Lei, Hillary Clinton, 62 anni, sta affrontando la crisi yemenita e deve gestire, da segretario di Stato, le guerre in Iraq, Afghanistan, la delicata questione pakistana. Lui, Henry Kissinger, 85 anni, ricoprì la stessa carica ai tempi del Vietnam con Richard Nixon e poi con Gerald Ford. Qui si confrontano su una professione che non è poi molto cambiata: chiede sempre una dedizione assoluta
Che cosa vi ha sorpresi maggiormente, dopo essere diventati segretari di Stato?
HILLARY CLINTON: "Probabilmente l'intensità del lavoro, che impegna 24 ore al giorno e sette giorni alla settimana. Sembra banale dirlo, ma il mondo è grande e complesso e gli Stati Uniti hanno responsabilità pressoché ovunque. Oltretutto, la natura delle sfide che dobbiamo affrontare non è soltanto bilaterale o multilaterale, ma transnazionale. Per quanto mi riguarda mi risulta difficile cercare di presentare sempre un'agenda propositiva, non reattiva, perché altrimenti potrei finire con l'essere considerata una specie di segretario di Stato alla quale fare pervenire richieste e domande come a una casella di posta elettronica. Non si è mai fuori servizio. Vai in un posto e inizi a lavorare, poi ti trasferisci in aereo in un altro posto e riprendi di nuovo a lavorare. Quando torni a casa, la tua casella dei messaggi è zeppa di richieste".
HENRY KISSINGER: "Quanto dici è alquanto simile alla mia esperienza. Prima di diventare segretario di Stato ero stato consigliere per la Sicurezza nazionale, e sapevo quali faccende arrivano alla Casa Bianca e quali arrivano alla segreteria. Le prime sono più frequentemente strategiche, mentre è di pertinenza del segretario di Stato occuparsi dei rapporti con una molteplicità di interlocutori e paesi diversi. Quindi al termine di ogni singola giornata ti ritrovi a chiederti: "Chi avrò offeso oggi non occupandomi del suo problema?". Non c'è altro modo di svolgere questo lavoro: l'unica è essere vigili 24 ore su 24".
Uno dei problemi ai quali va incontro ogni governo è distinguere tra ciò che è urgente e ciò che è importante, facendo in modo di occuparsi di ciò che è importante, senza lasciare che l'urgente scalzi l'importante. Altra sfida per un segretario di Stato è avere il miglior staff della città a disposizione, ma anche il più indipendente…
KISSINGER: "Con così tanti interlocutori diversi ai quali riferire, far lavorare lo staff verso un obiettivo coerente è un compito immane per il segretario".
CLINTON: "È vero".
KISSINGER: "Anche se ero stato alla Casa Bianca quattro anni in precedenza, non mi ero reso conto della complessità di questo lavoro, e non me ne resi conto finché non mi recai al settimo piano, quello del Dipartimento di Stato".
CLINTON: "A quello che ha detto Henry aggiungerei inoltre che al di là di ciò che è urgente e di ciò che è importante il segretario di Stato deve tenere d'occhio e non perdere di vista i trend a lungo termine, perché ciò che non è né urgente né importante oggi, potrebbe diventarlo prima o poi. E ciò richiede un insieme di competenze completamente diverse. Io scendo ai piani bassi della Casa Bianca e chiedo: "Che cosa stiamo facendo sul versante della sicurezza e dell'indipendenza energetica? Che cosa stiamo facendo per collaborare con l'Europa, così che i Paesi europei approdino a una linea politica comune per soddisfare il loro fabbisogno energetico? Che cosa stiamo facendo in relazione alla sicurezza alimentare?". L'anno scorso ci sono stati subbugli e tumulti un po' ovunque per questo. Si deve tener conto degli schemi che segue il cambiamento del clima, dei flussi migratori. Che cosa stiamo facendo per affrontare le pandemie, o il pericolo dell'influenza H1N1, o i problemi di sanità già presenti? Al centro del nostro interesse - ma non ancora delle prime pagine dei giornali - c'è la questione dell'Artico: i ghiacci si stanno sciogliendo, si aprono canali di comunicazione che non sono mai esistiti. E ci sono cinque paesi che si affacciano sull'Artico, che è un oceano, non terra ferma come l'Antartide. I russi hanno annunciato una spedizione l'anno prossimo per piantare la loro bandiera al Polo Nord, mentre il Canada sta intimando loro di non farlo. Ecco, questa è un'area del pianeta alla quale dobbiamo prestare grande attenzione, anche se nessun giornalista ne chiede conto, e se ancora non devo risponderne alla Casa Bianca. Le cose si pongono in questo ordine specifico: le emergenze, le faccende importanti e quelle a lungo termine".
Quanto conta il rapporto tra presidente e segretario di Stato?
CLINTON: "È di importanza cruciale. Prima di tutto è determinante per la formulazione di una politica, per dare consigli, per avere una prospettiva diplomatica e poter ipotizzare gli sviluppi al tavolo dei negoziati quando sarà il momento di prendere le decisioni. Il rapporto col presidente è fondamentale e bisogna investirci tempo e grande impegno. Io lavoro a stretto contatto non soltanto con il consigliere per la Sicurezza nazionale Jim Jones, ma anche con il segretario alla Difesa Bob Gates. In definitiva, in ogni caso, le decisioni si prendono necessariamente nello Studio Ovale. E quindi non è possibile limitarsi ad andare dal presidente e dirgli: "Ecco, si dovrebbe fare così". Occorre tempo, occorre impegno. Io incontro il presidente ogni settimana in un vertice a quattr'occhi. E partecipo con lui ad altri meeting con il team per la sicurezza nazionale. Il nostro è un colloquio continuo".
KISSINGER: "Sono d'accordo: il rapporto tra presidente e segretario di Stato ha un'importanza cruciale. Il dipartimento di Stato tende a insistere sulle sue prerogative, sul fatto di essere incaricato in via esclusiva della politica estera. Io credo invece che quando fai valere le tue prerogative di fatto hai già perso la battaglia burocratica. Io incontravo il presidente tutti i giorni quando eravamo entrambi a Washington, perché credevo che fosse necessario pensarla nello stesso modo. Sono stato fortunato: ho intrattenuto rapporti molto stretti con entrambi i presidenti sotto i quali ho prestato servizio. Ciò è alquanto raro. Se non esiste un rapporto molto stretto, un segretario di Stato non dura".
CLINTON: "Dal canto mio ho trovato molto difficile affrontare tutti i viaggi che è necessario fare oggi. Si sarebbe portati a credere che in un'epoca in cui le comunicazioni sono istantanee non sia necessario prendere un aereo per partecipare a un vertice. Ma di fatto è come se si avesse un desiderio perfino maggiore di incontrarsi".
KISSINGER: "Infatti, è necessario spiegare di persona quello che si pensa davvero: non lo si può affidare alle linee telefoniche".
CLINTON: "Esatto. Anche perché la stampa - col dovuto rispetto - spesso alimenta timori e ansie che non hanno motivo d'essere. La gente in ogni capitale del mondo si siede a un tavolo per leggere il futuro, cercando di capire che cosa sia meglio fare. E noi dobbiamo viaggiare, incontrarci, parlare, discutere, ascoltare e di sicuro diventa molto difficile gestire tutte queste relazioni quando si passa buona parte del tempo in aereo, come faccio di questi tempi. Avere la stima e la piena fiducia del presidente significa proprio questo: poter viaggiare, tornare e riferire, senza temere di non essere in piena sintonia perché prima di partire si è già discusso di tutto quello che era necessario fare. Ogni paese prende le proprie decisioni in funzione dell'interesse nazionale. Ma ciò che puoi tentare di fare dopo aver dato vita a un rapporto, è offrire ottiche diverse dalle quali considerare un problema o anche un interesse nazionale, cercare un terreno d'intesa comune. E naturalmente vi saranno convergenze maggiori se la persona con la quale parli percepisce di aver già sviluppato una reciproca comprensione con te. Io ho investito tantissimo tempo - come Henry del resto - proprio per tessere questi rapporti. Quello che conta davvero è che tra leader e paesi vi sia fiducia sufficiente così da non dar adito a malintesi, e che si riesca ad apprezzare il punto di vista altrui anche su questioni di dettaglio".
