Aumenta il numero degli imprenditori. E crescono i redditi. Così la comunità asiatica si afferma. Tra auto di lusso, capi firmati e la seconda casa nella terra di origine

Il sogno è farsi la Benz, come i cinesi sono soliti chiamare la Mercedes. Uno dei modelli più lussuosi, magari il Suv. È un simbolo da esibire, per dire a tutti: "Io ce l'ho fatta". E quelli che ce l'hanno fatta, nelle Chinatown italiane, sono sempre di più. Le cronache raccontano di clandestini sepolti in laboratori di periferia o di grossisti che rosicchiano margini minimi in negozietti spogli, ma nel frattempo si è consolidata una vera e propria borghesia imprenditoriale cinese-italiana. È composta da famiglie arrivate tre generazioni fa, diventate oggi piccole holding, dato che ciascun componente, dai capostipiti all'ultimo nipote, ha una o più attività in proprio: un ristorante, un laboratorio di abbigliamento o pelletteria, un market alimentare, un'agenzia immobiliare, un centro massaggi o un business a cavallo tra la vecchia e la nuova patria. Poi ci sono gli emergenti, quelli che sono qui da meno tempo, fanno ancora fatica a esprimersi nella nostra lingua, ma il giro dei soldi lo hanno capito in fretta. Rappresentano la crema degli oltre 31 mila imprenditori cinesi in Italia censiti da Unioncamere nel 2008, il quadruplo rispetto all'anno 2000. Sui 150 mila residenti regolari, uno su cinque ha un'attività in proprio.

Non esistono, a quanto si sa, dei Tronchetti Provera con gli occhi a mandorla, ma numerosi piccoli imprenditori raggiungono fatturati di parecchi milioni di euro all'anno. Il loro stile di vita è differente da quello dei ricchi 'nostri'. Certo, la macchina è importantissima: "Spesso è più ricca del guidatore", maligna una signora addentro nel jet set cinese di Milano. Deve essere tedesca: la Benz è il top, seguono Bmw, Porsche, le Volkswagen di alta gamma. I cinesi hanno imparato ad apprezzare la qualità, almeno in quello che comprano. Come nei vestiti, il secondo status symbol a cui non rinunciano. Le Chinatown sono attraversate da signore molto eleganti, e le griffe che sfoggiano sono rigorosamente autentiche. La più popolare è indubbiamente Louis Vuitton (un parziale risarcimento per il marchio forse più contraffatto al mondo). Gli uomini prediligono Versace, Armani, Zegna. "Evitano in ogni modo di comprare capi made in China", racconta Luca Brunetti, commercialista di fiducia di molti cinesi residenti nel milanese: "Dato che per certi prodotti, come le scarpe, è ormai difficile scampare, tagliano subito via l'etichetta".

La casa da sogno, invece, non li scalda. È solo un posto dove dormire, in genere poche ore, o accogliere il nipote appena arrivato dalla Cina per lavorare nel business di famiglia. Tanto la vita sociale si fa fuori, soprattutto al ristorante. È tipico, in particolari occasioni come il Natale o il Capodanno cinese, offrire una bella cena ad amici, dipendenti, partner d'affari, riuniti in tavolate da parecchie decine di persone. E la seconda casa? Quella sì che è un classico, non a Cortina e a Porto Cervo ma a Wenzhou o in qualche altra città dello Zhejiang, la provincia da cui proviene la maggior parte dei cinesi d'Italia. Tanto non è che facciano molte vacanze. La religione del lavoro e del guadagno impone ritmi inesorabili: si stacca soltanto per tornare in Cina a fare visita ai parenti e a sistemare qualche affare. Quelli che cominciano a cedere alla tentazione snobbano i Caraibi e le Maldive e preferiscono passare qualche giorno nelle capitali europee, alloggiando nei migliori hotel. Il motivo è anche pratico: i cinesi residenti in Italia possono muoversi liberamente nell'area Schengen e in madrepatria, ma altrove devono munirsi di visti spesso complicati da ottenere.

