Il contrordine è netto: altro che carestia petrolifera, con i suoi scenari da incubo - code di automobilisti senza benzina all'assalto dei distributori, industrie in ginocchio per mancanza d'energia - di oro nero ce n'è in abbondanza, anche se è diventato molto più laborioso e costoso strapparlo alle viscere del pianeta terra. Ora il problema grosso da affrontare è di tutt'altra fatta: di petrolio, perlomeno nel mondo occidentale, ce n'è troppo. Lo sottolineano anche gli esperti del Cera, il Cambridge Research Energy, uno dei più ascoltati pensatoi energetici del pianeta, nel recente rapporto intitolato 'Peak Oil Demand in the Developed World: Its here'. Almeno nel primo mondo, in virtù di fattori tecnologici, politici ed economici, il consumo di petrolio è in forte contrazione. È probabile tuttavia che il rallentamento non si tradurrà in montagne di barili ad arruginire sui moli dei terminal. L'era del petrolio è infatti ben lontana dal tramonto anche per ambientalisti accreditati come Lester Brown, direttore dell'Earth Policy Institute, o Aaron Brady, direttore del Dipartimento proiezioni di mercato di Cera: due che davvero non sono sospettabili di simpatie nei confronti dei petrolieri.
"Prevedere che l'epopea del petrolio possa durare altri cento anni è esagerato. In campo energetico, qualsiasi previsione che superi i sei mesi è fantapolitica: ma sono certo che nei prossimi anni la produzione continuerà a crescere e il consumo nel primo mondo a calare", dice Brady. I paesi del primo mondo consumano il 54 per cento del totale. Una percentuale destinata a diminuire. Anche perché, secondo il guru del Cera, si sta realizzando un irreversibile mutamento delle abitudini: "I giovani americani, per esempio, non aspirano più a comprarsi una macchina non appena finita la scuola. Oggi vanno in giro in bici o in autobus". Nel 2009 negli Usa è stato bruciato il 9 per cento di petrolio in meno e il parco automobilistico ha perso ben 5 milioni di unità. "E non è finita qui", rincara la dose Brown: "nel 2020 negli Stati Uniti circoleranno 25 milioni di vetture in meno rispetto a quelle che c'erano all'inizio della crisi economica". Per contro già nel 2010 i consumi cinesi saliranno del 9 per cento. E l'International Energy Association immagina per quest'anno una domanda petrolifera quotidiana in calo di oltre 300 mila barili al giorno nei paesi avanzati.
Cambia dunque lo scenario dei consumi, ma pure quello dei giocatori. Spiega Giuseppe Falco, partner del Boston Consulting Group ed esperto di questioni energetiche: "Quelle che un tempo erano le famose sette sorelle, devono rivedere il modello per l'accesso alle riserve, puntando ad appoggiare i paesi produttori nello sviluppo degli asset per sostenere l'economia. Anche perché le compagnie possedute dagli Stati produttori sono più attrezzate dal punto di vista finanziario e di competenze e meno intenzionate ad accontentarsi di una parte della produzione. Così si faranno sempre più spesso accordi in cui la società internazionale mette a disposizione il know-how". In cambio di una commissione: gli esperti parlano spesso di 2 dollari al barile. Aggiunge Ciro Di Carluccio, responsabile del settore energia della Deloitte per l'Italia: "Le grandi compagnie continuano a investire sull'esplorazione, anche se aumentano i costi per trovare e sfruttare nuovi giacimenti nelle zone non convenzionali : acque profonde, sabbie bituminose, luoghi lontani e sperduti dove bisogna disporre di capitali enormi per realizzare le infrastrutture. Con il rischio che, aumentando la disponibilità di greggio, si contribuisca a calmierarne il prezzo, mentre per andare ad estrarlo si spendono tanti capitali". La compagnia petrolifera più potente al mondo è statale: la Saudi Aramco, presieduta e diretta da Khalid Al-Falih. E cresce il peso politico, economico e finanziario delle altre national company di Stati emergenti, come la PetroChina o la brasiliana Petrobras. "Tra le compagnie private, solo poche hanno la forza economica per accompagnare progetti complessi di sviluppo a supporto degli Stati produttori. Può aprirsi presto una fase di fusioni e acquisizioni che coinvolgano le oil company di medie dimensioni", afferma ancora Falco di Bcg.

Tra le private, l'americana Exxon Mobil a fine 2009 capitalizzava in Borsa circa 320 miliardi di dollari. La seconda big, l'anglo-olandese Royal Dutch Shell, che vale circa la metà, guida il plotone delle inseguitrici: l'inglese BP, la statunitense Chevron, la francese Total e l'italiana Eni. L'anno scorso, tutte hanno visto scendere in modo più o meno sensibile la loro redditività e molti analisti cominciano a immaginare profondi mutamenti nelle attività delle International oil company, già avviate o intenzionate a farlo, sui sentieri delle energie alternative o del nucleare. Rex Tillerson, l'amministratore delegato di Exxon Mobil, parlando dei biocarburanti li aveva sprezzantemente liquidati con una parola: 'moonshine', liquoraccio. Ma adesso che il governo federale degli Usa ha imposto che entro la fine di quest'anno l'8 per cento del carburante venduto in America debba essere ricavato dalle biomasse, lo stesso Tillerson non ha fatto una piega per sganciare i 300 milioni di dollari necessari a comprarsi la piccola Synthetics Genomics, che sta cercando di tirar fuori benzina dalle alghe. A soffrire maggiormente sono quegli operatori fortemente impegnati nella raffinazione, il segmento del business più in crisi. Fadel Gheit, analista della Oppenheimer, applaude le compagnie che puntano forte sul gas naturale, giacché sul petrolio "le grandi scelte le fanno i big petroliferi nazionali dei paesi produttori".