KISSINGER: "La vera difficoltà insorge nel rapporto tra i paesi. Molto spesso emerge un'area confusa, nella quale l'interesse personale non è così evidente né messo in discussione, nella quale sussiste sempre un margine del 2 per cento di incertezza. È dunque importante instaurare un rapporto prima di aver bisogno di qualcosa, così che quando si avviano dei negoziati o insorge una crisi vi è un reciproco rispetto dal quale partire. Quando si viaggia in veste di segretario di Stato uno dei problemi che insorgono è che i giornalisti vogliono risultati concreti e immediati. Talvolta il risultato migliore che si ottiene non è concreto, ma una forma di comprensione che darà i suoi frutti la volta successiva".
Qual è il ruolo della teoria, della dottrina, quando si è seduti a una scrivania o in missione?
CLINTON: "Qui l'esperto è Henry. Io sono semplicemente una persona che pensa che possa essere utile trarre un contesto, un indirizzo, una lezione dalla Storia. Si possono individuare sicuramente esempi vari, ma gli ingredienti per ogni singola sfida che devi affrontare non sono semplici strumenti adatti a tutte le occasioni. Occorre essere in grado di diventare creativi, reattivi, avere l'istinto di riconoscere le opportunità quando si presentano e poi… direi quasi di adattarle alla dottrina in retrospettiva!".
KISSINGER: "Io ho iniziato a lavorare facendo il professore ed ero molto interessato alle teorie e alle dottrine. Ma i professori hanno un bel daffare a cercare di far sì che i loro concetti si dimostrino all'altezza della situazione contingente. Quando si è professori si possono trovare le soluzioni giuste. Quando si è segretari di Stato non vi è pressoché nessuna soluzione che si possa trovare al primo tentativo. La si trova soltanto con tutta una successione di passi".
Siete entrambi segretari di Stato in tempo di guerra. Quali sono le complicazioni che la guerra aggiunge all'esercizio della democrazia?
CLINTON: "Posso soltanto riferirmi all'esperienza di quest'ultimo anno, in cui il presidente Obama si è ritrovato con due guerre e ha dovuto prendere delle decisioni in tempi molto rapidi, senza poter scegliere se adottarle o meno. Gli assegno un voto molto alto per essersi preso tutto il tempo necessario e per aver messo a punto un processo definito affinché noi potessimo esaminare e valutare le sue conclusioni e rivolgergli le domande più difficili. La guerra in Iraq sta per finire, ma a mano a mano che la situazione si allenta e i nostri soldati partono, il Dipartimento di Stato e l'Usaid (United States Agency for International Development) dovrebbero assumersi ancora più responsabilità. Giusto per farle un esempio: l'esercito si è fatto carico di addestrare la polizia irachena. Lo ha fatto con tutte le risorse di cui dispone. E questo non significa soltanto decine di migliaia di persone, ma anche equipaggiamento e flessibilità nel flusso dei finanziamenti che non sono di pertinenza diretta del Dipartimento di Stato o dell'Usaid, ma di cui mi devo fare carico io. Si tratta di un compito complesso. In Afghanistan abbiamo tutti preso parte a un'accurata analisi volta a determinare come proseguire. Da parte dei rappresentanti militari e dei civili la conclusione alla quale si è giunti è che l'esercito da solo non avrebbe avuto successo. Forse si tratta di una conclusione ovvia, ma è pur sempre una conclusione che solleva molti interrogativi ai quali il Dipartimento di Stato e l'Usaid devono rispondere. Di sicuro è molto più facile ottenere le risorse di cui si ha bisogno quando si è alla Difesa rispetto a quando si è al Dipartimento di Stato o all'Usaid. Di conseguenza una buona parte del budget che hai a disposizione va a finire in Iraq, in Afghanistan, in assistenza ai civili in Pakistan. In tempi di ristrettezze di budget, è decisamente più difficile ottenere le risorse che eravamo abituati ad avere, ma le responsabilità restano le medesime. Quindi la tensione, lo stress caratterizzano ogni genere di situazione in tempo di guerra. Se diciamo di voler migliorare l'agricoltura in Afghanistan, significa che il giorno dopo la fine dei combattimenti ci devono essere agronomi sul campo. Questo rende ogni cosa più complessa e aumenta le responsabilità".
