, e lo ha dato a nuove. A Bologna, dopo 50 anni, ha ricordato l’omelia contro la guerra in Vietnam del cardinale Lercaro, quella che si dice gli costò l’arcivescovado di Bologna. Si dice che ci vuole un papa per riprendere un cardinale. Ci vuole un papa anche per riabilitarlo. Papa Francesco ne ha riabilitati molti. Ne ha puniti altrettanti. Ha usato lo strumento dei motu prorpio per regolamentare questioni per lui urgenti, attirandosi le antipatie di chi ci ha visto una gestione assolutista del potere. Gli hanno dato del peronista, per esempio, quando ha emanato il decreto che regolava i termini di affitto degli immobili vaticani da parte dei membri della Curia: troppi privilegi per Francesco, che li ha revocati. È così che ha perso la sua casa romana il cardinale statunitense Raymond Burke, in un rumoroso giro di vite che non ha risparmiato l’ex segretario particolare di Benedetto XVI, Georg Ganswein, e numerosi vescovi. Negli anni, il dissenso verso un papa sempre più scettico verso il clericalismo, ha preso forme più o meno eclatanti. Lo scandalo degli abusi pedofili nella chiesa cattolica in tutto il mondo, problema endemico affrontato con negligenza da papa Giovanni Paolo II, ha travolto Benedetto XVI ma non Francesco, che nel febbraio 2019 ha chiesto ai vescovi cattolici di riunirsi in Vaticano e diramare delle linee guida. Istruzioni che, nonostante gli evidenti limiti di gestione, hanno puntato a stanare non solo gli abusatori, ma anche i vescovi conniventi, seppure con esiti spesso incerti.

I lupi in casa

L’ex nunzio apostolico a Washington, mons. Carlo Maria Viganò, ha chiesto a più riprese le dimissioni di Papa Francesco: una voce a cui negli anni successivi alla morte di Ratiznger, se ne sono aggiunte altre: vescovi e laici, conservatori e progressisti, con la pretesa di dire al papa come fare il papa, cosa dire, come agire. E così, i media che avevano accolto la teofania del papa argentino fin dai tempi della rivoluzionaria scelta di Casa Santa Marta, hanno generato un effetto boomerang che ha spento ogni entusiasmo per lasciare spazio a una favola nera. Dalla pandemia, l’appeal mediatico del papa ha subito una brusca virata, a cui ha certamente contribuito la sua scarsa diplomazia nel gestire situazioni complesse. Nei sinodi, lo strumento con cui Francesco si aspettava di trasporre la feconda esperienza di Aparecida, il pontefice ha sperimentato il freno della sua spinta riformista. A partire dal Sinodo sulla famiglia, quando diversi cardinali hanno espresso dubbi, finanche a parlare di eresia, a proposito delle aperture messe nero su bianco nell’Amoris Laetitia. Sino all’ultimo, grande sforzo del pontefice: il sinodo sulla sinodalità, tentativo di imporre un nuovo metodo di ascolto nella chiesa universale in totale sintonia con le aspirazioni delle periferie. La Evangelii Gaudium, il manifesto programmatico della sua guida, non può essere letto prescindendo dal Patto delle Catacombe, concepito a Roma durante il Concilio vaticano II (1965), firmato dal brasiliano Helder Cámara e dell’ecuadoriano Leónidas Proaño. Quella copia, Papa Francesco la ricevette dal premio Nobel per la Pace Adolfo Pérez Esquivel su esplicita richiesta del vescovo Pedro Casaldàliga.