Wu Xiao Ling, per gli italiani Viola, ha 45 anni e 15 anni fa faceva la cameriera in un ristorante cinese, un tipico primo impiego per i nuovi arrivati in Italia. Oggi è titolare, insieme al marito Wen Yangdong detto Tony, di China Long (long significa drago), la più importante agenzia di viaggi cinese in Italia. Fattura più di 10 milioni di euro all'anno, quasi tutti in biglietti aerei per la madrepatria venduti ai connazionali. L'agenzia sta nel cuore del quartiere cinese di Milano e non concede nulla alle apparenze: due vetrine, un bancone con quattro impiegati, tutti cinesi, e un backoffice disadorno. Niente fronzoli, ma saracinesche sollevate anche a tarda ora. "Mio marito e io eravamo insegnanti in una scuola di Wencheng, nel Zhejiang", racconta: "I nostri stipendi erano bassi e nel 1993 sono arrivata qui, da sola, per vedere se potevamo fare qualcosa". L'assenza di specifiche vocazioni è tipica dell'imprenditoria cinese emigrata: l'obiettivo è aprire un'attività che funzioni, essere nel mercato giusto al momento giusto, poco importa se con un ristorante, con un laboratorio tessile, con un bar o altro. "Negli anni successivi mi sono spostata a Bologna, poi in Romania e Bulgaria a commerciare vestiti. Nel 1998 abbiamo deciso di fermarci a Milano, perché la città ci piaceva". Nel 2000 la coppia avvia la prima agenzia di viaggi, la Hua Qiao ('cinesi d'oltremare'), e dopo appena un anno la grande occasione: China Long era stata messa in vendita. Si trattava di una società mista tra il ministero del Commercio cinese e alcuni privati che stavano in Italia e da un momento all'altro erano stati 'richiamati in patria'. E i soldi? Anche la grande agenzia di viaggio è stata comprata in contanti, all'uso di Chinatown? La signora Wu sorride: "Ci finanziarono anche amici e parenti". La pratica che suscita mille sospetti tra gli italiani è in realtà molto comune: il migrante cinese è un fondo di investimento che cammina, diverse persone ci puntano sopra la loro quota (a condizioni migliori delle banche italiane), e se provasse a fare il furbo sarebbe escluso a vita dal guanxi, la fitta rete di relazioni che è il sistema sanguigno dell'economia etnica. Viola e Tony hanno mandato i figli al liceo scientifico, pagano loro costosi soggiorni di studio in Inghilterra e d'inverno li portano a sciare. Le vacanze di famiglia non sono particolarmente snob, tra la Liguria e Rimini, ma almeno il viaggio è comodo, su un lussuoso Suv ML della Benz.

Quando, nella scorsa primavera, l'Agenzia delle entrate mandò on line i redditi del 2005, la 'Tribuna di Treviso' scovò diversi cinesi in vetta alle classifiche della ricca provincia veneta. A San Vendemiano, per esempio, un imprenditore tessile venuto dall'Oriente dichiarava 419.184 euro, secondo solo all'inarrivabile contribuente numero uno del paese, il calciatore Alessandro Del Piero. "Un buon segnale, significa che pagano le tasse", commenta Paolo Feltrin, docente di scienze politiche all'Università di Trieste e studioso del tessuto economico locale. "A differenza di molte partite Iva intestate a stranieri che compaiono e scompaiono in continuazione, qui gli imprenditori cinesi hanno una stanzialità strategica. Molti di loro sono iscritti alle associazioni di categoria, in particolare Confartigianato e Confcommercio". La battuta sulle tasse tocca il punto dolente. Molte delle fortune imprenditoriali di Chinatown sono nate chiudendo uno o due occhi sulle regole: manodopera clandestina, ambienti di lavoro fuori norma, fatturazioni irregolari, sfondamento delle quote di importazione. A Prato "più della metà del settore abbigliamento affonda le radici nel sommerso", stima Silvia Pieraccini in 'L'assedio cinese', un approfondito libro-inchiesta appena pubblicato da 'Il Sole 24 Ore'. A un fatturato ufficiale annuo di 850 milioni di euro nel distretto ormai dominato dai cinesi, ne vanno aggiunti altrettanti in nero. Va detto che né le aziende committenti del pronto moda (italiane), né i professionisti che tengono la contabilità (italiani) si scandalizzano troppo.

Quattro anni fa fu salutata come un segnale di cambiamento l'iscrizione a Confindustria del primo imprenditore cinese, proprio di Prato. Non ne sono seguiti altri. Lui è Xu Qiulin, che con spiccio pragmatismo si è italianizzato da sé, ribattezzandosi 'Giulini' (notare che il cognome è Xu). La sua Giupel vende abbigliamento in pelle e tessuto. È una società per azioni, l'unica tra i cinesi di Prato, impiega 25 dipendenti, metà italiani, e nel 2007 ha fatturato 10 milioni di euro. Quarantaquattro anni, arrivato in Italia vent'anni fa, il signor Giulini ha fatto la classica trafila: "Ho lavorato qualche mese in un ristorante", ricorda, "poi con l'aiuto di familiari rimasti in Cina ho aperto un laboratorio tessile che lavorava per conto terzi e nel 2000 la Giupel". Oggi è uno degli industriali più noti di Prato, circola su una Porsche Cayenne ma descrive la vita della sua famiglia (ha quattro figli) come "molto semplice: casa, lavoro, televisione.".

La Cina cresce, l'Italia stagna, e questo cambia l'orizzonte di quelli che sono arrivati da lì a qui in cerca di fortuna. "Sto lanciando il Centro Made in Italy a Nanchino, dove sono già presenti aziende importanti come Fiat e Iveco", spiega Giulini, che ha accompagnato da quelle parti Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi nei loro viaggi ufficiali. "In 80 mila metri quadri di show room, il centro venderà all'ingrosso abbigliamento, arredamento, accessori, macchinari". Nel marzo 2009 sarà posta la prima pietra. Una quarantina di piccole e medie imprese italiane hanno già prenotato una vetrina.

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