A influenzare il quadro petrolifero internazionale, in cui si registra l'incremento significativo dei consumi di oro nero dei Bric (Brasile, Russia, India e Cina), contribuiscono anche i progressi registrati nel campo delle trivellazioni e dell'estrazione. Passi avanti che rimettono in discussione perfino il destino dei pozzi esistenti. "I pozzi in uso sono sottoutilizzati e quelli già esauriti contengono riserve prima ritenute irraggiungibili e che adesso invece possono essere estratte", sostiene John van Schaik, analista della testata specializzata 'Oil Market Intelligence': "Si sfrutta meno del 40 per cento delle riserve di greggio contenute nei pozzi sviluppati. Utilizzando additivi polimerici, sostanze emulsive, nuove tecniche di trivellazione e pompe più potenti, oggi si possono riportare in vita anche pozzi chiusi da decenni". È il caso dei giacimenti di Marmul, in Oman, degli Hawkins Fields texani e di quelli di Schoonebeek, in Olanda. Prima erano ritenuti troppo costosi per essere sfruttati, ma oggi, con il barile che s'è attestato al di sopra degli 80 dollari, sono stati rimessi in funzione da una joint venture tra i due colossi ExxonMobil e Shell. Solo a Schoonebeek le compagnie potrebbero recuperare circa un miliardo di barili di petrolio, mentre a livello mondiale le risorse ancora presenti nei pozzi abbandonati supererebbero i 300 miliardi di barili. "Quando il prezzo del barile si aggirava intorno ai 40-50 dollari non aveva senso dannarsi con quei pozzi. Ora che il greggio viaggia sopra quota 80 dollari sono ridiventati ultra-profittevoli". Applicata anche in Indonesia, Medio Oriente e Russia la ricetta ha permesso di incrementare la produzione di greggio di oltre un terzo, come nel caso dei pozzi russi Samotlor.
Secondo stime della Pfc Energy, un'azienda di consulenza del settore energia, coaudivati dalle International oil company con le migliori tecnologie, paesi come il Brasile, la Russia, l'Iraq e la Nigeria - gli Stati di un altro acronimo alla moda, il Brink - nei prossimi anni saranno in grado di aggiungere oltre 10 milioni di barili di petrolio alla produzione giornaliera mondiale, mentre lo sfruttamento delle sabbie bituminose canadesi entro il 2020 produrrà altri 3,8 milioni di barili al giorno (oggi siamo a quota 1,8 milioni). "Normalmente, con una tale pioggia di greggio in arrivo sul mercato, il prezzo del petrolio sarebbe dovuto crollare o almeno dovrebbero vedersi in giro segnali di nervosismo. E invece le quotazioni continuano a mantenersi a livelli ingiustificabili, sia a fronte del costo d'estrazione che delle dinamiche di mercato", osserva Neil Gamson, analista della Energy information administration, agenzia semigovernativa americana che segue l'andamento delle dinamiche energetiche del Paese. La Eia prevede che il consumo petrolifero statunitense si manterrà ai livelli del 2008 fino alla fine del 2035 e che la crescita del consumo dei carburanti liquidi ( 48 milioni di barili l'anno) verrà coperta dai biocarburanti.
A mantenere il barile in zona 80 dollari contribuiscono svariati fattori, tra cui quelli di carattere industriale (la crescente domanda dei mercati asiatici, con Cina e India che fanno la parte del leone) e quelli di natura finanziaria. "Hedge funds e banche d'investimento giocano un ruolo determinante nel finanziamento di gran parte delle esplorazioni più recenti e inoltre il petrolio è diventato un bene di rifugio per gli speculatori dei futures", è l'opinione di Tom Kloza, direttore di Opis Net, ritenuto uno dei più grandi esperti petroliferi americani. E sebbene le energie rinnovabili stiano guadagnando terreno sui carburanti tradizionali, i petrolieri non hanno troppo di che preoccuparsi.
L'Eia calcola infatti che fino al 2030 il petrolio rappresenterà il 78 per cento del consumo energetico globale. Nel 2008, la Goldman Sachs - sbagliando - prevedeva che il prezzo del greggio al barile sarebbe salito sopra i 200 dollari. Adesso nessuno azzarda più avanzate così clamorose, neppure sotto la spinta possente dei Paesi in via di sviluppo. "L'Iran, che deve al petrolio il 70-80 per cento delle sue entrate, ha basato la sua legge finanziaria per l'anno in scorso su un prezzo intorno ai 60 dollari al barile", sottolinea Di Carluccio. L'Eni lo immagina vicino ai 65 dollari (e intanto, in quattro anni, metterà in pista 41 nuovi campi, che daranno utili già col greggio a 40 dollari). Gli analisti di Barclays Capital ritengono che potrebbe chiudere il 2010 intorno agli 85 dollari e quelli di Julius Baer, che hanno da poco rialzato le stime, lo vedono salire fino ai 95 dollari del 2013. Più caldi gli analisti di Credit Suisse: per loro, il barile di petrolio sarà già in area 100 dollari a metà del 2011. Passerà di moda, prima o poi, l'oro nero. Non tanto alla svelta, però.