La Chiesa non è una Ong

Ecco le periferie, l’idea che sorge e si modella proprio nel 2013, quando nel suo discorso al clero di Assisi, disse: «Il terzo aspetto è quello missionario: annunciare fino alle periferie». I poveri “esistenziali” nelle “periferie”, gli “scarti” sono quelli che marcano la distanza di Papa Francesco con i cattolici cosiddetti «occidentalisti». Persino organizzando la Giornata mondiale dei bambini, il pontefice è ritornato a quell’associazione tra la periferia e i bambini che non sanno farsi il segno della croce, già presente nel discorso del 27 settembre 2013. Porre i bambini al centro, significa accendere i riflettori sui margini fecondi. Viene ancora in mente papa Giovanni XXIII, il papa dei bambini, del famoso «discorso alla luna». E la luna è la metafora più calzante per descrivere la chiesa di Papa Francesco, che non si autocompiace, ma che supera il centro. Non ha caso, ai vescovi latinoamericani, il 28 luglio 2013 disse: «La Chiesa è istituzione, ma quando si erige in centro si funzionalizza e un poco alla volta si trasforma in una ONG. Allora la chiesa pretende di avere luce propria e smette di essere quel mysterium lunae del quale ci parlano i Santi Padri. Diventa ogni volta più autoreferenziale e si indebolisce la sua necessità di essere missionaria». Il suo contributo più rivoluzionario è l’enciclica Laudato si’ che ha rotto quel perimetro che la scienza non era mai riuscita a fare, neppure quando il Time nel 1988 portò per la prima volta nell’opinione pubblica il termine «cambiamento climatico». Papa Francesco ha ribaltato il paradigma verde, ha reso popolare e profondo un tema che, dall’attivista Greta Thunberg alle performance di Extinction Rebellion, era tacciato di populismo e superficialità. La prospettiva diventa quella dell’«ecologia integrale», capace di tenere insieme problemi ambientali come i cambiamenti climatici a questioni sociali come l’ipersfruttamento del pianeta: «Se tutto è in relazione, anche lo stato di salute delle istituzioni di una società comporta conseguenze per l’ambiente e per la qualità della vita umana». Quella ambientale è un’impronta sociale per Francesco che, impossibilitato a recarsi alla Cop28 di Dubai per un’infiammazione polmonare, fece sentire comunque la sua voce in un discorso storico: «La devastazione del creato è un’offesa a Dio, un peccato non solo personale ma strutturale che si riversa sull’essere umano, soprattutto sui più deboli, un grave pericolo che incombe su ciascuno e che rischia di scatenare un conflitto tra le generazioni».

Il papa verde

Con la Laudato si’ Papa Francesco ha rotto con la tradizione biblica dell’uomo quale vertice della creazione divina, unendo la teologia all’evoluzionismo scientifico e riabilitando il suo principale teorico, il gesuita Teilhard de Chardin, tacciato di panteismo e sanzionato dal Vaticano nel 1962. Ma si è caricato di quello stesso peso, quando fu tacciato di deriva panteistica, quasi esoterica, della chiesa. Come nel 2015, quando gli integralisti cattolici gridarono allo scandalo per la proiezione, sulla facciata della Basilica di san Pietro, delle immagini della natura durante la Conferenza mondiale sul clima di Parigi. Le voci scettiche saranno scandalizzate pochi anni dopo dalla statuetta della Pachamama, la madre terra della cosmologia nativa, collocata in una chiesa cattolica durante il Sinodo panamazzonica. Non c’entrava niente il sincretismo, bensì l’inculturazione, che poteva essere elaborato solo da un papa nato nel continente dei santi mapuche. Tutto il pontificato di Francesco è stato una lunga, complessa, talvolta goffa ricerca di linguaggi nuovi per una chiesa sempre più pulviscolare. In questo senso va intesa una delle principali conquiste politiche di Bergoglio: l’accordo fra la Santa sede e la Repubblica popolare cinese. La scelta di unire la chiesa ufficiale, approvata al Partito comunista e quella un tempo chiamata «sotterranea», cioè illegale ma avallata Oltretevere, è stata un lungo processo di transizione di due stati che affidano alle loro riforme strutturali tempi biblici. La Santa sede guidata da Francesco ha, così, mostrato una chiesa che aveva fatto della retorica del martirio una ragione di sopravvivenza. Nelle aree più critiche del suo pontificato, come nel caso della chiesa cinese o della pastorale verso i credenti Lgbtqi+ avrebbe potuto osare di più, ma a che prezzo? Un funzionario vaticano una volta mi confessò: «Papa Francesco preferisce tenere la porta aperta con un piede, perché uno spiraglio è meglio di una porta chiusa che si vuole aprire a spallate».

 

E con questo passo risoluto, nato da uno sguardo contemplativo sul mondo che unisce Creatore a creato, Papa Francesco lascia al suo successore una chiesa cattolica romana puntellata come un cantiere. Non sappiamo cosa rimarrà di questi anni che hanno cambiato radicalmente la chiesa dal vertice, come mostrano le nomine femminili in posizioni apicali, l’ultima quella di suor Raffaella Petrini, da marzo presidente del Governatorato. Papa Francesco risponderebbe come nell’aprile 2016, quando in visita al Villaggio per la terra, disse: «La vita la si deve prendere da dove viene, è come il portiere nel calcio: prende il pallone da dove lo buttano. Viene di qua, viene di là». Lui non si è limitato a vincere una partita, ma ha cambiato le regole del gioco. Starà al nuovo papa scegliere fischiare la fine o un nuovo inizio.

 

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il pugno di Francesco - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso