Uno di loro si prepara a perquisire gli uomini che si sono radunati e aspettano in fila, la lunga camicia bianca sugli ampi pantaloni di tela, il giubbetto di lana stretto sul torace e il copricapo pashtun calato in testa. Il generale di divisione Michael Nagata, vice responsabile delle operazioni di soccorso americane, perlustra il territorio con lo sguardo.
Lo sportellone si apre e gli uomini caricano sulle spalle i sacchi di farina da 40 chili regalati dall'agenzia del Programma alimentare mondiale. È una questione di minuti. Gli elicotteri sono svuotati. I soldati americani risalgono velocemente a bordo, con loro i due colleghi pakistani delle forze speciali. Dietro ogni paio di occhi verdi potrebbe nascondersi un talebano. Dietro ogni cespuglio un agguato. Ma anche per oggi la missione è compiuta.
Gli aiuti sono stati consegnati. Una turbinio di vento polveroso e la valle è lasciata nuovamente a se stessa. Queste gole profonde scavate nella montagna sono chiamate il Medioevo del Pakistan dagli abitanti della capitale. Quassù la legge la fanno il Corano e il fucile. Tra queste vette si nascondono ancora i talebani in fuga dalla valle dello Swat, oggi che l'esercito ne ha assunto un controllo sommario. Qui nessuno sa leggere. Non esiste nemmeno la scuola. La mortalità infantile è tra le più alte al mondo. Dei bambini che sopravvivono, uno su cinque rischia di non arrivare ai 15 anni: si farà esplodere in aria prima, in nome di Allah, senza mai avere capito bene il perché.
Le bambine diventano donne a otto anni: smettono i giochi e sono rinchiuse nella loro capanna di fango in attesa di essere date ad un uomo a 12. Da casa usciranno, forse, in occasione di un parto difficile, sempre che il marito glielo permetta e non le lasci morire dissanguate. In queste valli antiche del Kohistan e dello Swat, regioni impervie e bellissime, schiacciate contro il confine afghano, le recenti inondazioni hanno distrutto ponti, smantellato strade e sciolto abitazioni di terriccio e arbusti.
Il governo, impoverito dalla corruzione dei suoi membri, ha fatto poco. I militari hanno reagito a suon di aiuti alimentari e cazzuole. Così quattro mesi dopo, «viviamo meglio che prima delle inondazioni », racconta Aslem 22 anni, uno degli abitanti di Khota Kor, letteralmente il villaggio degli Asini: «Le provviste arrivano dal cielo e le distanze sul nostro territorio si sono accorciate. Se qualcuno sta male adesso lo caricano sull'elicottero e lo portano in ospedale. Siamo molto grati all'esercito e agli americani». Un entusiasmo che potrà servire in futuro: «Gli estremisti vivono in molte delle aree colpite dalle inondazioni», spiega Refat Hussein, professore di Difesa e Studi strategici all'università Quaid-i- Azam di Islamabad: «Le attività di aiuto da parte di governo ed esercito contribuiscono a porre un freno alla diffusione delle idee radicali».
In un Paese che gioca ad acchiappino con l'anarchia, il rapporto tra militari pakistani, soldati americani (che ufficialmente sono impiegati solo in attività logistiche) e popolazione pashtun è cruciale. «I talebani si stanno riorganizzando», spiega Omer, il luogotenente che ha il compito di mettere in sicurezza l'oasi di rifornimento carburante di Maira, a un'ora di elicottero dalla base militare americana di Ghazi da cui partono quotidianamente gli elicotteri che portano i soccorsi nella complicata provincia del Khyber Pakhtunwha: «Ma noi dobbiamo dare alla popolazione un chiaro segnale che siamo qui per restarci. Quando tra sei mesi la regione sarà normalizzata, Inshallah, l'esercito vi costruirà tre basi militari, e la più grande sarà nella città di Mingora (ex roccaforte estremista)». Intanto la frenesia degli aiuti post-inondazioni sta scemando. I militari si occupano sempre meno di civili e sempre più di operazioni militari.
Nella cittadina di Nowshera, un antico avamposto coloniale britannico sulle rive dell'Indo dove le donne moderne indossano il chador o il burqa per andare al mercato, le acque si sono ritirate, le case sono asciutte e gli abitanti, più o meno aiutati dai miseri sussidi statali, stanno ricostruendo le abitazioni. Un raccolto è andato perduto, ma a marzo sarà tempo per seminare il secondo. La tanto temuta diffusione di epidemie non si è verificata, e la diffusione dei kit igienici da parte di ong straniere come l'italiana Cesvi ha portato una nuova consapevolezza sanitaria tra le donne pashtun. Entro la fine dell'anno i campi profughi della zona verranno smantellati.
Certo, rimangono ancora tonnellate di forniture alimentari del Pam. Non è detto che sia un bene, non qui. Creano dipendenza in una popolazione già culturalmente incline a riporre il proprio futuro in mani altrui. Ben diversa la situazione nel sud del Pakistan, nel Punjab meridionale e nella provincia agricola del Sindh, dove i campi coltivati sono ancora sommersi dall'acqua; dove il governo è arrivato con estremo ritardo non dovendo temere l'estremismo islamico; dove alcuni grandi latifondisti che sono poi anche membri del parlamento hanno deviato lo straripamento delle acque dalle proprie terre verso le colline circostanti, cogliendo alla sprovvista i piccoli agricoltori.

E queste ultime sotto forma di mazzette ai politici». Oppressa dalle tasse e dall'inflazione la classe media, che aveva visto nella deposizione del generale Musharraf, motivo di rinnovata speranza, sta scomparendo. Se prima delle inondazioni il 48,6 per cento della popolazione viveva al di sotto della soglia di povertà, adesso due terzi del paese è a rischio sicurezza alimentare. Il tasso ufficiale d'inflazione è al 15,3 per cento, fonti indipendenti lo pongono al 23 per cento. Fatto sta che i prezzi di alcuni alimenti di base sono più che raddoppiati negli ultimi quattro mesi. A spingere in alto i valori non è stata solo la perdita dell'ultimo raccolto, ma anche il rincaro dell'elettricità, del gas e dei trasporti deciso quest'estate dal governo per rientrare nei parametri economici stabiliti dal Fondo monetario internazionale (il Pakistan si mantiene grazie a prestiti stranieri per oltre 65 miliardi di dollari). Senza contare il ruolo nefasto delle piccole lobby interne, come quella dello zucchero, la cui produzione avviene nelle tenute di un manipolo di feudatari/parlamentari: con le inondazioni il prezzo è salito da 20 rupie al chilo a 100 e non c'è stato modo di controllarne l'ascesa. «È una mafia che si arricchisce alle spalle dei più deboli perfino nei momenti di crisi», spiega Suleri: «Non è un caso che i governi di mezzo mondo, al contrario di quanto avvenne dopo il terremoto del 2005, siano riottosi a fare donazioni». Qui la tragedia naturale si è sovrapposta ad una più profonda crisi strutturale di un Paese la cui economia, secondo l'Asian Development Bank, «vive grazie al tempo preso a prestito» e il cui governo, secondo il noto giornalista Imran Khan, è «predatorio » (oltre un terzo della spesa pubblica finisce in corruzione). «Un paese che non evolve si rivolta», tuona il senatore Hazim. Così dovrebbe essere in teoria. Ma in Pakistan una rivoluzione a breve appare improbabile. L'opposizione non ha nessuna intenzione di ricevere con una maggioranza risicata la patata bollente di un Paese al collasso.
I militari guidano la nazione da dietro le quinte, aiutati dalla ventata di popolarità guadagnata sul campo in questi quattro mesi e da un generale, Ashfaq Pervez Kayani, stimato dai suoi e dagli americani per la moderazione. Le chances di un ritorno politico dell'ex presidente Musharraf paventato lo scorso autunno sono state bollate da RichardHolbrooke, il consigliere speciale della Casa bianca su Af-Pak, uguali a quelle che ha Gorbaciov di tornare in sella. L'80 per cento della popolazione è analfabeta e ridotta al ruolo di semplice pedone, incapace di concepire un futuro al di fuori dei propri confini temporali. Semplicemente, mancano gli attori di una rivoluzione. Per il momento, tragicamente, da queste parti la storia si è presa una pausa.