I due candidati democratici non si sono ancora pronunciati sul ritorno a casa immediato delle truppe. L'appello anti-militarista di due intellettuali

A cinque anni esatti dall'invasione dell'Iraq, le forze contrarie alla guerra si ritrovano in un bel paradosso: l'opposizione alla guerra è tuttora molto forte ma il nostro movimento pare vacillare. Il 64 per cento degli americani intervistati dai sondaggisti afferma di essere contrario alla guerra in Iraq, ma in realtà non lo si dedurrebbe poi così facilmente dall'affluenza ai raduni e dalle manifestazioni pacifiste organizzate in queste settimane.

Un interrogativo incombe su questo mesto anniversario: perché non si riesce a trasformare questo sentimento di opposizione alla guerra in un efficace movimento contro la guerra? Molti hanno risposto di aver perso fiducia nell'efficacia delle proteste, di aver marciato contro la guerra prima ancora che avesse inizio, in occasione del primo anniversario, poi del secondo e ancora del terzo, e tutto ciò a che pro?

Una cosa è certa: l'amministrazione Bush si è dimostrata impermeabile a questo tipo di pressioni. Ecco perché è giunta l'ora di cambiare tattica. Il movimento di opposizione alla guerra dovrebbe infatti convogliare tutte le proprie energie là dove possono avere ancora un impatto: i candidati democratici alla presidenza. In molti sostengono invece il contrario: affermano che, se vogliamo porre fine alla guerra in Iraq, dovremmo semplicemente scegliere un candidato diverso da John McCain, sostenerlo e aiutarlo a vincere.

Potremo elaborare i dettagli di questa strategia dopo che i repubblicani se ne saranno andati da 1.600 Pennsylvania Avenue: già adesso alcune delle più illustri voci contrarie alla guerra, da MoveOn.org alla rivista per la quale scriviamo, 'The Nation', si sono avviate lungo questa strada, appoggiando in tutto e per tutto la campagna di Obama. Si tratta però, a nostro avviso, di un grave errore di strategia. La dura verità è che, malgrado le loro affermazioni, né Barack ObamaHillary Clinton hanno un piano preciso per porre fine all'occupazione dell'Iraq, ma le cose potrebbero ancora cambiare, grazie alle dinamiche senza uguali di questa lunga battaglia per le primarie.

Alcuni hanno esortato Hillary Clinton a ritirarsi, così che il partito possa compattarsi. Per il movimento contro la guerra, tuttavia, è proprio il fatto che Clinton e Obama stiano ancora duellando e battendosi fieramente per ogni singolo voto a dare peso alla nostra pressione: una volta nominato il candidato democratico, molta di questa pressione andrà persa. Le poste in gioco sono molto alte.

Mentre Clinton e Obama stigmatizzano la guerra con passione e fervore, di fatto entrambi hanno in mente piani dettagliati su come portarla avanti, per quanto riconfezionata e su scala leggermente ridotta. Entrambi affermano di voler mantenere inalterata la Green Zone, compresa la mastodontica ambasciata degli Stati Uniti, e di voler continuare ad avere il controllo dell'aeroporto di Baghdad. Entrambi intendono avere una 'forza d'urto' da adibire all'antiterrorismo ed esperti istruttori statunitensi per addestrare l'esercito iracheno. Oltre a questi soldati americani, la massa dei diplomatici della Green Zone necessiterà di un servizio di sicurezza pesantemente armato, che continuerà a essere fornito dalla Blackwater e da altre società di sicurezza private. Attualmente, a contribuire all'occupazione ci sono tanti contractor privati quanti soldati, il che significa che secondo questi piani decine di migliaia di americani continueranno in futuro a rimanere al fronte in Iraq. Questa non è una guerra ridotta, né un'operazione su piccola scala.

In palese contrasto è l'inequivocabile messaggio lanciato da centinaia di veterani della guerra in Iraq e in Afghanistan, che si sono fatti avanti pubblicamente contro la guerra. Alla storica riunione 'Winter Soldier' di qualche giorno fa a Silver Spring, in Maryland, decine di giovani veterani hanno raccontato le sconvolgenti esperienze vissute in prima persona in zona di guerra. Per i membri dell'associazione Iraq veterans against the war, la priorità adesso non è tanto capire chi vincerà la nomina democratica per le elezioni alla presidenza, quanto porre fine immediatamente alla guerra in Iraq, e secondo loro, c'è un unico modo per farlo: con un ritiro immediato e senza riserve di tutti i soldati e tutti i contractor americani.

Mentre nel partito democratico e nella campagna alcuni hanno cercato di liquidare come irresponsabili le proposte provenienti dagli attivisti contrari alla guerra, non possono farlo altrettanto facilmente e tempestivamente quando provengono dalle migliaia di soldati che hanno prestato servizio al fronte e continuano a prestarlo.

I candidati dal canto loro sanno bene che parte della passione che alimenta le loro campagne nasce dal desiderio di molti democratici che si battono per porre fine a questa rovinosa guerra. È il desiderio di cambiamento ad aver riempito gli stadi e le casse della loro campagna elettorale. Oltretutto, i candidati hanno già dimostrato di essere vulnerabili alle pressioni del campo pacifista: quando 'The Nation' ha rivelato che nessuno dei candidati appoggiava la proposta di legge che intende mettere al bando i servizi della Blackwater e di altre società private di sicurezza in Iraq, Hillary Clinton ha bruscamente cambiato rotta, diventando la leader politica di maggior spicco a sottoscrivere questa proposta, e guadagnando un punto su Obama, che invece si è opposto alla guerra in Iraq sin dall'inizio.

Ebbene, è proprio questo ciò che vogliamo che i candidati facciano: combattere e superarsi a vicenda per dimostrare quanto seriamente intendono porre fine alla guerra in Iraq. Questo genere di sfida su una tale questione ha il potere di elettrizzare l'elettorato e di spazzare via il cinismo che tiene in pugno entrambe le campagne.

Adesso non è il momento di barattare un movimento indipendente contro la guerra con calcoli di parte: noi abbiamo il potere di diventare attori dinamici e di fatto di cambiare il corso della politica americana. Non appena ci schieriamo, invece, ci releghiamo al ruolo di mere ragazze pon pon.

Naomi Klein di recente ha pubblicato 'La dottrina shock: l'ascesa del capitalismo dei disastri'; Jeremy Scahill ha pubblicato 'Blackwater: The Rise of the World's Most Powerful Mercenary Army'. Naomi Klein - 'L'espresso'

traduzione di Anna Bissanti