L'offerta di Repubblica, per cui scrive anche il leader Lc. E la scelta fatta con la madre. L'ultimo capitolo del libro scritto dal figlio del commissario Luigi Calabresi assassinato nel 1972

Nell'aprile del 2000 mi venne offerto un posto a 'Repubblica' dall'allora capo della redazione politica Massimo Giannini e dal suo vice Giorgio Casadio. Lavoravo da cinque anni all'agenzia Ansa come cronista parlamentare e sognavo di passare in un quotidiano. La proposta mi fece piacere ma mi creò un disagio profondo: potevo andare a lavorare per il giornale che ospitava gli articoli di Adriano Sofri?

Ci pensai per giorni, non dissi niente a casa, ma la voce cominciò a girare tanto che venni fermato nel Transatlantico di Montecitorio dal portavoce di uno dei leader del centrodestra, che mi disse sibillino: "Tuo padre si starà già girando nella tomba".

Presi il treno e andai a Milano. Mia madre al solito versò il caffè nelle tazzine con il bordo arancione, ultimo ricordo della casa di via Cherubini. Le raccontai della cosa e per rispetto le dissi che pensavo di rifiutare. Lei mi stupì ancora una volta per la sua freschezza e linearità e con calma mi fece una serie di domande: "È un buon posto? Ti piace? Pensi che ti divertiresti? È un avanzamento? Ci sono persone da cui puoi imparare?". Risposi sempre sì, ma con prudenza. Allora lei ne aggiunse un'altra, quella definitiva: "Se Sofri non pubblicasse lì, avresti dei dubbi?". No, andrei quasi certamente, le replicai. Lei sorrise e disse: "Allora vai, non ascoltare nessuno, stai tranquillo: conoscevo tuo padre meglio di chiunque altro e sono certa che ti direbbe la stessa cosa. Amava le sfide, confrontarsi, mescolarsi, nella sua testa non esistevano due Italie ma una sola". Poi mi guardò, io ero ancora perplesso, allora lei aggiunse quello che forse le stava più a cuore: "Mario, non permettere che altri decidano ancora il tuo destino, lo hanno già fatto quando eri bambino. Questa volta decidi tu".

Firmai il contratto, qualcuno mi guardò con perplessità ma più nessuno mi disse nulla, fino a novembre del 2005 quando, a un'iniziativa per ricordare i caduti degli Anni di piombo con un gruppo di ragazzi dei licei, il relatore mi chiese a bruciapelo: ma come può lavorare a 'Repubblica' dove scrive anche Sofri? Questa volta risposi con una battuta: "Non potrei lavorare neanche a 'Panorama' e neppure al 'Foglio' di Ferrara... forse mi converrebbe cambiare mestiere".

Ricordo una domenica con Silvio Berlusconi a Santa Margherita Ligure, gli strappai un'intervista per la strada, le uniche possibili con lui. Ero andato da poco a lavorare alla 'Stampa' dopo un anno a 'Repubblica'. Lo trovo sul lungomare, sta scendendo dalla macchina insieme alla figlia Marina. Devono comprare alcune cose e prendere un gelato. Li seguo. A ogni negozio in cui entriamo Berlusconi saluta e poi ripete la stessa scenetta: "Vedete questo ragazzo? Sarebbe un bravo giornalista, ma l'anno scorso è diventato comunista... purtroppo ha lavorato a 'Repubblica'". Una, due, tre, quattro volte. Io lo lascio fare, sorrido, mi limito a una battuta: "Cavaliere, la vita è imprevedibile: si può diventare comunisti senza saperlo e per giunta nel Ventunesimo secolo". Poi a ogni uscita gli faccio una delle domande per l'intervista. Al quinto negozio, la farmacia, una delle commesse storce la bocca a sentir dire 'Repubblica' e mi guarda con diffidenza. Mi sento quasi straniero e fuori posto e la cosa mi pare davvero grottesca: sono anni che vengo qui, in spiaggia, a cena, in discoteca, d'estate e d'inverno. Mi sentivo a casa fino a un attimo prima e adesso all'improvviso un'etichetta cambia la persona che sono? Berlusconi, a dire il vero, si era abituato in fretta, tanto che mesi prima aveva accettato di concedere a me e a 'Repubblica' l'intervista in cui rivelò di aver avuto un cancro, ma la reazione di quella farmacista non me la sono dimenticata. L'importante, ho sempre pensato, è rimanere se stessi, tenere fede alle proprie idee, rispettare la propria storia. A quel punto si può entrare serenamente ovunque. Quasi ovunque.