KISSINGER: "Vorrei aggiungere che l'esperienza particolare della politica americana in tempo di guerra dal Vietnam in poi è che la guerra stessa è diventata controversa nel Paese e che la cosa più importante e urgente è che la legittimità stessa della guerra non diventi oggetto di conflitti. Naturalmente dobbiamo partire dal dato di fatto che qualsiasi Amministrazione si ritrovi con una guerra a cui vuole por fine".
CLINTON: "È così".
KISSINGER: "Nessuno più dell'Amministrazione in carica ha da rimetterci. Se però ripensiamo ai dibattiti sul Vietnam, sull'Iraq e così via, porre fine a una guerra significa ritirare le proprie forze e questa è l'exit strategy primaria se non addirittura esclusiva. Di fatto, però, la strategia d'uscita migliore da un conflitto è la vittoria. Un'altra è la diplomazia. Un'altra ancora è lasciare che la guerra si estingua da sola. Se invece si identifica la strategia di uscita con il solo ritiro delle forze americane, si trascura l'obiettivo politico. In simili circostanze ci si blocca in una posizione nella quale l'Amministrazione in carica è aggredita per essersi dedicata in modo insufficiente a porre fine alla guerra, e deve al contempo fare scelte che possono essere ritenute contrarie al buonsenso. Spesso ci ritroviamo in una condizione simile. Questo è il mio atteggiamento nei confronti di un'Amministrazione in guerra. Il secondo punto che Hillary ha fatto presente riguarda la questione dei civili, ma ce n'è ancora un terzo, ed è quello che ogni guerra a un certo punto deve trovare un suo esito diplomatico. Il disastro dopo il Vietnam è stato che non abbiamo applicato ciò che era stato negoziato. Qualsiasi sia l'esito dell'Afghanistan dovrà essere favorito e applicato, e ciò dovrà avvenire in un contesto internazionale legale, che ancora non esiste. Io credo che la sfida alla quale deve far fronte il segretario di Stato sia grande, ma il dibattito dovrebbe aver luogo in quell'organismo e non limitarsi a quanti tra di noi chiedono: "Vogliamo davvero porre fine alla guerra? Quanto rapidamente possiamo farlo?". Io do per scontato che l'Amministrazione voglia porvi fine quanto prima possibile. Nell'opinione popolare credo che vi sia la sensazione che prima c'è la diplomazia e subito dopo c'è la forza militare. Questa è una semplificazione, è come parlare di falchi e di colombe".
CLINTON:"Io vorrei che la gente sapesse che si potrebbero inviare altri soldati in Afghanistan, ma che stiamo altresì intensificando i nostri sforzi diplomatici e stiamo facendo il possibile insieme al popolo afgano per ottenere risultati concreti in termini di servizi migliori per loro, il che rientra nella nostra strategia di ciò che è necessario fare per bloccare il ritrovato slancio dei talebani".
KISSINGER: "Quando si crea un forum diplomatico, occorre comprendere che ci deve essere un misto di ricompense e di sanzioni e che la controparte tirerà le sue conclusioni sulla base dei rischi e dei benefici che ne può ricavare. Bisogna essere capaci di costruire tutto ciò, e non si dovrebbe mai mettere un negoziatore da quattro soldi in una stanza, incaricandolo di trovare un compromesso qualunque, né creare l'impressione di una disponibilità a tempo indeterminato. Questa è la sfida che stiamo affrontando in Corea del Nord da dieci anni. La diplomazia e la politica estera devono essere collegati tra loro e il tutto deve essere molto chiaro ai negoziatori. Ecco perché Hillary occupa il posto più interessante nel governo".
CLINTON: "Il mio compito è più quello di un direttore d'orchestra che di un solista".
© "Newsweek" "L'espresso" traduzione di Anna Bissanti