Ho il sesto senso, me lo sento, ci sono luoghi in cui a un certo punto percepisco qualcosa nell'aria che mi suggerisce di andarmene. Ricordo una sera, nel 1992, a una festa: non mi piace il clima, non mi piacciono i discorsi, comincio a stare sulle spine, finché colgo una frase. Stanno discutendo di mia madre. Prendo il fiato, mi fermo ad ascoltare, sta parlando una donna: "Che schifo, la vedova, l'hanno riempita di soldi e fa anche la vittima, parla, parla..." e poi ridendo chiosa: "Avrebbero dovuto ammazzare anche lei...".

Resto in apnea ancora qualche secondo, sono perfettamente immobile, impietrito, dentro di me tutto è morto, solo il fiato per pronunciare nove parole molto lentamente e a voce bassa: "Non mi pare che le cose stiano esattamente così". "E tu cosa ne sai?".
La fisso negli occhi, non ho forza per discutere, o forse al contrario ho paura di non riuscire a controllarmi, allora scelgo un profilo minimo: "Sui soldi. Non mi risulta ne abbia presi molti, fa la maestra elementare per mantenere i suoi figli...". "E come lo sai?". "È mia madre". Nessuno parla più, il tempo è dilatato, lunghissimo. Lei diventa paonazza, cerca parole che non trova. Io mi sento sfinito, cerco il padrone di casa, saluto e ringrazio, guadagno la porta, esco nell'inverno milanese, umido, cerco aria, la testa mi scoppia.

"Io tutte queste cose mi sforzo di tenerle ai margini del cuore, di dimenticarle, di non fissarmi sulle scortesie, gli insulti, per poter guardare avanti, per non farmi avvelenare". Mamma parla al telefono, le sto raccontando di quegli scatoloni pieni di carte che voglio buttare, di frasi spiacevoli che ho trovato tra i ritagli di giornale, di quante cose abbiamo dovuto digerire. "Ma come hai fatto?", le chiedo. "Ho scommesso sulla vita, cos'altro potevo fare a 25 anni con due bambini piccoli tra le mani e un terzo in arrivo? Mi sono data da fare tutti i giorni, unico antidoto alla depressione, e ho cercato di vaccinarvi dall'accidia, dall'odio, dalla condanna a essere vittime rabbiose. Questo non significa essere arrendevoli o mettere la testa sotto la sabbia. Significa battersi per avere verità e giustizia e continuare a vivere rinnovando ogni giorno la memoria. Fare diversamente significherebbe piegarsi totalmente al gesto dei terroristi, lasciar vincere la loro cultura della morte".

I figli di Marina Orlandi Biagi avevano 12 e 19 anni quando il padre venne ucciso. Sono dei ragazzoni con una bella faccia aperta e solare, sorridono, progettano, viaggiano, si confrontano: è miracoloso come lei sia riuscita a tenerli in piedi, a spingerli verso il futuro. (...) Marina non intende arrendersi e mentre parla vedo mia madre e molte altre vedove degli Anni di piombo: "I terroristi hanno colpito la mia famiglia con una crudeltà inaccettabile, ma non sono riusciti a toglierci la forza di vivere".

Giampaolo Pansa, a 25 anni dalla morte di Tobagi, ha raccontato di quando fu chiamato a deporre nel 1983 al processo e incontrò Stella, la vedova del giornalista. "Stella mi parlò a lungo. Delle cose che mi disse me ne è rimasta nella memoria soprattutto una: che cercava di far crescere Luca e Benedetta senza odio per nessuno". (...)

Per molto tempo ho oscillato tra la lezione di mia madre e una sorda voglia di prendere tutto a calci. Quando si cominciò a parlare di grazia ero scosso, non riuscivo a trovare un centro dentro di me, un punto fermo a cui agganciarmi. Poi mi venne l'idea di andare in montagna, di cercare quel luogo in fondo alla Valle d'Aosta dove il nonno mi aveva insegnato a sciare. (...) Di fronte al ghiacciaio della Brenva si fermò, si sistemò il cappellino di lana grezza, si tolse i guanti (...) poi cominciò a parlarmi e capii che tutte le lezioni avevano un solo fine, portarmi in quel punto. "Quando tuo padre morì io lo cercai per molto tempo. Poi, un giorno che ero qui da solo, l'ho trovato e ogni volta che torno lo sento. Volevo che tu lo sapessi". Non disse altro e io rimasi in silenzio. Tre anni dopo il nonno morì per un ictus, prima ancora che cominciassero i processi.

Quella mattina salii con la prima funivia, (...) quando arrivai a guardare la parete di roccia dell'Aiguille Noire de Peutérey, ero completamente solo. Fermo con gli occhi fissi sul ghiaccio prima trovai il nonno, poi papà Gigi. Rimasi ad ascoltarlo a lungo e sentii che era giusto guardare avanti, camminare, impegnarsi per voltare pagina nel rispetto della memoria. Dovevo portarlo con me nel mondo, non umiliarlo nelle polemiche e nella rabbia, così non l'avrei tradito. Bisognava scommettere tutto sull'amore per la vita. Non ho più cambiato idea.

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